Uno shock che ci costringe a guardare le cose in modo diverso
di Giuseppe Savagnone *
Probabilmente
è troppo presto per capire se l’epidemia del coronavirus (per gli amici,
Covid-19) è un “incidente di percorso”, in una storia che sembrava avviata sui
binari della necessità, o se pone le premesse perché questa storia abbia una
svolta imprevista e imprevedibile. La sola certezza è che lo shock di questa
esperienza ci costringe fin da ora a uscire dai nostri schemi consolidati e a
guardare le cose in modo diverso.
Un fulmine (e che fulmine!) a ciel
sereno
A rendere
traumatica tutta questa vicenda sono stati il suo carattere repentino e le sue
dimensioni planetarie. Fino all’inizio di gennaio – solo due mesi fa!
– nessuno avrebbe potuto sospettare che il mondo fosse sul punto di essere
coinvolto in una sfida che lo avrebbe riguardato nella sua totalità, mettendo
in crisi l’economia, gli stili di vita, la sicurezza non solo di un Paese, o
anche di un continente, ma dell’intero pianeta.
La sorpresa
è stata dovuta alla velocità del contagio. Dal 9 gennaio 2020 – il giorno in
cui le autorità cinesi hanno comunicato ufficialmente l’apparire, nella città
di Wuhan, di un’infezione respiratoria causata da un virus finora sconosciuto –
ad oggi, il Covid-19 si è diffuso con una rapidità incredibile, prima in Cina,
poi nel resto del mondo, facendosi beffe dei “cordoni sanitari” che tentavano
di confinarlo nel suo luogo, o, almeno nel Paese, di origine.
Così, a
differenza di altre varianti di coronavirus apparse nel recente passato – la
Sars (più di 8.000 persone contagiate, con 800 morti) e la Mers (solo 840
contagi, ma con 320 decessi) – questo nuovo virus non si è limitato a
imperversare prevalentemente in Asia, ma oggi è diffuso in tutti i continenti,
con quasi 100.000 contagiati e più di 3.000 morti (numeri ancora provvisori e
purtroppo in costante aumento). Dove è evidente la minore percentuale di
decessi rispetto alle precedenti epidemie, ma lo è anche l’immensa sproporzione
tra la rispettiva capacità di propagazione, da cui deriva un numero maggiore di
morti.
Gli effetti sull’economia
Ma, se
l’impatto di Covid-19 è probabilmente senza precedenti, negli ultimi cento
anni, per estensione, ancora più impressionante è la sua incidenza in profondità
sulla vita delle persone.
A cominciare
dall’economia. Dalla fine del secolo scorso il sistema capitalistico, dopo il
crollo dei regimi socialisti, si era ormai affermato senza alternative. A
scuoterlo non era valsa neppure la grande crisi del 2008.
Covid-19
scompiglia i giochi perché non opera al livello delle merci e del denaro, ma a
quello delle persone. Come conferma il fatto che neppure l’iniezione di
liquidità realizzata da alcune banche centrali, agendo sui soliti meccanismi
finanziari, riesce ad arginare la crisi. E il motivo è semplice. È in gioco qui
l’umana fragilità.
Produttori
di beni o servizi e consumatori si scoprono minacciati nella loro salute e, a
cominciare dai cinesi, abbandonano i ruoli loro assegnati dal mercato, i primi
assentandosi dai loro posti di lavoro per la malattia o per motivi di
sicurezza, i secondi facendo crollare la domanda, soprattutto in settori come
il turismo, la ristorazione, lo spettacolo e i trasporti.
Il Covid-19 smaschera il punto
debole del capitalismo
Dietro la
logica del profitto, dietro i numeri del Pil, appare improvvisamente il volto
di esseri umani che hanno paura, che soffrono, che muoiono. L’economia
mondiale, certo, prima o poi si riprenderà. Ma una crepa si è aperta nel ritmo
frenetico di una società in cui i ritmi di lavoro erano dettati da regole
puramente aziendali. Ora molti sono costretti a fermarsi, perché infettati
o perché in quarantena.
E fermarsi è
incompatibile con la grande legge della nostra società per cui “il tempo è
denaro”. Come lo è l’astenersi dallo shopping, dalle serate in discoteca, dalle
crociere. Da tutto quello che faceva funzionare la grande macchina del
consumismo. Colpendo le persone – quelle che producono e quelle che acquistano,
l’epidemia mette a nudo l’importanza del fattore umano che i numeri
mascheravano e lo mette in crisi. Il virus, oltre ad essere cattivo, è
sovversivo.
Il Covid-19 irride il sovranismo
Ma anche la
politica è interpellata da questa epidemia. Il risorgere delle chiusure
nazionalistiche, con l’affermazione più o meno esplicita del sovranismo, ci
stava quasi facendo dimenticare che la globalizzazione è incompatibile con la
logica del “prima noi”.
E di questa
dimenticanza vediamo tuttora gli effetti nel gioco meschino dei tentativi di
scaricare sugli altri Paesi le colpe e i danni dell’epidemia, cercando di
trarne perfino dei vantaggi per il proprio. L’Italia, dove i sostenitori del
sovranismo hanno trovato in questi ultimi due anni un fertile terreno
propagandistico, all’insegna dello slogan “prima gli italiani”, dopo una fase
in cui ha creduto di poter ancora alzare illusorie barriere protettive, sta ora
sperimentando sulla propria pelle, in questi giorni, la vergognosità di questa
corsa a demonizzare gli “altri” e l’umiliazione di vedere i propri cittadini
respinti indietro.
Ma il
coronavirus, nella sua corsa spietata, sta dimostrando di non essere
impressionato dalle frontiere e, con la sua malvagità, ci costringe a
ricordarci di essere affratellati nella sventura dal nostro essere
uomini. Torna alla mente che Einstein, entrando negli Stati Uniti, nel
modulo che bisognava riempire, alla voce “razza”, scrisse: “umana”.
Proprio
perché non ha nazionalità, Covid-19 ci attacca non perché cinesi o italiani, ma
perché esseri umani, in un mondo globalizzato dove si rivelano più che mai vere
le parole del poeta inglese John Donne (1573-1651): «Nessun uomo è un’isola,
completo in se stesso./ Ogni uomo è un pezzo del continente,/ una parte del
tutto./ Se anche solo una zolla fosse portata via dal mare,/ l’Europa ne è
diminuita,/ come se lo fosse un promontorio,/ o una magione amica,/ o la tua
stessa casa./ Ogni morte d’uomo mi sminuisce,/ perché io sono parte dell’umanità./
E dunque non mandare mai a chiedere/ per chi suona la campana:/ essa suona per
te».
Il virus è
cattivo, ma non è sovranista.
Sì, nessun uomo è un’isola
Questo si è
verificato anche nei rapporti personali. Qualcuno ha creduto di poter vedere
nelle regole di prudenza imposte dal diffondersi dell’epidemia un fattore che
conferma e rafforza la tendenza, oggi sempre più diffusa, a prendere le
distanze dagli altri.
In realtà,
quello che sta succedendo smentisce il mito liberale secondo cui “la mia libertà
finisce dove comincia quella dell’altro” , e per cui quindi ognuno, nella sua
sfera, è padrone di fare ciò che vuole, purché non valichi il confine che lo
separa dall’altro. Il trentottenne di Lodi passato alla cronaca come “paziente
1” non aveva fato altro che esercitare la propria più che legittima autonomia
svolgendo una serie di attività che non implicavano alcuna invasione della
sfera vitale altrui. Il risultato però è stato che le vite di molte altre
persone sono state egualmente condizionate in modo decisivo dal semplice
contatto con lui. E oggi sappiamo tutti che una persona, facendosi “i
fatti suoi”, può contagiare altri e, in casi estremi, condannarli a morte. Vale
anche per i singoli la verità che “nessun uomo è un’isola”, e che dunque ognuno
di noi è responsabile degli altri. E non solo sul piano sanitario. Il virus è
cattivo, ma non è individualista.
Riscoprirsi popolo
Un ultimo
sconvolgimento che il Covit-19 sta producendo è, in Italia, l’esplodere delle
tensioni fra l’accentuato senso dell’autonomia di alcune regioni e l’unità
nazionale, che trovano un riscontro nelle polemiche dei partiti di opposizione,
fautori di quella autonomia, nei confronti di un governo centrale che spesso dà
l’impressione di non avere l’autorevolezza e la compattezza per fronteggiare in
modo adeguato l’emergenza.
La sfida
stessa del coronavirus ci costringe, oggi, ad andare oltre queste
conflittualità non sempre disinteressate. Lo ha detto nel suo discorso alla
nazione il presidente Mattarella: «Il momento che attraversiamo richiede
coinvolgimento, condivisione, concordia, unità di intenti (…). Alla cabina di
regia costituita dal Governo spetta assumere – in maniera univoca – le
necessarie decisioni in collaborazione con le Regioni, coordinando le varie
competenze e responsabilità. Vanno, quindi, evitate iniziative particolari che
si discostino dalle indicazioni assunte nella sede di coordinamento».
Un messaggio
chiaro, che richiama, al di là delle legittime autonomie, a riscoprire l’unità
nazionale. Il virus è cattivo, ma non è separatista.
Forse c’è qualcosa che varrebbe la
pena di non dimenticare
Probabilmente,
quando saremo liberati dal flagello del Covid-19, tutto riprenderà come prima.
Potremo di nuovo vivere la nostra vita all’insegna della corsa al profitto e ai
consumi, illuderci di “difendere” le nostre frontiere da altri esseri umani,
rivendicare i nostri sacri diritti senza chiederci che cosa comportano per gli
altri, continuare a litigare sulla “autonomia fiscale” delle regioni del Nord.
Non
rimpiangeremo certo questi mesi di passione, in cui le nostre vite sono state
sconvolte. Forse però dal coronavirus sta venendo una (dolorosa) lezione che
può far aprire i nostri occhi sulla relatività di quelle logiche e degli schemi
mentali che le supportano. Una lezione che varrebbe la pena di non dimenticare.
* Direttore Ufficio Pastorale della Cultura
dell'Arcidiocesi di Palermo.
Scrittore ed
Editorialista
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