Da Berardinelli a Valduga,
passando per Conte, Luzi, Magrelli e Merini, Vita e Pensiero raccoglie in volume undici saggi usciti sulla
rivista in cui altrettanti poeti fanno il punto sul senso di scrivere versi
oggi.
di ALESSANDRO ZACCURI
La domanda è sempre la stessa e anche le risposte, in fondo, non variano
mai troppo. «Perché i poeti nel tempo del bisogno?», si chiedeva Friedrich
Hölderlin in un verso divenuto celeberrimo grazie alla lettura che ne diede
Martin Heidegger. Appunto: perché la poesia quando tutto il resto intorno
sembra spingerci in un’altra direzione? Probabilmente perché ogni tempo è
«tempo del bisogno» ed è proprio questa mancanza che ci convince a dare ascolto
ai poeti. «La poesia – quando è tale – è sempre ricerca e desiderio di
salvezza, per sé e per il mondo intero», scrive l’italianista Uberto Motta
nella prefazione a La parola e la cosa, il volume edito
da Vita e Pensiero nel quale trovano spazio una dozzina di “saggi sulla
resistenza della poesia”. Originariamente apparsi sulla storica rivista
dell’Università Cattolica tra il 2003 e il 2017, i contributi comprendono in
realtà anche un paio di interviste, per la precisione quella ad Alda Merini
raccolta nel 2003 da Alessandro Gamba (il poeta, afferma l’autrice della Terra
Promessa, «è una persona che è impazzita di felicità, cioè che paga su
di sé, anche fisicamente, l’esperienza della felicità») e quella realizzata da
Roberto Mussapi con Mario Luzi alla fine dello stesso anno, in vista del
novantesimo compleanno del grande poeta fiorentino. «La poesia deve agire »,
ribadisce Luzi durante la conversazione, e forse basterebbe questo appello a
un’efficacia da dispiegare «intimamente ma anche esteriormente» per risolvere
la questione della perenne inattualità del canto. Di primo acchito, La
parola e la cosa è a sua volta un libro intempestivo, clamorosamente
fuori sincrono rispetto a questi giorni di quarantena collettiva, di timori
privati e di pubbliche preoccupazioni. Non lo è, invece, e non soltanto perché
“la cosa” da cui “la parola” si lascia interpellare potrebbe benissimo essere
lo sfuggente Covid–19. C’è un’altra ragione da tenere in considerazione, un
dato solo in apparenza contingente che in effetti va dritto al cuore
dell’esperienza poetica. Domani, secondo i programmi, si sarebbe dovuta
svolgere presso la Libreria Vita e Pensiero di Milano una presentazione del
libro. Evento cancellato, come ogni altra manifestazione in calendario in
queste settimane, ma prontamente rimpiazzato nella stessa giornata da un reading
online sul canale YouTube della casa editrice, al quale è possibile partecipare
inviando al più presto una email all’indirizzo ufficiostampa. vp@unicatt.it.
Hanno già aderito alcuni degli autori presenti in La parola e la cosa, come
Valerio Magrelli e Giuseppe Conte, a dimostrazione che la poesia riesce
comunque ad agire, nonostante ogni difficoltà.
Ma dalle pagine del libro emergono molti altri buoni motivi per cui della
poesia, adesso, non possiamo fare a meno. Se la poesia stessa è «qualcosa che
accade nel mondo del linguaggio», come osserva Alfonso Berardinelli nel suo
panorama critico del Novecento italiano, ecco che non ci si può che trovare
d’accordo con la richiesta, avan- zata da Maurizio Cucchi, di una
reazione alla lingua «smorta» e a un «parlato […] standardizzato verso
il basso e il banale» che tanti danni ha prodotto nelle prime fasi
dell’emergenza in atto. Chiamata a confrontarsi con l’«indicibile », la
poesia è sempre «una testimonianza dell’esperienza
dello spirito », come ricorda Franco Loi nella sua toccante confessione
autobiografica. In questo, come intuiva nel suo articolo del 2003 il compianto
Luciano Erba, dare ascolto alla poesia significa prestare attenzione alla
«misteriosa figura di scorcio» che, «come in un dipinto del Veronese »,
all’improvviso «attraversa la scena in diagonale, inseguendo un oggetto
indistinto ». Ci sarà pure un problema di mercato, come giustamente lamenta lo
stesso Conte, che pure continua a nutrire una speranza incrollabile nella
poesia («Se dovesse tacere lei, neppure gli uomini, e forse neppure Dio,
sarebbero più gli stessi»), ma tocca a Magrelli ribadire che il pubblico della
poesia non è necessariamente confinato a una ridotta di irriducibili e può
prendere corpo ovunque, sia pure in forme e modalità inattese.
Torniamo al “tempo del bisogno”, che è anzitutto il tempo dello spirito,
nel quale riecheggia la voce del sacro. Elemento comune di molti interventi di La
parola e la cosa, come sottolinea anche Motta, il tema si delinea con
maggiore evidenza negli interventi di Guido Oldani (la poetica del
“realismo terminale”, per cui risulta rovesciato il rapporto tra natura e
manufatto, ha molti punti di contatto con la prosa dei Vangeli) e di Mussapi,
che fa discendere la perdita della dimensione spirituale dalla scarsa
propensione a misurarsi con la realtà: «La rottura del sacro è la rottura del
mistero, della condivisione », sostiene coniando una formula che sarebbe
utilissimo rilanciare in questi giorni. Nel frattempo, mentre scrutiamo i segni
del malessere da cui ci sentiamo minacciati, non resta che accogliere l’invito
di Patrizia Valduga: se volete leggere un poeta, leggete Clemente Rebora, «uno
che ha amato non saggiamente ma troppo bene », senza mai stancarsi di invocare
«una salvezza di tutto, una vera e propria redenzione del mondo » . Di che
altro possiamo avere bisogno, in questo tempo?
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