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domenica 31 maggio 2020

A SCUOLA ? IN CERCHIO!

Comitati di esperti e disegnatori si sbizzarriscono nell’immaginare le classi distanziando i banchi come gli ombrelloni sulla spiaggia o i tavoli del ristorante, calcolando il metro tra banco e banco. Naturalmente si suppone che i bambini stiano incollati al banco. “Paulo Freire ha costruito le campagne di alfabetizzazione in circoli di cultura. Freinet eliminò la disposizione frontale… Gli alunni di Milani – ricorda Paolo Vittoria – imparavano intorno a grandi tavoli condividendo la conoscenza come si divide il pane… Perché allora non sgomberare le classi di cattedra e banchi e disporsi in circolo?… E se questi circoli fossero base di attività all’aperto? Magari nei parchi? Avremmo diritto di respirare a contatto con la natura, nell’ampiezza di un ambiente senza confini, viverne l’incanto…”
di Paolo Vittoria

Sul tanto atteso ritorno in aula a settembre si è letto, ascoltato, visto un po’ di tutto. La questione del distanziamento ci ha messo nelle condizioni di ridisegnare l’ambiente scolastico, la stessa idea di scuola. Sulla «didattica a distanza» si sono spese tante parole. Qualcuno l’ha vissuta in modo drammatico e fallimentare; qualcun altro ne ha letto vantaggi e prospettive; qualcun altro ancora, e siamo in tanti, entrambe le cose.
La drammaticità di non vedersi fisicamente, di non incontrarsi, abbracciarsi, tendere una mano, il fallimento di incollare i nostri studenti per ore a uno schermo quando ne avevamo aspramente criticato i rischi fino a un minuto prima. D’altra parte, è emersa la prospettiva di utilizzare i più svariati mezzi di comunicazione, entrando a pieno titolo nei social, insegnando a utilizzarne i linguaggi in modo più consapevole, dialogico, se vogliamo anche erudito nel senso di alto interesse per la cultura. Siamo discretamente entrati nelle case degli studenti e loro nella nostra, con tutta la comicità del caso come quando si parla di libertà e disciplina sullo stile della Montessori e dietro di noi i bambini, chiusi in casa da mesi, corrono all’impazzata strattonandosi la canotta, tirandosi i capelli, rotolandosi sul pavimento.
La DaD, oltre a smascherare la nostra umana imperfezione, ha fatto un’operazione più profonda e filosofica, se vogliamo, ricordandoci la relatività delle distanze. Quante volte ci siamo trovati a un passo, anche meno di un metro, da un tal insegnante e lo abbiamo sentito distante infiniti anni luce. «Buongiorno» – diciamo noi timidamente – «buon-gior-no» – ci risponde già stizzito della nostra presenza e degli ormoni adolescenziali: scandisce la parola come se nel nostro saluto ci fosse qualcosa di sbagliato e non avessimo imparato bene la divisione in sillabe… qualche minuto dopo scorre il registro col suo minaccioso dito e noi a nasconderci dietro al banco.
Questa scuola, si dirà, è superata, ma lo è per tutti? L’impatto psicologico che ne è scaturito è superato? È superata la distanza tra studenti e insegnanti? Come percorrerle queste distanze?
Ed ecco il «compromesso storico» nella più ragionevole delle conclusioni: la DaD non è alternativa alla didattica in presenza, ma integrativa. Condizione necessaria per crescere insieme è incontrarsi nello stesso ambiente, affrontare i problemi, condividere gli spazi, ma dobbiamo anche andar oltre quel luogo fisico. Non basta abitare lo stesso ambiente per essere classe. Bisogna entrare in relazione e le possibilità comunicative, dialogiche, interpretative dei mezzi di comunicazione ci vengono a sostegno per educare all’ascolto, all’interazione: dalla radio ai social.
Eppure resta il problema del distanziamento sociale. Del resto, la didattica deve dare risposte a questioni politiche, sociali, anche sanitarie. Ecco che disegnatori si sono sbizzarriti nell’immaginare la classe distanziando i banchi come gli ombrelloni sulla spiaggia o i tavoli del ristorante, calcolando precisamente il metro tra banco e banco, con tutte le geometrie del caso. Manca solo il plexiglass a tenerci in sicurezza. Naturalmente in questi disegni si suppone che i bambini stiano incollati al banco, perché se solo si muovono insieme dobbiamo stracciare il disegno. In Cina hanno fatto sul serio: a scuola ci sono andati a distanza e con un metro in testa, come nelle più estrose parate di carnevale. A dire la verità, non vorrei essere nei panni di uno di loro, non so voi.

Il pensiero educativo si costituisce anche a partire dalla logica degli spazi. Paulo Freire ha costruito le campagne di alfabetizzazione in circoli di cultura. Freinet eliminò la disposizione frontale e faceva confrontare i ragazzi gli uni davanti agli altri. Gli alunni di Milani imparavano intorno a grandi tavoli condividendo la conoscenza come si divide il pane, in piena convivialità. Perché allora non sgomberare le classi di cattedra e banchi e disporsi in circolo? Si conquisterebbe spazio per la mente, per il dialogo, nella circolarità di pensieri e delle parole, del sentire comune. E se questi circoli, quando possibile, fossero base di attività all’aperto? Magari nei parchi? Avremmo diritto di respirare a contatto con la natura, nell’ampiezza di un ambiente senza confini, viverne l’incanto. La distanza diverrebbe straordinaria occasione da cogliere per riappropriarsi di spazi perduti, anzitutto quelli interiori, costruendo nuove trame in questa narrazione collettiva, chiamata scuola.


Da Il Manifesto

sabato 30 maggio 2020

LO SPIRITO VIENE !

Domenica di Pentecoste 

At 2,1-11/1Cor 12,3-7.12-13/
 Gv 20,19-23

Commento di Paolo Curtaz

 Distanziamento sociale
          Un passo alla volta. Siamo ancora impauriti, storditi. Come plantigradi che escono dalla tana dopo un lungo inverno. La paura è ancora tanta. E non sappiamo ancora se e per quanto tempo saremo in bilico fra il sentirci liberi e guardare come possibile untore ogni persona che incontriamo. Pare che l’unico modo per proteggersi, senza alcuna evidenza scientifica, sia ancora la distanza sociale. Complimenti ai tecnici soprattutto per la loro competenza linguistica. Non bastava dire distanza fisica? No. Sociale. Cioè: le relazioni sono un pericolo. Ecco, bravi. Come se ne avessimo bisogno. E la nostra Chiesa italiana ancora si guarda attorno stranita. Sono iniziate timidamente celebrazioni marziane, che negano la comunità; tutti mascherati, tutti distanti, nessun abbraccio…
Sia, ma fino a quando? Tant’è. Non si tratta di tornare come prima ma di cogliere, di quello che è accaduto, l’insegnamento profondo, le indicazioni per l’anima. È tempo di accogliere il cambiamento. Almeno quello interiore. Tempo di lasciare spazio ad uno sguardo diverso, alternativo, innovativo. Delle persone, della società, dell’essere Chiesa. Difficile, direte. Non ce la facciamo.
Non siamo capaci. Vero. Infatti non dipende da noi, non scherziamo. È tempo di Pentecoste. Finalmente. Shevuot Shevuot, la festa della mietitura, Pentecoste per i fedeli greci che ricordano la sua celebrazione cinquanta giorni dopo Pesah, era una festa agricola che, col passare dei secoli, era stata arricchita da un’altra interpretazione: in quel giorno si ricordava il dono della Torah sul monte Sinai. Israele era molto fiero della Legge che Dio gli aveva consegnato; pur essendo il più piccolo fra i popoli, era stato scelto per testimoniare al mondo il vero volto del misericordioso. Proprio il quel giorno, e non casualmente, Luca situa la discesa dello Spirito Santo. Spirito che era già stato donato, dalla croce e il giorno di Pasqua. Perché ripetere questa effusione? Perché quel giorno? Forse Luca vuole dire ai discepoli che la nuova Legge è un movimento dello Spirito, una luce interiore che illumina il nostro volto e quello di Dio! Gesù non aggiunge precetti ai tanti (troppi!) presenti nella Legge orale, ma li semplifica, li riduce, li porta all’essenziale. Un solo precetto, quello dell’amore, è richiesto ai discepoli. Fantastico, grazie Gesù! Ma cosa significa amare nelle situazioni concrete?
Ecco che lo Spirito ci viene in soccorso. Gesù non dona delle nuove tavole, cambia il modo di vederle, ci cambia il cuore, radicalmente. Oggi festeggiamo la Legge che lo Spirito ci aiuta a riconoscere. Tuoni, nubi, fuoco, vento. Luca descrive l’evento rimandando esplicitamente alla teofania di Dio sul monte Sinai: i tuoni, le nubi, il fuoco, il vento sono elementi che descrivono la solennità dell’evento e la presenza di Dio ma che possono anche essere riletti in una chiave spirituale.
Lo Spirito è tuono e terremoto: ci scuote nel profondo, scardina le nostre presunte certezze, ci obbliga a superare i luoghi comuni sulla fede (e sul cristianesimo!). Lo Spirito è nube: la nebbia ci costringe a fidarci di qualcuno che ci conduce per non perdere la strada della verità. Lo Spirito è fuoco che riscalda i nostri cuori e illumina i nostri passi. Lo Spirito è vento: siamo noi a dover orientare le vele per raccogliere la sua spinta e attraversare il mare della vita! Lo Spirito diventa l’anti-babele: se l’arroganza degli uomini ha portato alla confusione delle lingue, a non capirsi più, la presenza dello Spirito ci fa udire un solo linguaggio, una sola voce. Invochiamo lo Spirito quando non ci capiamo in famiglia, in parrocchia, sul lavoro. Invochiamolo quando non riusciamo a spiegarci.
Lo Spirito fa diventare i pavidi apostoli dei formidabili evangelizzatori: ora non hanno più paura e osano, vanno oltre, dicono senza timore la loro fede e la loro speranza. È la pentecoste: la Chiesa si inebria e diventa missionaria. Lo Spirito Lo Spirito è presenza d’amore della Trinità, ultimo dono di Gesù agli apostoli, invocato da Gesù come vivificatore, consolatore, ricordatore, avvocato difensore, invocato con tenerezza e forza dai nostri fratelli cristiani d’oriente. Senza lo Spirito saremmo morti, esanimi, spenti, non credenti, tristi. Lo Spirito, discreto, impalpabile, indescrivibile, è la chiave di volta della nostra fede, ciò che unisce tutto. Lo Spirito, già ricevuto da ciascuno nel Battesimo, è colui che ci rende presente qui e ora il Signore Gesù. Colui che ci permette di accorgerci della sua presenza, che orienta i nostri passo a incrociare i suoi. Siete soli? Avete l'impressione che la vostra vita sia una barca che fa acqua da tutte le parti? Vi sentite incompresi o feriti? Invocate lo Spirito che è Consolatore che con-sola, fa compagnia a chi è solo. Ascoltate la Parola e faticate a credere, a fare il salto definitivo? Invocate lo Spirito che è Vivificatore, rende la vostra fede schietta e vivace come quella dei grandi santi.

Fate fatica a iniettare Gesù nelle vene della vostra quotidianità, preferendo tenerlo in uno scaffale bello stirato da tirare fuori di domenica? Invocate lo Spirito che ci ricorda ciò che Gesù ha fatto per noi. Siete rosi dai sensi di colpa, la vita vi ha chiesto un prezzo alto da pagare? La parte oscura della vostra vita vi ossessiona? Invocate l’avvocato difensore, il Paracleto, che si mette alla nostra destra e sostiene le nostre ragioni di fronte ad ogni accusa. Così gli apostoli hanno dovuto essere abitati dallo Spirito, che li ha rivoltati come un calzino, per essere finalmente, definitivamente, annunciatori e, allora, solo allora, hanno iniziato a capire, a ricordare col cuore. Se avete sentito il cuore scoppiare, ascoltando la Parola, state tranquilli: c’era lo Spirito che, finalmente, era riuscito a forzare la serratura del vostro cuore e della vostra incredulità! 
Lo Spirito, lui, ci permette di cambiare. Lo Spirito, lui, ci permette di ripartire.



GRANDI SFIDE PER L'OCCIDENTE


- Segnali inquietanti 
da Minneapolis - 

Giuseppe Savagnone

L’ultimo episodio di violenza razziale, a Minneapolis, negli Stati Uniti, agli occhi di molti non fa altro che confermare i tanti segnali inquietanti che ormai da tempo giungono dal Paese in cui il mondo occidentale, dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, si è riconosciuto, accettandone l’egemonia non solo economica e politica, ma anche, in larga misura, culturale.
I fatti
I fatti sono noti: un afroamericano di 46 anni, George Floyd, è morto dopo essere stato fermato da un agente di polizia bianco, che lo ha fatto scendere dalla sua auto «perché sembrava drogato», lo ha immobilizzato e per nove minuti gli ha tenuto il ginocchio pressato sul collo, ignorando le disperate invocazioni dell’uomo: «Non riesco a respirare!».
La polizia di Minneapolis ha archiviato il decesso parlando di un «incidente medico», ma un video aveva registrato tutta la scena e, immesso nella rete, è diventato virale. Qualche ora dopo, il capo della polizia della città ha comunicato il licenziamento dei quattro agenti che avevano partecipato all’arresto. Ma intanto migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro un omicidio il cui significato razzista è stato subito evidente. Lo stesso sindaco di Minneapolis, Jacob Frey, sui suoi profili ha scritto che «essere nero negli Stati Uniti non dovrebbe equivalere a una sentenza di morte».
La rabbia degli afroamericani
Non si tratta, infatti, di un caso isolato. Nel 2014 un altro afroamericano, il diciottenne Michael Brown, era stato ucciso da alcuni colpi di pistola sparati da un agente della polizia di Ferguson in Missouri, dopo aver commesso una rapina, pur non essendo armato. Nello stesso anno, in circostanze molto simili a quelle di Floyd, Eric Garner, anche lui afroamericano,  rimase soffocato durante un tentativo di arresto da parte della polizia di New York.
Anche il coronavirus ha evidenziato il permanere negli Usa di disuguaglianze economiche e sociali che hanno reso più fragili latinos e afroamericani rispetto ai bianchi e li ha esposti a percentuali di mortalità decisamente superiori.
Non stupisce l’esplosione di rabbia della comunità afroamericana di fronte a questo nuovo atto di discriminazione e di violenza. Il commissariato di Minneapolis è stato incendiato, molti negozi sono stati assaltati e saccheggiati, per fronteggiare i disordini è stato necessario a un certo punto mobilitare la Guardia nazionale.
Il permanere delle disuguaglianze
L’immagine oleografica, spesso circolata, di un Paese che è riuscito ad armonizzare felicemente le differenti etnie presenti sul suo territorio, esce profondamente scossa. E la memoria va alle dure lotte sostenute da uomini come Martin Luther King – che ne hanno pagato il prezzo sulla loro pelle – per giungere a una reale uguaglianza tra bianchi e neri. Le conquiste ci sono state – anche se è stato necessario attendere il 1964 perché una legge dichiarasse illegali le disparità di registrazione nelle elezioni e la segregazione razziale nelle scuole, sul posto di lavoro e nelle strutture pubbliche in generale –, ma evidentemente non sono venute meno le resistenze a livello culturale. Soprattutto in alcuni Stati del Middle West – quelli in cui i bianchi frustrati e impoveriti hanno votato in massa per Trump – la mentalità liberal, aliena dal razzismo, stenta ad attecchire.
Una cattiva alternativa
Anche perché essa stessa, per altri versi, presta il fianco all’accusa di essere  collegata alla cinica logica neocapitalista, che sacrifica le persone alla finanza e avalla un individualismo basato unilateralmente sui diritti, senza tenere conto della solidarietà verso i più deboli (non si dimentichi che l’alternativa a Trump, nelle elezioni del 2016, era Hillary Cinton, grande sostenitrice degli interessi delle banche e promotrice entusiasta di “Planned Parenthood”, l’organizzazione che raccoglie le cliniche abortiste degli Usa).
La libertà del neocapitalismo
Si inserisce in questo quadro inquietante l’ondata di risentite proteste che si sono svolte, con l’incoraggiamento del presidente Trump, in varie città degli Stati Uniti, contro le misure di confinamento decise dai governatori degli Stati più colpiti. Nel Michigan uomini armati hanno invaso il Parlamento locale per protestare contro il lockdown decretato dalla governatrice Gretchen Whitmer davanti al dato che il Michigan era il quarto Stato più colpito degli Stati Uniti.
La logica della protesta è che la libertà – in particolare quella economica – è una priorità anche rispetto alla vita fisica (soprattutto quella dei più deboli: si è già notato che a pagare in percentuale maggiore sono gli afroamericani e i latini). A rifiutare con più decisione ogni forma di chiusura a tutela della salute degli operai è stata l’industria delle armi, che negli Stati Uniti costituisce una lobby potentissima e che gode di un ampio sostegno non solo dal presidente, ma dall’opinione pubblica, restia ad ogni limitazione del libero commercio in questo ambito.
Frammenti di un quadro più complesso
Sono solo frammenti di un quadro complesso, che deve sicuramente tenere conto anche dei tanti aspetti positivi della società americana e che non può essere usato per avallare il facile anti-americanismo da sempre di moda in Italia. È vero però che essi costituiscono degli indizi di una fragilità sociale e culturale degli Stati Uniti, che in realtà è sempre esistita, ma che lo strapotere economico e tecnologico ha a lungo nascosto.
C’è bisogno di Europa già a livello politico
Prenderne atto, però, sarebbe sterile se non si accompagnasse alla presa di coscienza che l’Occidente ha bisogno, davanti alle grandi sfide già in corso (come quella con il mondo islamico) e a quelle che si profilano all’orizzonte (in primo piano quella con la Cina), di poter contare sull’Europa.
Questo è vero già sul piano politico. Il costante impegno di Trump di alimentare le divisioni interne del continente europeo per scoraggiarne l’unità politica, è da questo punto di vista assolutamente miope e dimostra solo l’inadeguatezza, in questo come in tanti altri casi, del moto «America first», “prima l’America”. Perché è vero che degli Stati Uniti d’Europa sarebbero per gli americani un partner di ben diverso peso e un concorrente anche economico assai più agguerrito, ma anche un alleato molto più capace di assumere le proprie responsabilità.
Al di là di una dipendenza
Le contraddizioni e le debolezze culturali degli Stati Uniti evocano però soprattutto l’esigenza di una rinascita della coscienza europea proprio su questo piano. Il declino politico ed economico dell’Europa l’ha portata per troppo tempo ad essere subalterna al suo “Grande Fratello” d’oltreoceano anche sul piano culturale. Lo stesso anti-americanismo a cui accennavo è in fondo un segno di questa dipendenza, simmetrico peraltro all’americanismo per altri versi imperante (si pensi al dominio culturale dell’inglese e al dilagare della terminologia di questa lingua anche nel nostro linguaggio corrente).
L’Europa alla ricerca di se stessa
L’Europa ha una civiltà che non va contrapposta a quella americana, ma che certamente ha radici assai più antiche e profonde. Deve però ritrovare la sua anima. Assistiamo in questi giorni, di fronte alla sfida della pandemia, a timidi tentativi di recuperare il senso di una solidarietà che in passato è stata sempre messa in ombra (si pensi al caso della crisi della Grecia). L’Europa è alla ricerca di se stessa. Ma questa ricerca non si può concretizzare solo nel dibattito sul recovery fund. Bisogna ritrovare un patrimonio di valori comuni, attingendo ad una tradizione ricchissima, che non può essere frettolosamente liquidata, ma che ha bisogno di essere riletta e reinterpretata creativamente. Per evitare che le contraddizioni degli Stati Uniti determinino il tramonto irreversibile dell’Occidente.




venerdì 29 maggio 2020

PENTECOSTE. SUGGERIMENTI DELLO SPIRITO PER I CRISTIANI DI OGGI


Le parole di Papa Francesco sullo Spirito Santo, “lo sconosciuto della nostra fede” che opera tutto in modo nascosto: dona la gioia, la pace, l’amore, ci fa vivere da risorti, quali figli di Dio. Grazie a Lui possiamo guardarci come fratelli
Sergio Centofanti

Lo Spirito Santo fa tutto, ma non si vede. Si possono vedere i suoi effetti, ma occorre un cuore aperto. È umile, Amore nascosto, è Dio. Parla ogni giorno, sommessamente, in mezzo al nostro frastuono. Bisogna fare silenzio per ascoltarlo. Ma chi è e cosa ci dice lo Spirito?

Senza lo Spirito Santo non siamo cristiani
È “lo sconosciuto della nostra fede” dice Papa Francesco (Omelia a Santa Marta, 13 maggio 2013): eppure, senza di Lui non siamo cristiani, non esiste la Chiesa né la sua missione. Senza di Lui viviamo una doppia vita: cristiani a parole, “mondani” nei fatti.

Lo Spirito ci fa vivere da risorti
Lo Spirito “non è una cosa astratta”, è una Persona che ci cambia la vita: com’è accaduto agli apostoli, ancora timorosi e chiusi nel Cenacolo, nonostante avessero visto Gesù risorto, e dopo Pentecoste “impazienti di raggiungere confini ignoti” per annunciare il Vangelo, senza più paura di dare la vita. “La loro storia ci dice che persino vedere il Risorto non basta, se non lo si accoglie nel cuore. Non serve sapere che il Risorto è vivo se non si vive da risorti. Ed è lo Spirito che fa vivere e rivivere Gesù in noi, che ci risuscita dentro” (Omelia di Pentecoste, 9 giugno 2019).

Diventiamo figli di Dio e fratelli tra di noi grazie allo Spirito
La nuova vita, quella vera di risorti, è “riallacciare la nostra relazione col Padre, rovinata dal peccato”. Questa è la missione di Gesù: “toglierci dalla condizione di orfani e restituirci a quella di figli” amati da Dio. “La paternità di Dio si riattiva in noi grazie all’opera redentrice di Cristo e al dono dello Spirito Santo”. È grazie a questa relazione col Padre e col Figlio che “lo Spirito Santo ci fa entrare in una nuova dinamica di fraternità. Mediante il Fratello universale, che è Gesù, possiamo relazionarci agli altri in modo nuovo, non più come orfani, ma come figli dello stesso Padre buono e misericordioso. E questo cambia tutto! Possiamo guardarci come fratelli” (Omelia di Pentecoste, 15 maggio 2016).

L’uomo spirituale porta concordia dov’è conflitto
Noi dobbiamo sempre diminuire, Gesù deve sempre crescere in noi. Il rischio è di servirsi di Cristo più che servirlo. La via è uscire da noi stessi, allontanandoci dal nostro egocentrismo. È possibile grazie alla preghiera che suscita in noi lo Spirito. “Quando spezziamo il cerchio del nostro egoismo, usciamo da noi stessi e ci accostiamo agli altri per incontrarli, aiutarli, è lo Spirito di Dio che ci ha spinti. Quando scopriamo in noi una sconosciuta capacità di perdonare, di amare chi non ci vuole bene, è lo Spirito che ci ha afferrati” (Omelia a Istanbul, 29 novembre 2014). Chi vive secondo lo Spirito “porta pace dov’è discordia, concordia dov’è conflitto. Gli uomini spirituali rendono bene per male, rispondono all’arroganza con mitezza, alla cattiveria con bontà, al frastuono col silenzio, alle chiacchiere con la preghiera, al disfattismo col sorriso”. “Per essere spirituali” occorre mettere lo sguardo dello Spirito “davanti al nostro” (Omelia di Pentecoste, 9 giugno 2019).

Lo Spirito crea l’unità nella diversità
La divisione tra i cristiani è uno dei grandi scandali che allontana dalla fede. Il diavolo divide, mentre “lo Spirito fa dei discepoli un popolo nuovo”, perché “crea un cuore nuovo”. “A ognuno dà un dono e tutti raduna in unità. In altre parole, il medesimo Spirito crea la diversità e l’unità”, “l’unità vera, quella secondo Dio, che non è uniformità, ma unità nella differenza”. Occorre resistere “a due tentazioni ricorrenti. La prima è quella di cercare la diversità senza l’unità. Succede quando si formano schieramenti e partiti, quando ci si irrigidisce su posizioni escludenti … magari ritenendosi i migliori … si diventa tifosi di parte anziché fratelli … Cristiani di destra o di sinistra prima che di Gesù; custodi inflessibili del passato o avanguardisti del futuro prima che figli umili e grati della Chiesa. Così c’è la diversità senza l’unità. La tentazione opposta è invece quella di cercare l’unità senza la diversità” e tutto diventa “uniformità, obbligo di fare tutto insieme e tutto uguale, di pensare tutti allo stesso modo”. Invece, lo Spirito “crea la diversità” e poi “realizza l’unità: collega, raduna, ricompone l’armonia” (Omelia di Pentecoste, 4 giugno 2017).

Lo Spirito del perdono è il collante che ci tiene insieme
L’unità è possibile nel perdono. “Gesù non condanna i suoi, che lo avevano abbandonato e rinnegato durante la Passione, ma dona loro lo Spirito del perdono. Lo Spirito è il primo dono del Risorto e viene dato anzitutto per perdonare i peccati. Ecco l’inizio della Chiesa, ecco il collante che ci tiene insieme, il cemento che unisce i mattoni della casa: il perdono. Perché il perdono è il dono all’ennesima potenza, è l’amore più grande, quello che tiene uniti nonostante tutto, che impedisce di crollare, che rinforza e rinsalda. Il perdono libera il cuore e permette di ricominciare: il perdono dà speranza, senza perdono non si edifica la Chiesa. Lo Spirito del perdono, che tutto risolve nella concordia, ci spinge a rifiutare altre vie: quelle sbrigative di chi giudica, quelle senza uscita di chi chiude ogni porta, quelle a senso unico di chi critica gli altri. Lo Spirito ci esorta invece a percorrere la via a doppio senso del perdono ricevuto e del perdono donato” (Omelia di Pentecoste, 4 giugno 2017).

Dio ci parla ancora oggi
Lo Spirito di verità non smette di parlare, ci fa entrare sempre più pienamente nel senso delle parole di Gesù. È la novità del Vangelo, di una Parola sempre viva, perché il cristianesimo, come dice il Catechismo della Chiesa cattolica, non è una “religione del Libro”, “una parola scritta e muta”, ma della Parola di Dio, cioè il Verbo incarnato e vivente. “La novità ci fa sempre un po’ di paura, perché ci sentiamo più sicuri se abbiamo tutto sotto controllo, se siamo noi a costruire, a programmare, a progettare la nostra vita secondo i nostri schemi, le nostre sicurezze, i nostri gusti. E questo avviene anche con Dio. Spesso lo seguiamo, lo accogliamo, ma fino ad un certo punto; ci è difficile abbandonarci a Lui con piena fiducia, lasciando che sia lo Spirito Santo l’anima, la guida della nostra vita, in tutte le scelte; abbiamo paura che Dio ci faccia percorrere strade nuove, ci faccia uscire dal nostro orizzonte spesso limitato, chiuso, egoista, per aprirci ai suoi orizzonti. Ma, in tutta la storia della salvezza, quando Dio si rivela porta novità … trasforma e chiede di fidarsi totalmente di Lui” (Omelia di Pentecoste, 19 maggio 2013).

Le resistenze allo Spirito Santo: la tentazione di addomesticarlo
“È sempre presente in noi la tentazione di fare resistenza allo Spirito Santo, perché scombussola, perché smuove, fa camminare, spinge la Chiesa ad andare avanti. Ed è sempre più facile e comodo adagiarsi nelle proprie posizioni statiche e immutate. In realtà, la Chiesa si mostra fedele allo Spirito Santo nella misura in cui non ha la pretesa di regolarlo e di addomesticarlo. E la Chiesa si mostra fedele allo Spirito Santo anche quando lascia da parte la tentazione di guardare sé stessa. E noi cristiani diventiamo autentici discepoli missionari, capaci di interpellare le coscienze, se abbandoniamo uno stile difensivo per lasciarci condurre dallo Spirito. Egli è freschezza, fantasia” che “non riempie tanto la mente di idee, ma incendia il cuore” e spinge a “un servizio di amore, un linguaggio che ciascuno è in grado di comprendere” (Omelia a Istanbul, 29 novembre 2014).

Missione è portare al mondo la gioia dello Spirito
Senza lo Spirito Santo non esiste la missione. Infatti, la missione non è opera nostra, è un dono. La Chiesa ha bisogno di evangelizzatori che si aprano “senza paura all’azione dello Spirito Santo” che “infonde la forza per annunciare la novità del Vangelo con audacia (parresia), a voce alta e in ogni tempo e luogo, anche controcorrente” (Evangelii gaudium, 259). Si tratta di evangelizzatori consapevoli che “la missione è una passione per Gesù ma, al tempo stesso, è una passione per il suo popolo” (EG 268). Gesù vuole “che tocchiamo la carne sofferente degli altri” (EG 270). “Nel nostro rapporto col mondo siamo invitati a dare ragione della nostra speranza, ma non come nemici che puntano il dito e condannano” (EG 271). “Può essere missionario solo chi si sente bene nel cercare il bene del prossimo, chi desidera la felicità degli altri” (EG 272): “se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita” (EG 274). La gioia, la pace, l’amore, sono frutti dello Spirito.



RAGAZZI A SCUOLA. PERCHÉ NO ?

 «Basta bimbi chiusi in casa La didattica a distanza? Ha causato danni educativi»

Giorgio Tamburlini, presidente del Centro per la salute del bambino di Trieste: «Il rischio di contagio tornando in aula è basso, non possiamo permetterci di perdere altri mesi»

di Nicoletta Martinelli

Esporsi al rischio di contagio, è il minore dei mali: peggio sarebbe, per i bambini – e in special modo per i più piccoli – vedersi sottrarre altro tempo prezioso, continuare a essere privati delle tante esperienze indispensabili a una crescita sana ed equilibrata. «Questa non può essere un’estate come le altre. E non possiamo permetterci di perdere anche questi mesi. Settembre è lontano e bisogna agire adesso». È categorico Giorgio Tamburlini, pediatra, presidente del Centro per la salute del bambino di Trieste e membro del Comitato scientifico dell’International Society for Social Pediatrics and Child Health:, insieme ad altri 22 autorevoli colleghi ha compilato un appello rivolto al governo perché l’infanzia sia messa al centro del decreto Rilancio.
Perché agire subito?
Perché i danni provocati dalla chiusura delle scuole, così protratta, sono stati tanti e altri ne avremo. La didattica a distanza non è stata efficace, la mancanza di sostegni per i bambini con difficoltà di apprendimento, la povertà, anche culturale, di certi contesti familiari hanno esacerbato le situazioni già problematiche. E anche là dove i bambini hanno avuto a disposizione la tecnologia necessaria e genitori supplenti dei maestri, questa situazione non è stata indolore. La maggior parte dei piccoli ha accumulato un ritardo educativo. Sarà arduo recuperarlo e non possiamo permettere che peggiori.
Eppure, non pare così scontato che a settembre le scuole riapriranno.
Devono aprire. E anche prima di settembre. Il rischio di contagio tornando in aula è molto basso. Per diversi motivi. Prima di tutto, numerosi studi effettuati in più Paesi e da differenti gruppi di ricerca, dimostrano che i bambini si ammalano molto poco. E quando si ammalano presentano sintomi lievi. Con poche eccezioni.
La Francia, che vive una situazione molto simile alla nostra, ha rischiato riportando i bambini in classe, e sembra abbia avuto ragione.
Ma certo. Perché, venendo al secondo punto della questione, il rischio di venir contagiati in classe, in una situazione controllata e garantita, è minore di quello che si avrebbe restando a casa. Si torna a frequentare i nonni, i parenti, gli amici, le baby sitter. Le relazioni tornano a moltiplicarsi e così pure le possibilità di entrare a contatto con il virus.
È possibile minimizzare questi rischi?
Sicuramente. A patto di fare scelte equilibrate, che riducano al minimo la possibilità di contagio, da una parte, e dall’altra mettano fine a questa prolungata mancanza di apporti e rapporti educativi, di socializzazione.
Cosa intende?
Bisogna accettare e spiegare che il rischio tornando in classe non è pari a zero. Però, è uno zero virgola, sempre basso. Bastano le solite precauzioni. E norme ragionevoli. È necessario che gli adulti, educatori e insegnanti, osservino le regole che tutti conosciamo, che indossino la mascherina e che abbiamo un’anamnesi pulita nell’ultimo mese. Che gli ambienti siano sanificati. Se le norme sono esagerate, finiscono per scoraggiare ogni iniziativa.
E se poi il contagio arriva?
E dove si è stati contagiati? Dentro o fuori quello spazio? È impossibile stabilirlo. Ma non si possono mettere i dirigenti scolastici o i responsabili degli spazi ricreativi di fronte a questa spada di Damocle. L’eccesso di scrupoli paralizza. E non serve a nessuno. Tantomeno ai bambini.





giovedì 28 maggio 2020

A SCUOLA IN SETTEMBRE. LE LINEE DIRETTIVE DEL MINISTERO


Tornare a scuola in presenza, ma anche e soprattutto in piena sicurezza. 
È questo l’obiettivo del Governo e del Ministero dell’Istruzione, che ha ricevuto oggi dal Comitato tecnico-scientifico istituito per l’emergenza coronavirus il documento con le misure per il rientro a settembre.

“Il Governo è al lavoro per riportare tutti gli studenti in classe. Questo documento è la cornice in cui inserire il piano complessivo di riapertura: poche semplici regole, soluzioni realizzabili che ci permetteranno di tornare tra i banchi in sicurezza”, spiega la Ministra Lucia Azzolina. “A questo documento si unirà quello del Comitato di esperti del Ministero dell’Istruzione che offrirà spunti che guardano alla ripresa di settembre, ma anche oltre: l’uscita da questa emergenza, come abbiamo sempre detto, deve diventare una straordinaria spinta per migliorare il sistema di Istruzione e per promuovere l’innovazione didattica”.
“Dal Comitato tecnico-scientifico arriva un contributo importante per riaprire le nostre scuole in sicurezza. A questo obiettivo il Governo dedicherà ogni energia”, prosegue il Ministro della Salute, Roberto Speranza.
“Quello fatto per la scuola è stato un lavoro impegnativo, che ha l’obiettivo di conciliare il contenimento del rischio di contagio con il recupero della normale attività per studenti e lavoratori del mondo dell’Istruzione. Sarà importante, nelle prossime settimane, mantenere cautela e responsabilità nei comportamenti da parte di tutti per poter garantire il rientro nelle classi a settembre”, chiude Agostino Miozzo, coordinatore del Comitato tecnico-scientifico.
Il distanziamento fisico, le misure di igiene e prevenzione sono i cardini del documento. Previsto il distanziamento interpersonale di almeno un metro, considerando anche lo spazio di movimento. Questa distanza andrà garantita nelle aule, con una conseguente riorganizzazione della disposizione interna, ad esempio, dei banchi, ma anche nei laboratori, in aula magna, nei teatri scolastici. Si passa a due metri per le attività svolte in palestra.
Il consumo del pasto a scuola va assolutamente preservato, spiega il documento, ma sempre garantendo il distanziamento attraverso la gestione degli spazi, dei tempi (turni) di fruizione e, in forma residuale, anche attraverso l’eventuale fornitura del pasto in “lunch box” per il consumo in classe.
Andranno limitati gli assembramenti nelle aree comuni. Saranno valorizzati gli spazi esterni per lo svolgimento della ricreazione, delle attività motorie o per programmate attività didattiche.
La presenza dei genitori nei locali della scuola dovrà essere ridotta al minimo. Sempre per evitare il rischio assembramento, saranno privilegiati tutti i possibili accorgimenti organizzativi per differenziare l’ingresso e l’uscita delle studentesse e degli studenti, attraverso lo scaglionamento orario o rendendo disponibili tutte le vie di accesso dell’edificio scolastico.
All’ingresso della scuola non sarà necessaria la rilevazione della temperatura corporea. Ma chiunque avrà una sintomatologia respiratoria o temperatura superiore a 37,5° dovrà restare a casa. Sarà importante rispettare, da parte di tutti, questa regola, per ridurre le possibilità di contagio.
Ciascuna realtà scolastica procederà ad una mappatura e riorganizzazione dei propri spazi in rapporto al numero di alunni e alla consistenza del personale con l’obiettivo di garantire quanto più possibile la didattica in presenza, anche avvalendosi di spazi in più grazie a collaborazioni con i territori e gli Enti locali.
Prima della riapertura della scuola sarà prevista una pulizia approfondita di tutti gli spazi. 
Le pulizie, poi, dovranno essere effettuate quotidianamente. Saranno resi disponibili dispenser con prodotti igienizzanti in più punti della scuola. Sarà necessario indossare la mascherina. Gli alunni sopra i 6 anni dovranno portarla per tutto il periodo di permanenza nei locali scolastici, fatte salve le dovute eccezioni, ad esempio quando si fa attività fisica, durante il pasto o le interrogazioni, come già accadrà per gli Esami di Stato del II ciclo. 
Gli alunni della scuola dell’infanzia non dovranno indossare la mascherina, come previsto per i minori di 6 anni di età. Non sono necessari ulteriori dispositivi di protezione.
Potranno essere organizzate apposite esercitazioni per tutto il personale della scuola, per prendere dimestichezza con le misure previste.

                                                              Documento tecnico







POST PANDEMIA: FACCIAMO EMERGERE I FIUMI DELLA SOLIDARIETA'


Peréz Esquivel: facciamo emergere i fiumi sotterranei della solidarietà

In una intervista de L'Osservatore Romano, il Nobel della pace argentino, da sempre difensore delle minoranze latinoamericane, parla del suo continente nei confronti della crisi scatenata dal Covid-19: "Siamo alla fine di un’epoca dell’umanità. Bisogna perciò riconsiderare le strade da percorrere tenendo conto di quello che la pandemia si lascerà dietro"

di Piero Di Domenicantonio

Anche dalla sua casa a Buenos Aires, dove la pandemia l'ha costretto a restare confinato, Adolfo Peréz Esquivel – ottantotto anni, premio Nobel per la pace nel 1980 – non si è fermato un momento, continuando a spendersi per quella che è la causa della sua vita: stare dalla parte di chi non ha voce per reclamare pane, pace e giustizia. «Anche in questi giorni stiamo lavorando molto – racconta –. Cerchiamo di dare aiuto a quelle persone che Papa Francesco chiama gli “scartati”. A Tartagal, nella provincia di Salta, a più di 200 chilometri da Buenos Aires, stiamo sostenendo le comunità indigene dei Wichís. Hanno bisogno di acqua potabile e pensavamo di aiutarli a costruire un pozzo, ma non sapevamo da che parte cominciare. Poi, proprio quando non sapevamo più che fare, è arrivata la telefonata di Alfredo, un mio ex studente che non sentivo da anni. “Io so come si fanno pozzi per l'acqua”, mi ha detto, “se vuoi glielo insegno io”».
Un bel colpo di fortuna?
No, non credo nella casualità.
Di crisi Adolfo Peréz Esquivel ne ha conosciute molte durante la sua vita. E le ha sempre affrontate “sporcandosi le mani” e pagando di persona quando in gioco sono la vita e la dignità dei più deboli. Anche per lui, però, la pandemia da Covid-19 rappresenta un evento inedito che cerca di leggere alla luce del suo appassionato impegno civile e della sua fede “francescana”. Come si sta affrontando la pandemia in America Latina?
Il Covid-19 si è diffuso in tutti i Paesi dell'America Latina con gravi conseguenze. Gli ambienti sociali più colpiti sono quelli più poveri dove manca l'acqua, c'è carenza d’igiene e di cibo. Penso alle villas miserias, alle favelas, alle callampas, ai tugurios: la povertà cambia nome in ogni Paese, ma ovunque ha lo stesso volto. Il governo argentino cerca di portare aiuti e ha adottato particolari misure sanitarie nei quartieri più poveri. Ma, nonostante la grande solidarietà sociale, gli sforzi non bastano mai. Il presidente ha detto: “un’economia si può recuperare, una vita no. La vita del popolo ha la priorità”. Si è così riusciti a contenere e a rallentare la diffusione del virus con le misure igieniche, il controllo sanitario e l'isolamento. Ma questi stessi provvedimenti hanno avuto gravi ripercussioni sulle attività commerciali, culturali, educative e religiose, dove l'alta concentrazione di persone genera la paura del contagio. 
La “Comisión Provincial por la Memoria”, che presiedo, tiene sotto osservazione la situazione nelle carceri e nei commissariati attraverso il “Comité contra la tortura”. Le carceri sovraffollate sono come dei depositi umani e in simili condizioni nessuno ne può uscire bene. Il fatto che stiano scontando una pena e siano privati della libertà non deve comportare per i detenuti la perdita dei loro diritti come cittadini. In diversi istituti di pena ci sono state delle rivolte proprio per mancanza di assistenza sanitaria e per la repressione attuata dalle guardie carcerarie di fronte a queste richieste.
Ma oltre all'emergenza sanitaria c'è anche quella sociale...
In tutto il continente latinoamericano, come nel resto del mondo, le conseguenze sul piano sanitario della pandemia rappresentano un forte condizionamento per lo sviluppo economico e sociale: milioni di morti e un alto indice di disoccupazione e di povertà. La situazione è aggravata dalla forte pressione esercitata sui popoli dal capitale finanziario attraverso lo strumento del “debito estero”. È una situazione che può portare il mondo verso una “pandemia della fame”. Occorre affrontare questo pericolo e prepararsi per tempo. Siamo alla fine di un’epoca dell’umanità. Bisogna perciò riconsiderare le strade da percorrere tenendo conto di quello che la pandemia si lascerà dietro. Bisogna sapere cosa fare il “giorno dopo” e iniziare a costruire nuovi paradigmi di sviluppo umano. Cosa sta accadendo ai popoli indigeni dell'Amazzonia?
Le comunità indigene dell’Amazzonia hanno lanciato un urgente appello di fronte alle violenze che subiscono e alla distruzione dell'ambiente che viene attuata incendiando la foresta e devastando la fauna e la biodiversità. Hanno denunciato la persecuzione che subiscono da parte dei proprietari terrieri, molti dei quali assoldano bande armate per impossessarsi del territorio e cacciare i popoli indigeni, condannandoli alla fame e all’estinzione.
Papa Francesco ha detto più volte che nessuno si salva da solo...
Papa Francesco fa appello alla coscienza e al cuore dei potenti e dice che “nessuno si salva da solo”. Per costruire una società dove il diritto e l’uguaglianza siano validi per tutti è necessario diffondere la cultura della solidarietà.
“Dinanzi a megalopoli con altissima densità di popolazione e problemi strutturali tra le fasce dei ricchi e quelle degli esclusi, i poveri, è necessario promuovere la cultura della solidarietà e della ripartizione dei beni con i più bisognosi. Non bisogna dimenticare che il problema del prossimo è un problema di tutti.”
Solidarietà tra gli uomini ma anche con la natura. E' questo il senso dell'iniziativa della Costituente per la Terra di cui si è fatto promotore?
La Costituente per la Terra, nata per iniziativa di Raniero La Valle, risponde al bisogno dell’umanità di generare nuovi cammini attraverso i quali rifondare il “contratto sociale” basandolo su un nuovo costituzionalismo mondiale che garantisca a tutti il rispetto dei diritti fondamentali, come ad esempio quello alla salute, all'istruzione, alla pace e che salvaguardi l'ambiente. Lo spiega bene Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’ quando richiama la responsabilità di ciascuno come custode della casa comune, sottolineando l’urgenza di ristabilire l’equilibrio tra la Madre Terra e i beni destinati allo sviluppo dell’essere umano. Dobbiamo tener presente che l'uomo non è il padrone della natura: siamo parte di essa e dobbiamo rispettarla, prendercene cura per il bene dell’intera umanità.
La comunità internazionale, al termine della seconda guerra mondiale, ha fissato attraverso l'Onu codici di condotta, come la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, patti e protocolli al fine di fissare norme di convivenza tra le persone e i popoli. Purtroppo ci sono Paesi che non li rispettano. Basti pensare alla grave situazione che vivono i popoli sottoposti alla violenza, i rifugiati che fuggono dal proprio Paese, vittime di conflitti armati, della fame e del cambiamento climatico. Molti uomini, donne e bambini perdono la vita in mare, che è diventato la fossa comune di migliaia di rifugiati che lasciano la propria terra alla ricerca di nuovi orizzonti di vita e di speranza. Con lo Statuto di Roma, nel 1998, è stato istituita la Corte penale internazionale alla quale è affidata la competenza di giudicare chi si macchia di crimini contro l’umanità. È il tempo di riformare questa istituzione affinché possa perseguire anche i crimini compiuti contro la natura, visto che al momento non c’è un quadro giuridico che regoli i delitti ambientali. È urgente proteggere beni come l’acqua, i fiumi e i mari, le foreste, la fauna e la biodiversità che sono la grande ricchezza che la Madre Terra ci offre e che oggi più che mai sono in pericolo.
Per tutelare la nostra salute, tutti in questi mesi abbiamo provato che cosa significhi essere privati di alcune libertà. Che cosa può insegnarci questa esperienza?
La pandemia da Covid-19 ci ha presentato situazioni inedite a livello planetario. Al momento non ci sono vaccini o antidoti per sconfiggere il Covid-19. Anche i Paesi con grandi risorse economiche e scientifiche sono vittime della pandemia. Le uniche modalità individuate fino ad ora per contenere la diffusione della pandemia sono state il distanziamento e l'adozione di misure igieniche in casa e negli altri luoghi che frequentiamo. Tutto questo non va visto come una perdita di libertà, ma come qualcosa di necessario per proteggere noi stessi e gli altri.
Il Covid-19 ha messo allo scoperto limiti e fragilità dei nostri modelli di sviluppo. Come potremo evitare di fare gli stessi errori?
Di fronte a società segnate dall’individualismo e dal consumismo, dinanzi a megalopoli con altissima densità di popolazione e problemi strutturali tra le fasce dei ricchi e quelle degli esclusi, i poveri, è necessario promuovere la cultura della solidarietà e della ripartizione dei beni con i più bisognosi. Non bisogna dimenticare che il problema del prossimo è un problema di tutti. Le misure sanitarie imposte dai governi attraverso la quarantena hanno generato difficoltà che hanno avuto un forte impatto sulla società, sulle attività lavorative e sullo sviluppo economico, sulle scuole e sui centri educativi che sono stati costretti a chiudere. Hanno inoltre provocato un aumento della disoccupazione con la chiusura di imprese, fabbriche e negozi. Tutto questo ha suscitato grande preoccupazione e angoscia nelle famiglie senza lavoro e ha portato a un aumento della fame e dell’emarginazione. Per dare risposta alla situazione che stanno vivendo migliaia di disoccupati nel mondo sono necessarie nuove politiche sociali ed economiche.
Pensando al dopo pandemia, sappiamo che dovremo essere più prudenti nel rapporto con gli altri. C'è il rischio di accentuare sentimenti di diffidenza e di chiusura?
Bisogna approfittare delle misure di confinamento per disporre meglio del tempo, per meditare, pregare, riflettere e prendersi cura della propria salute fisica e mentale. Per analizzare in quale direzione sta andando l’umanità di fronte alla situazione che sta vivendo, per pensare al “giorno dopo”. Molti atteggiamenti e comportamenti sociali, politici ed economici che finora sembravano luoghi comuni, stanno subendo profondi cambiamenti che stanno trasformando l’educazione, i servizi sociali, le relazioni umane tra le persone e i popoli e con la Madre Terra. Il confinamento non voluto ha posto un freno alla voragine dell’accelerazione del tempo e ha mostrato il bisogno di recuperare l’equilibrio con il tempo naturale, di avviare un dialogo in famiglia; di superare l’individualismo e riuscire a stabilire nuovi rapporti sociali, culturali, politici e spirituali che aiutino a sviluppare la solidarietà e la speranza.
I popoli, per poter illuminare il presente, devono fare memoria del loro cammino e della storia vissuta tra angosce e speranze, devono vedere i bisogni degli indigenti, come pure la situazione dei rifugiati. È necessario che i governi e la comunità internazionale adottino politiche per accoglierli fraternamente e non innalzino muri che discriminano, escludono e provocano violenza per l’intolleranza e l’odio.
Qual è la sua preghiera in questo tempo tormentato?
Abbiamo bisogno della preghiera per camminare nella vita. Per questo invoco il "Padre nostro" perché mi conceda la forza dello spirito. Le altre preghiere che mi accompagnano sono quella di san Francesco, “Signore fai di me uno strumento di pace”, e quella dei fratelli della fraternità di Charles de Foucault: “Padre Mio, mi pongo nelle tue mani”.
C'è speranza per il futuro?
Una poesia di Antonio Machado dice: “viandante, non c’è cammino, il cammino si fa andando”. La mia speranza è nei giovani che devono scoprirsi e scoprire i cammini della vita, la spiritualità, i valori. Devono sapere che tra le luci e le ombre dell’esistenza c’è sempre la speranza di costruire un altro mondo più giusto e fraterno tra eguali.
Occorre far emergere i fiumi sotterranei, quelli che non scorrono in superficie ma che esistono e che in alcuni momenti della storia dei popoli acquistano forza e affiorano, trascinando nel loro flusso tutto ciò che incontrano. Così i giovani, gli uomini e le donne, devono smettere di essere spettatori. Devono diventare protagonisti della loro vita e costruttori della propria storia. Papa Francesco li ha sfidati dicendo loro: “hagan lío”, “fatevi sentire”. I giovani devono essere come i fiumi sotterranei che affiorano con la forza della vita e della speranza.