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venerdì 29 maggio 2020

RAGAZZI A SCUOLA. PERCHÉ NO ?

 «Basta bimbi chiusi in casa La didattica a distanza? Ha causato danni educativi»

Giorgio Tamburlini, presidente del Centro per la salute del bambino di Trieste: «Il rischio di contagio tornando in aula è basso, non possiamo permetterci di perdere altri mesi»

di Nicoletta Martinelli

Esporsi al rischio di contagio, è il minore dei mali: peggio sarebbe, per i bambini – e in special modo per i più piccoli – vedersi sottrarre altro tempo prezioso, continuare a essere privati delle tante esperienze indispensabili a una crescita sana ed equilibrata. «Questa non può essere un’estate come le altre. E non possiamo permetterci di perdere anche questi mesi. Settembre è lontano e bisogna agire adesso». È categorico Giorgio Tamburlini, pediatra, presidente del Centro per la salute del bambino di Trieste e membro del Comitato scientifico dell’International Society for Social Pediatrics and Child Health:, insieme ad altri 22 autorevoli colleghi ha compilato un appello rivolto al governo perché l’infanzia sia messa al centro del decreto Rilancio.
Perché agire subito?
Perché i danni provocati dalla chiusura delle scuole, così protratta, sono stati tanti e altri ne avremo. La didattica a distanza non è stata efficace, la mancanza di sostegni per i bambini con difficoltà di apprendimento, la povertà, anche culturale, di certi contesti familiari hanno esacerbato le situazioni già problematiche. E anche là dove i bambini hanno avuto a disposizione la tecnologia necessaria e genitori supplenti dei maestri, questa situazione non è stata indolore. La maggior parte dei piccoli ha accumulato un ritardo educativo. Sarà arduo recuperarlo e non possiamo permettere che peggiori.
Eppure, non pare così scontato che a settembre le scuole riapriranno.
Devono aprire. E anche prima di settembre. Il rischio di contagio tornando in aula è molto basso. Per diversi motivi. Prima di tutto, numerosi studi effettuati in più Paesi e da differenti gruppi di ricerca, dimostrano che i bambini si ammalano molto poco. E quando si ammalano presentano sintomi lievi. Con poche eccezioni.
La Francia, che vive una situazione molto simile alla nostra, ha rischiato riportando i bambini in classe, e sembra abbia avuto ragione.
Ma certo. Perché, venendo al secondo punto della questione, il rischio di venir contagiati in classe, in una situazione controllata e garantita, è minore di quello che si avrebbe restando a casa. Si torna a frequentare i nonni, i parenti, gli amici, le baby sitter. Le relazioni tornano a moltiplicarsi e così pure le possibilità di entrare a contatto con il virus.
È possibile minimizzare questi rischi?
Sicuramente. A patto di fare scelte equilibrate, che riducano al minimo la possibilità di contagio, da una parte, e dall’altra mettano fine a questa prolungata mancanza di apporti e rapporti educativi, di socializzazione.
Cosa intende?
Bisogna accettare e spiegare che il rischio tornando in classe non è pari a zero. Però, è uno zero virgola, sempre basso. Bastano le solite precauzioni. E norme ragionevoli. È necessario che gli adulti, educatori e insegnanti, osservino le regole che tutti conosciamo, che indossino la mascherina e che abbiamo un’anamnesi pulita nell’ultimo mese. Che gli ambienti siano sanificati. Se le norme sono esagerate, finiscono per scoraggiare ogni iniziativa.
E se poi il contagio arriva?
E dove si è stati contagiati? Dentro o fuori quello spazio? È impossibile stabilirlo. Ma non si possono mettere i dirigenti scolastici o i responsabili degli spazi ricreativi di fronte a questa spada di Damocle. L’eccesso di scrupoli paralizza. E non serve a nessuno. Tantomeno ai bambini.





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