Alle prese
con l’inedita condizione di isolamento, i bambini ci insegnano quanto la
creatività e la tenerezza possano aiutarci ad affrontare l’emergenza sanitaria,
facendoci riconoscere più uniti e più solidali.
Alessandro Gisotti
“Quando riapriranno le scuole?”.
Da settimane i genitori italiani, e con il passare dei giorni sempre più anche
i genitori di altri Paesi, si sentono rivolgere questa domanda dai loro bambini
sorpresi e “sospesi” a causa dell’emergenza sanitaria dovuta al contagio da
Coronavirus.
E’ una domanda a cui non si era abituati in questa parte del
mondo, una situazione inedita all’interno di una condizione di vita senza
precedenti. E tuttavia, proprio questo è il drammatico interrogativo che
milioni di genitori - pensiamo per esempio alla Siria - anche negli ultimi anni
si sono sentiti rivolgere dai propri figli in Paesi lacerati dalla guerra, da
terribili malattie o disastri naturali che però, nonostante i tanti e accorati
appelli di Papa Francesco, ci sembravano forse troppo distanti per occuparcene
più di tanto.
Ora, in questo scorcio di
2020 che ha rovesciato tante abitudini e messo in crisi molte certezze, anche i
bambini dei Paesi “più fortunati” si trovano a vivere una situazione simile (e
tuttavia meno traumatica) di tanti loro coetanei in altre nazioni. E’ bello
constatare, e gli esempi sono innumerevoli, che il virus non ha intaccato la
riserva di creatività dei bambini. Ed è altrettanto straordinario e commovente
vedere come tanti fra loro manifestino solidarietà verso i propri coetanei in
un modo che, per riprendere la Dichiarazione di Abu Dhabi, esprime
autenticamente la dimensione della “fratellanza umana”, del sentirsi davvero
tutti figli dello stesso Padre e dunque tutti veramente fratelli gli uni degli
altri. In tanti hanno visto il video della scolaresca di bambini dello Zambia
che, guidati dalla propria insegnante, ricordano e ci ricordano che
“l’Italia è una nazione fortissima che ha superato tantissimi ostacoli nella
storia” e che, perciò, “ce la farà” anche questa volta. Ad Aleppo, città
martire siriana, i bambini cristiani pregano per i loro coetanei in Italia.
Spontaneamente, hanno offerto la Via Crucis del secondo venerdì di
Quaresima proprio per i bambini che in Italia, a causa del Coronavirus, non
possono andare a scuola. Una privazione che loro conoscono bene, purtroppo.
Particolarmente
significativo anche ciò che sta raccontando l’Ospedale Bambino Gesù che, in
questi giorni, condivide attraverso i suoi profili social, gli incoraggiamenti
di chi, superando malattie anche molto gravi, rivolge messaggi di speranza a
quanti sono nella prova a causa dell’emergenza sanitaria. E’ il caso di Rayenne
e Djihene, 2 gemelline siamesi separate nel novembre del 2017, che dalla loro
casa in Algeria hanno inviato ai medici del Bambino Gesù e ai bambini
ricoverati una foto con l’immancabile disegno dell’arcobaleno accompagnato
dalla scritta “Andrà tutto bene”. Forte anche il messaggio che arriva da
Nicholas, 6 anni, tornato a respirare in autonomia grazie all'impianto,
avvenuto l’anno scorso, di un bronco stampato in 3d. Un intervento senza
precedenti in Europa. Oggi Nicholas sorride alla vita e sorride anche
nell’immagine che il Bambino Gesù ha condiviso su Twitter con un messaggio del
piccolo che dà coraggio e speranza ai bambini e ai loro genitori.
Accanto e assieme a
questo dialogare “a distanza” tra i bambini è interessante rilevare anche come
il dialogo intergenerazionale trovi nuove forme di espressione al tempo del
Coronavirus. Come è noto, all’Angelus di domenica scorsa, il Papa ha esortato a
rispondere alla pandemia del virus “con l'universalità della preghiera, della
compassione, della tenerezza”.
Quest’ultima contraddistingue proprio
l’atteggiamento, “lo stile” dei bambini in particolare verso i nonni, le
persone più fragili oggi a causa del Covid19. Costretti a star loro lontani per
proteggerli, uno dei paradossi che stiamo vivendo in questo periodo, i bambini
non hanno rinunciato però a comunicare con loro, a condividere esperienze e
sentimenti anche aiutandosi con le potenzialità offerte dalla tecnologia
informatica. Anche questa, in fondo, è “cultura dell’incontro”. Un incontro tra
radici e futuro che il virus non ha potuto spezzare.
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