Cristo, dio e uomo
Qualche giorno fa Eugenio Scalfari
ha pubblicato sul quotidiano da lui fondato, «Repubblica», una nota in cui,
parlando dei suoi colloqui con papa Francesco, ha “rivelato” che il pontefice,
quando si intrattiene con lui «con la massima confidenza culturale», non ha
difficoltà a spiegare che egli «concepisce il Cristo come Gesù di
Nazareth, uomo, non Dio incarnato. Una volta incarnato, Gesù
cessa di essere un Dio e diventa fino alla sua morte sulla croce un uomo».
A conferma di questa affermazione,
il giornalista citava una conversazione in cui aveva discusso con Francesco il
senso delle drammatiche parole pronunciate da Cristo durane la sua passione.
«Quando mi è capitato di discutere queste frasi papa Francesco mi disse: “Sono
la prova provata che Gesù di Nazareth una volta diventato uomo, sia pure un
uomo di eccezionali virtù, non era affatto un Dio”». L’esplicita
negazione, insomma, dei mille anni di concili della Chiesa indivisa e del
simbolo niceno-costantinopolitano (il “Credo”) che si recita la domenica in
tutte le chiese.
È seguita, ovviamente, la smentita
dalla sala stampa del Vaticano: «Come già affermato in altre occasioni, le
parole che il dottor Eugenio Scalfari attribuisce tra virgolette al Santo Padre
durante i colloqui con lui avuti non possono essere considerate come un
resoconto fedele di quanto effettivamente detto, ma rappresentano piuttosto una
personale e libera interpretazione di ciò che ha ascoltato, come appare del
tutto evidente da quanto scritto oggi in merito alla divinità di Gesù Cristo».
Ma per Scalfari è un’abitudine…
Non è, del resto, la prima volta
che una simile situazione si verifica. Nel marzo 2018, nel resoconto di quella
che veniva presentata da Scalfari come un’«intervista» al papa, si attribuiva a
quest’ultimo – anche questa volta tra virgolette – l’affermazione secondo cui«non
esiste un inferno, esiste la scomparsa delle anime peccatrici», le quali «non
vengono punite», ma, se «non si pentono e non possono quindi essere perdonate,
scompaiono». Una teoria fantasiosa e sicuramente in contrasto col dogma
cattolico.
Anche allora la sala stampa,
qualche ora dopo, spiegava che quanto riferito dall’autore nell’articolo era
«frutto della sua ricostruzione», e non riportava «le parole testuali
pronunciate dal Papa».
Gli equivoci di Scalfari sulle
posizioni di papa Bergoglio in realtà risalgono ancora più indietro nel tempo,
all’inizio del suo pontificato. Senza pretendere, questa volta, di riferire una
conversazione privata, ma basandosi sui documenti e i discorsi di Francesco, il
giornalista sosteneva che Francesco è un pontefice «rivoluzionario», perché «ha
abolito il peccato». E lo fa, spiegava, «servendosi di due strumenti:
identificando il Dio cristiano rivelato da Cristo con l’amore, la misericordia
e il perdono. E poi attribuendo alla persona umana piena libertà di coscienza»
(«Repubblica» del 29 dicembre 2014). Un’incomprensione che viene da credenti e
non credenti
Alcune considerazioni vengono
spontanee. La prima è che la svolta data da papa Francesco allo stile, più che
al contenuto, del magistero pontificio, è stata e continua ad essere fraintesa
da molti, siano essi non credenti, come Scalfari, siano essi credenti (come i
tanti che pensano che l’attuale papa stia rompendo con la tradizione dottrinale
del cattolicesimo).
Il prezzo di una maggiore fedeltà al vangelo
La seconda considerazione è che
questo fraintendimento, paradossalmente, è dovuto non a un tradimento del
messaggio evangelico, ma precisamente allo sforzo fatto da Francesco per
essergli sempre più fedele. Ciò sta comportando la rottura con alcuni schemi
mentali consolidati entro cui esso era stato coartato e che venivano (e vengono
ancora) scambiati – da credenti e non credenti – per la “vera” dottrina
cattolica.
Emblematica la sottovalutazione
dell’umanità di Cristo, spesso ridotta, in passato, a una pura apparenza del
suo essere divino. Si capisce perché sia potuto accadere che, insistendo su
questa dimensione umana di Gesù, il papa abbia dato l’impressione a Scalfari (e
non solo a lui) di negarne la divinità, quando invece voleva evidenziare che
quest’ultima si dà – è il mistero dell’incarnazione – solo nella inquietante
fragilità di un uomo torturato e crocifisso.
È lo stesso tipo di equivoco per
cui, recentemente, in una comunità ecclesiale qualcuno ha pregato «perché i
pastori parlino di Cristo, e non di immigrati». Senza rendersi conto che – in
termini rigorosamente evangelici (cfr. Mt 25) – Cristo lo incontriamo non in
cielo, ma proprio negli immigrati.
Coscienza e misericordia travisate
Un altro schema che papa Francesco
ha contraddetto, attirandosi un’entusiastica approvazione (di non credenti) e
una indignata disapprovazione (di credenti) egualmente infondate, è quello che
sottovalutava il ruolo della coscienza e definiva il peccato in base
all’osservanza o meno di regole rigorosamente oggettive. Ancora una volta,
alcuni, come Scalfari, hanno esultato, mentre altri, come Socci & c., sono
insorti, non rendendosi conto che il concetto di peccato non veniva affatto
abolito, ma riportato al suo più profondo significato biblico di rottura della
relazione con Dio e con i fratelli, di cui la coscienza soltanto, in ultima
istanza, può rispondere.
In questa stessa prospettiva,
l’insistenza di Francesco sulla misericordia è stata fraintesa. Da un lato, non
ci si è resi conto che essa ha senso solo se si ammette l’esistenza di peccati
e di peccatori da perdonare. Dall’altro, si perso di vista, si è accusato il
papa di non subordinare questa misericordia alla conversione, dimenticando che
nel vangelo quest’ultima è spesso il frutto e non la condizione del perdono.
Ma che immagine si aveva del cristianesimo?
La terza considerazione è che
evidentemente in questi ultimi decenni – malgrado il concilio Vaticano II –
l’immagine del cristianesimo e della Chiesa ampiamente dominante, sia tra i
credenti che tra i non credenti, era tale da far apparire “eresie” ai primi e
“rivoluzioni” ai secondi alcune prese di posizione di papa Francesco, che
miravano soltanto a riscoprire nella sua genuina portata l’essenziale del
vangelo. E da far credere a molti cattolici che sia perfettamente “cristiano”
chi fa di Cristo una bandiera, sventolando il rosario e difendendo il
crocifisso di legno nelle scuole, anche se poi rifiuta di riconoscerlo e
rispettarlo negli immigrati e nei rom.
Un rischio sottovalutato
La quarta e ultima considerazione è
che probabilmente papa Francesco, nelle sue scelte, ha sottovalutato il peso
che questo contesto ecclesiale e culturale poteva avere nella corretta lettura
del suo sforzo di rinnovamento della Chiesa e del messaggio evangelico. Da qui
una certa noncuranza per i rischi connessi al quadro che abbiamo tracciato e
forse, una certa imprudenza nell’esporsi ad essi.
Non posso non chiedermi, ad
esempio, perché continuare a parlare personalmente di teologia con un
giornalista che poi sistematicamente pubblicava sul suo quotidiano una versione
distorta del colloquio – o almeno, perché non chiedere gentilmente, prima della
pubblicazione, una preventiva rilettura comune (specie delle frasi tra
virgolette!).
Il capo della Chiesa deve fare
attenzione a quello che viene presentato alla sua gente come “detto dal papa”,
perché ha il compito di evitare lo scandalo dei piccoli a lui affidati, anche
se infondato. Senza dire che anche il consenso dei non credenti, se basato su
un equivoco che snatura il messaggio cristiano, non giova a nessuno.
Il bisogno di indicazioni concrete
Allo stesso modo, bisogna evitare
che le aperture pienamente condivisibili al ruolo della coscienza nelle scelte
etiche vengano scambiate per concessioni al relativismo, come molti – dentro e
fuori la Chiesa – hanno creduto. Ma per questo sarebbe forse necessario
tradurre il principio generale in indicazioni più concrete, soprattutto
relativamente a quell’accompagnamento ecclesiale che giustamente nell’Amoris
Laetitia viene indicato come un antidoto al soggettivismo. In mancanza
di questo, molti hanno pensato e dicono che ormai “anche il papa ha detto che
non c’è nulla di male”…
In mezzo al guado
La Chiesa paga per il necessario
sforzo di tradurre il suo messaggio e la sua stessa identità dai linguaggi del
passato a quelli del presente. Probabilmente è ancora in mezzo al guado, troppo
avanti agli occhi dei “conservatori”, ancora troppo indietro agli occhi dei
“progressisti”.
Papa
Francesco sta pagando sulla sua pelle questa difficilissima transizione. Gli
uni lo accusano di una crisi della Chiesa che in realtà era inevitabile (e già
in corso sotto i suoi predecessori) e che sarebbe stata ben più disastrosa
senza le prospettive da lui aperte. Gli altri cercano chiassosamente di
aggregarlo al loro carro, senza rendersi conto che il papa dev’essere il
vicario di Cristo per tutti i cattolici.
Francesco, certamente, ha i suoi
difetti e fa i suoi errori – a qualcuno ho appena accennato –, come tutti gli
esseri umani. Ma ha avuto il coraggio di entrare nelle acque tumultuose e
infide del cambiamento, con la consapevolezza che questo era ciò che Dio gli
chiedeva. E di questo coraggio noi gli saremo sempre grati.
Giuseppe
Savagnone
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