Il nichilismo antropologico ci assedia e
ci vede solo come materia animata, un semplice momento della vita della natura,
ovvero un frutto casuale dell’evoluzione cosmica.
Nelle correnti più radicali
passa talvolta l’idea che l’essere umano sia un animale mal riuscito, a causa
dello spirito in lui, da cui dobbiamo liberarci.
VITTORIO POSSENTI
Forse nessun problema ha inquietato il pensiero
moderno come quello del nichilismo: crisi dei valori, svalorizzazione di quelli
più alti, relativismo intellettuale e morale, dissoluzione dell’idea stessa di
verità. E anche un pessimismo crepuscolare orientato al declino, un senso acuto
della finitudine legato alla chiusura della concezione progressiva e ascendente
della storia, che ha animato larga parte della modernità. Vi sono forze di
reazione o il nichilismo sta avendo partita vinta, come l’ultima parola del
pensiero? No, fortunatamente il nichilismo non è il nostro destino: elementi di
rinnovamento si manifestano nel pensiero filosofico, che in varie espressioni
non cede alla critica dell’idea di verità, al relativismo, al totale
oscuramento del senso, che conduce alla paralisi. Eppure vi è nella presente
fase storica una forma di nichilismo che serpeggia, che sembra difficile
debellare e concerne l’uomo: è il “nichilismo antropologico”: l’uomo come
null’altro che materia animata, come semplice momento della vita della natura,
prodotto casuale dell’evoluzione cosmica, l’uomo come passione povera ed
inutile.
Tale nichilismo appare un processo in cui la
concezione “tradizionale” dell’essere umano ha subito una forte manipolazione,
ed è stata sostituita da una in cui l’esistenza della persona non ha vero
senso: “nichilismo come negazione dell’umanità dell’uomo”, così l’enciclica Fides
et ratio individua un carattere primario del nichilismo contemporaneo.
Se la verità dell’essere e dell’uomo si è eclissata per noi, nel senso che ne
abbiamo perso l’accesso, il soggetto si trova entro un turbinio dove nulla sta
fermo e tutto si scinde e dissolve. Nelle correnti radicali si
esprime talvolta l’idea che l’uomo sia un animale mal riuscito a causa della
presenza dello spirito in lui, e che dunque per portarlo ad essere un animale
riuscito e adattato a se stesso, occorra intraprendere una lotta contro lo
spirito per abolirlo, negandone la libertà. Ma se crediamo di essere liberi
senza esserlo, è perché la nostra vista è miope, l’orizzonte che raggiungiamo
limitato: ignoriamo che esistano alternative di vita diverse e più alte di
quelle che ci vengono comunemente presentate. E così la persona, che è un
essere potenziale che punta oltre se stesso, rischia di veder frustrato il
desiderio, spesso deluso ma sempre rinascente, di non essere un prodotto del
caso e della particolare nicchia in cui la vita l’ha posto.
Entro un tale terremoto l’estrema risorsa è porre
qualcosa come significante, volendolo con una volontà che va oltre la mancanza
di senso, e che intenderebbe creare un nuovo ordinamento dell’essere diretto
dall’ideologia della tecnica, secondo la quale tutto è a disposizione e tutto
può essere trasformato. Allora i diritti dell’uomo non potranno esibire una
giustificazione valida, non avranno un fondamento inconcusso, ed an- zi
verranno dichiarati mera convenzione una volta giunta a maturazione l’età della
tecnica con la sua intrinseca volontà di potenza. Questa idea di un fondamento
assoluto è un miraggio del razionalismo moderno che abusa del termine di
fondazione e che, ormai deluso di se stesso, non sa più come far quadrare i
conti. La ragione umana realista non fonda ma giustifica, e nel caso dei
diritti umani li giustifica vedendoli radicati in esigenze fondamentali della
persona umana che è universale, e che anzi costituisce il Diritto
sussistente (Rosmini). Persona e Diritto sono due facce della stessa
medaglia che include l’universalità dei diritti e doveri primari. In questo
senso esiste una base per trovare un accordo o un consenso sui diritti e
doveri, difficile quanto si voglia, ma non arbitrario, in quanto essi parlano
di noi e a noi. Sono espressione di una filosofia dell’uomo e della storia
teleologicamente orientata al compimento di ogni essere umano in cammino
verso un’esistenza meno grama e un riconoscimento di giustizia.
Nell’idea stessa dei diritti e doveri umani è inscritto un finalismo che
mai potrà essere cancellato da alcun nichilismo,
compreso quello giuridico.
Quest’ultimo merita una parola. In esso, secondo la
linea sostenuta da Nietzsche e da Kelsen, si concepisce il diritto come posto
da un qualsiasi volere potente in un certo momento storico: potestas
non veritas facit legem. Oggi non pochi vedono nella tecnica tale
volere più poderoso di ogni altro e a cui tutti gli altri devono sottostare. Ed
è qui che si gioca l’esistenza stessa del Diritto. Il diritto che l’ideologia
della tecnica vuole fabbricare per se stessa è un diritto da essa posto ( positum) o
meglio im–posto. L’esito è agevole dal momento che il positivismo giuridico ha
pensato il diritto solo come posto da una volontà, e non anche e
prioritariamente come immanente alla persona e atto di ordinamento razionale.
Il positivismo giuridico radicale è una vittima del
suo originario movimento antimetafisico, che cerca di togliere di mezzo ogni
nucleo stabile e ogni sapere fermo; esso appare una vera manna per l’ideologia
della tecnica perché le apre dinanzi senza difesa uno spazio sconfinato in cui
essa può fare quello che vuole. Allora il diritto sarà pur un diritto storico e
dinamico, elemento che il giuspersonalista non intende negare, ma la direzione
storica e il suo dinamismo non saranno inerenti alla persona ma imposti dalla
tecnica; avremo la trasvalutazione di tutti i valori come intendeva Nietzsche.
La critica elevata dal positivismo giuridico
radicale contro l’idea di un diritto stabile e proprio della persona, non può
che approdare all’assunto che i diritti e i doveri umani sono qualcosa di
assolutamente contingente e di cui la volontà di potenza può fare a meno. La
diagnosi non è allegra, ma guai a cedere allo scoraggiamento e alla paura, su
cui oggi si fa leva per ottenere un ordine sociale minimo e angosciante, mentre
si disseccano la speranza e il desiderio quali fattori fondamentali della vita.
Alto è il bisogno di un movimento di risveglio antropologico che conduca fuori
dalle attuali strettoie. Nel momento in cui il pensiero raggiunge una verità
adeguata, si può avviare un moto di risveglio: aiutare a uscire da paure e
rifiuti, per dialogare e ripartire. Il risveglio è una necessità inderogabile
della vita, individuale e sociale. Ogni movimento del genere inizia attraverso
un’esperienza spirituale, uno sguardo rinnovato sulla realtà e su noi stessi,
in cui speranza e desiderio si riaccendano: il loro vigore è essenziale
all’uomo per raggiungere una maggiore fecondità di giudizio sulla vita umana.
Le speranze e i desideri relativi all’ideale di giustizia e di unità al quale
aspirano gli uomini sono a lunga scadenza. Possiamo giudicare fortemente le
disgrazie del momento presente a patto di sperare e desiderare ancora più
fortemente un altro cammino: il pessimismo non è una soluzione, e il nichilismo
non può essere il nostro punto di arrivo. Occorre ricostituire la sovranità del
Bene, come invitava a fare Iris Murdoch.
Nessun commento:
Posta un commento