L’emergenza costringe a ripensare le pratiche didattiche.
E
rivalutare il digitale
Pier Cesare Rivoltella
Il bisogno, l’emergenza, le situazioni estreme sono il
momento in cui ci si accorge del valore delle cose. È vero per tante esperienze
della vita: in questi giorni lo si sta sperimentando anche per la scuola,
l’università, la possibilità della formazione. Lo capiscono i docenti, privati
dei loro studenti; lo capiscono gli studenti, cui sono sottratte le relazioni
con maestri e amici.
Occorre partire da qui per provare a comprendere il
significato di quello che da più parti, anche se impropriamente, viene definito home
schooling. Si fa lezione, si impara, si studia a casa, ma non perché
si sia scelta questa situazione come alternativa alla scuola (è quel che capita
nell’educazione parentale, l’home schooling vero), bensì
perché lo stato del contagio ci ha costretti a questo. Sarebbe più opportuno
parlare di smart learning, o di smart teaching, dove
lo smart allude alle possibilità che la tecnologia ci
garantisce di surrogare l’impossibilità della presenza. Gli ambienti di
videocomunicazione, le piattaforme eLearning, le applicazioni
per l’apprendimento a distanza come un modo per non rimanere deprivati di tutto
ciò che la scuola, dall’infanzia all’Università, rappresenta.
L’ esperienza
non è nuova nel nostro Paese, anche se forse ce ne siamo dimenticati. La formazione
per corrispondenza nel secondo Dopoguerra aveva risposto al bisogno di
manodopera specializzata. La Scuola Radioelettra di Torino rappresenta in
questa prospettiva un momento importante della nostra storia. Come Telescuola,
il protocollo di intesa tra la Rai e il ministero dell’Istruzione che aveva
pensato alla televisione come strumento di massa per la lotta all’analfabetismo
e l’innalzamento dei livelli culturali della popolazione: il volto del maestro
Manzi e le trasmissioni di Non è mai troppo tardi ne sono una pagina
indimenticabile. E poi la stagione della FAD, la formazione a distanza, la
nascita dei primi centri universitari alla fine degli anni 90 – il CARID
all’Università di Ferrara, il CEPaD all’Università Cattolica di Milano –
l’esperienza del consorzio Nettuno fino al decreto Moratti/Stanca che sancisce
la nascita delle università telematiche.
Nel frattempo la scuola, con il
Piano Nazionale per l’Informatica e il primo Piano di Sviluppo delle Tecnologie
Didattiche, tra anni 70 e 80 aveva cominciato a ridurre il gap con gli altri
Paesi europei. Da lì erano seguite le stagioni del multimedia in classe, delle
Lim, delle classi 2.0, con l’Indire a svolgere una funzione importante
nell’affermare, anche nella formazione degli insegnanti, la cultura
dell’eLearning e dell’uso della tecnologia. Occorre ricordare questi passaggi
per capire che quel che di positivo sta succedendo oggi tra classi di scuola e
aule universitarie non è frutto del caso ma di un lungo percorso di
preparazione. Anche se poi, nell’opinione diffusa, alla formazione a distanza
si è finito per associare l’idea di qualcosa che ha meno valore rispetto alla
formazione fatta in aula, in presenza.
M a cosa sta succedendo oggi? Stante lo stop alle
attività didattiche in presenza, il ricorso alla tecnologia sta
garantendo che la scuola e l’università non si fermino. Certo, la
situazione è a macchia di leopardo, c’è chi lavora più e meno bene,
ci sono esperienze di eccellenza e altre che andrebbero riviste.
Ma è importante che tutti ci stiano provando e, soprattutto, che ci si
accorga che non è solo un problema di tecnologia. Non basta mettere
gli studenti davanti allo schermo di un computer o assegnare
loro compiti attraverso il registro elettronico. Occorre che tutto
questo si inserisca all’interno di una progettazione didattica, si avvalga di
una regia metodologica.
L’apprendimento on line richiede un’attenzione particolare
allo studente, ne vanno gestite la motivazione e l’attenzione. Non basta
'mandare in onda' la lezione e continuare a parlare come si sarebbe fatto in
aula. Va studiata una sceneggiatura: materiali da mettere a disposizione prima,
indicazioni di lavoro precise, ricorso alla comunicazione sincrona (chat e
videocomunicazione) per chiarire i dubbi, discutere i problemi. E poi si tratta
di favorire la cooperazione tra gli studenti: il vero valore aggiunto della
tecnologia è la possibilità della condivisione, di lavorare in gruppo. Si
tratta di una modalità di lavoro che già dovrebbe appartenere alla normale didattica
degli insegnanti e che ora le condizioni eccezionali in cui siamo costretti a
muoverci stanno rendendo necessaria. Qui troviamo un primo aspetto di
grande rilievo.
È probabile che il virus stia riuscendo laddove anni di
politiche educative hanno fallito: costringerci tutti a riflettere sulle nostre
pratiche didattiche, studiare nuove forme per renderle efficaci, fare tutto
questo in vista dello studente.
Si scopre così che il digitale si può rappresentare
diversamente. Non è solo ciò che erode spazio alle nostre relazioni,
indebolisce i legami sociali, genera una vera e propria dipendenza. Al
contrario il digitale può riallestire il tessuto sociale, creare le condizioni
perché le persone si riavvicinino, generare nuove reti di rapporti e di significati.
Le tecnologie diventano allora tecnologie di comunità. Significa porsi il
problema del divario ed eliminarlo: accorgersi che molti non hanno connessione,
non hanno strumenti, non posseggono gli alfabeti, e creare le condizioni perché
questi impedimenti siano superati. Significa chiedersi come fare inclusione nei
confronti di chi fa fatica, soffre una disabilità, sconta la differenza della
lingua e della cultura: sono di comunità le tecnologie se sanno trasformare
tutto questo in una diversità che arricchisce e non in un ostacolo che aggiunge
separazione. Significa attivare i territori. Le 'aule digitali' sono aperte:
aperte ai genitori, alla comunità locale con le sue risorse, alle altre agenzie
educative. Da questa crisi possiamo uscire più forti, più coesi, più uniti. È
in questi momenti che il capitale sociale può essere ripristinato e questo nel
caso della comunità cristiana aggiunge valore al valore.
C’ è un rischio. Che finita l’emergenza si torni alla
normalità: la vecchia didattica trasmissiva, il 'bla bla bla' per dirla con
Paulo Freire. Occorre lavorare a che non succeda. E per farlo serve pensare che
la qualità della relazione non è una questione di formati o di strumenti e che
il digitale non è un’alternativa alla presenza ma una sua dimensione. La
relazione è il risultato dell’intenzionalità educativa, è la consapevolezza che
l’altro è al centro della mia attenzione. E il digitale può essere uno dei modi
per mantenercelo. Lo è se diviene carezza nei momenti di sconforto, supporto
nei momenti di difficoltà, legame nelle situazioni di solitudine, presenza
quando si sperimenta l’assenza. Capitava già prima del virus: nelle scuole in
ospedale, nei progetti di istruzione domiciliare, nelle scuole dei piccoli
plessi, in tutte quelle situazioni in cui tanti docenti anonimi, senza
protagonismi, hanno sempre dato testimonianza di cosa significhi insegnare.
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