È urgente
una
maturazione etica
- - Giuseppe Savagnone *
Il coronavirus ci chiede di essere virtuosi. O meglio – in un
contesto culturale come il nostro, in cui delle virtù da molto tempo si parla
solo per farsene beffe –, di riscoprire l’importanza di esserlo.
Può sembrare strano, ma è il messaggio che emerge dalla drammatica escalation di
questa epidemia e, soprattutto, dalle reazioni degli italiani all’emergenza.
Perché proprio ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi ci costringe a
prendere atto che, senza una maturazione etica, che consenta ad ognuno di
distinguere il bene dal male nelle situazioni concrete e lo disponga ad agire
di conseguenza, una società non solo non è in grado di vivere in modo veramente
umano – questo purtroppo avveniva già prima del virus, anche se veniva nascosto
da un’apparente normalità –, ma, nei momenti di prova, com’è quello attuale,
non riesce neppure a sopravvivere.
L’attualità
delle virtù
Perché questo sono le virtù: non la repressione dei nostri desideri; non
la moralistica sottomissione a regole convenzionali – come una loro corrente
caricatura vorrebbe far credere –, ma disposizioni interiori che plasmano
il modo di essere di una persona e la portano a comportarsi spontaneamente in
modo ragionevole, degno della sua umanità, consentendole sia di realizzarsi che
di contribuire efficacemente alla vita buona delle comunità a cui appartiene.
Basta leggere i giornali per rendersi conto che la grande minaccia contro
cui ormai da molti giorni le autorità e gli esperti sono disperatamente mobilitati
non è rappresentata solo dal coronavirus in quanto tale, ma dalla
superficialità e dall’irresponsabilità di una parte della popolazione, che non
sembra neppure rendersi conto delle conseguenze devastanti di certi suoi
comportamenti.
Comportamenti
irresponsabili
È stato possibile, così, che tanti, per non rinunziare alle proprie
abitudini, abbiano ostinatamente disatteso l’invito pressante a non creare
assembramenti e abbiano tranquillamente continuato ad affollarsi nei locali
della movida, sulle spiagge e perfino nelle stazioni sciistiche. Che si siano
ancora organizzate grandi feste private, in cui in realtà l’invitato principale
era il virus, e si sia addirittura deciso di darsi allo jogging – mai
praticato prima! –, contravvenendo alle reiterate raccomandazioni di non
uscire di casa. Per non parlare delle migliaia di persone che, apprendendo da
una imperdonabile fuga di notizie dell’imminenza del decreto che vietava di
abbandonare la zona rossa, si sono riversate sui treni per ritornare alle loro
regioni di origine, portando in regalo il virus alle proprie famiglia –
particolarmente grati sono stati i nonni – e a città e paesi che fino ad allora
ne erano stati relativamente immuni.
Si è evidenziato, così, un vuoto di educazione civica che, a sua volta,
ha le sue radici in una carenza di senso morale e che ha indotto molti ad
anteporre i propri interessi al rispetto per gli altri e alle esigenze del bene
comune.
Il vuoto
etico c’era già
Il coronavirus ha portato alla luce, in realtà, il frutto di decenni di
cultura televisiva improntata alle logiche del successo, del guadagno,
dell’immagine, che hanno fatto crescere intere generazioni all’insegna del
“prima io”, dilatato poi in forme di privato allargato quando il tornaconto
dell’individuo coincideva con quello collettivo, ma sempre a prescindere da
ogni sforzo di discernimento tra il bene e il male.
E del resto una certa ideologia “progressista” aveva da tempo provveduto
a combattere e in parte a liquidare, come bieca eredità del moralismo cattolico,
l’dea che vi siano davvero un bene e un male in sé, sottolineando piuttosto il
primato assoluto della coscienza del singolo, sostanzialmente insindacabile e
sottratta ad ogni criterio oggettivo di valutazione.
È andata in questo senso una sistematica sottolineatura della
irrinunciabilità dei diritti, nel totale silenzio sui doveri. E la conseguente
dissoluzione del senso di appartenenza
alle comunità strutturalmente irriducibili a società per azioni
– perché dotate di propri fini verso cui tutti dovrebbero sentirsi
responsabili –, come la famiglia e la nazione.
Essere
virtuosi senza etichette
È con questa libertà senza responsabilità, fedele alleata del
coronavirus, che oggi si stanno battendo le autorità, i medici, gli infermieri,
i quali in questa situazione dimostrano invece, per fortuna – soprattutto
il personale sanitario impegnato nelle zone più duramente colpite –, che
le virtù esistono ancora.
Con la precisazione che, per essere virtuosi, nel senso autentico del
termine, non si richiede alcuna etichetta, alcuna professione di grandi
princìpi, religiosi o laici, ma semplicemente quella maturità umana che spinge
una persona a fare fino in fondo quello che è giusto, anche se costa sacrificio
e comporta dei seri rischi.
Il virus sta, così, evidenziando l’importanza, al di là della deriva
individualistica della nostra cultura, del ritorno ad un’etica della
responsabilità, che garantisca l’equilibrio dei singoli e il loro corretto
rapporto con la comunità.
L’ombra
dell’autoritarismo
Senza un recupero di questo intimo senso di responsabilità, proprio la
libertà – quella vera – potrebbe essere messa in pericolo. Non per
caso la soluzione che da più parti in questo momento viene proposta, per porre
un freno al virus, è il ricorso a misure restrittive e coercitive sempre più
rigide e soffocanti, a sanzioni più pesanti, all’intervento dell’esercito. Se
la gente non capisce da sola che le sue scelte non riguardano solo chi le fa,
più o meno follemente, ma anche gli altri – tutti gli altri – , viene
spontaneo ipotizzare che la sola via per impedire il caos sia il ricorso alla
forza.
Ma il rischio che così si corre è che, a un modo sbagliato di concepire e
di esercitare i diritti, si risponda limitando, e perfino sospendendo, i
diritti come tali. Che alla scomposta trasgressione delle direttive
dell’autorità si pretenda di rimediare con il ricorso all’autoritarismo. Perciò
qualcuno, magari esagerando, evoca già dei pericoli incombenti sulla democrazia
e rivendica il valore del dissenso e della protesta, anche nel tempo del
coronavirus incombente.
Un modo
fazioso di fare opposizione
Rivendicazione ineccepibile, purché chi si fa portatore di questo
dissenso sappia andare oltre le logiche di parte di questo o quel partito e
cerchi di contribuire, anche attraverso le sue critiche, al miglioramento di
ciò che di positivo si sta facendo e non una pura e semplice delegittimazione
del governo.
E che qualcosa di buono si stia facendo, sia pur tra mille incertezze ed
errori, lo dimostra l’apprezzamento dell’Organizzazione Mondiale della
Sanità e il fatto che tutti gli altri paesi, dopo un’iniziale resistenza,
stanno seguendo la stessa strada. Eppure dall’inizio di questa crisi i
rappresentanti dell’opposizione e i giornali che fanno capo ad essi non hanno
fatto passare giorno senza demonizzare la persona e le scelte di Giuseppe
Conte, non solo denunziando i limiti della sua azione (che ci sono davvero), ma
attaccandolo prima perché chiudeva le scuole e i ristoranti, poi perché non
chiudeva abbastanza, e così via.
Non è un modo virtuoso di intendere la dialettica democratica, che deve
sempre fondarsi su un reciproco riconoscimento e sulla leale cooperazione di
governo ed opposizione in vista del bene comune. L’unità è un valore decisivo
nei momenti di emergenza, ed è molto importante anche a questo livello un
maggiore senso di responsabilità da parte di tutti.
Uscire da
una perversa alternativa, per essere migliori
Il solo modo di uscire dalla perversa alternativa fra il caos e
l’autoritarismo è dunque il recupero di una dimensione etica che il coronavirus
ci costringe oggi a riscoprire e a mettere alla base della nostra vita privata
e pubblica. Questo potrebbe essere un guadagno anche rispetto al recente passato.
Siamo tutti sempre più consapevoli che dopo questa epidemia nulla sarà più come
prima. Ci si permetta di sperare che tra tanti cambiamenti indesiderati ce ne
sia almeno uno – il ritorno delle virtù – che ci abbia reso migliori.
*Direttore
Ufficio Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo.
Scrittore ed Editorialista.
Scrittore ed Editorialista.
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