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sabato 31 agosto 2019
A CACCIA DEL PRIMO POSTO .....
Ventiduesima domenica durante l'anno:
Sir 3,17-18.20.28-29/ Eb 12,18-19.22-24/ Lc
14,1.7-14
Dal
Vangelo secondo Luca - Lc
14, 1.7-14
Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno
dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo.
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».
Commento di don Fabio Rosini
Primi posti
Si urla, sempre. Sempre più spesso,
sempre più forte. E, finalmente, senza remore, senza vergogna, senza ipocriti
perbenismi. Diciamolo, infine, sveliamo il segreto di pulcinella: l’uomo è
fogna putrida. Inutile giocare a fare i democratici, i tolleranti, i
dialoganti. Viva l’uomo forte, le parole forti, le scelte forti. Poco importa
se la realtà è complessa e va accolta e capita per poter essere cambiata: chi
c’è c’è e pazienza per gli altri. È una giungla, il mondo, impone una lotta
senza quartiere. Per essere visibili, per essere notati, o anche solo per
sopravvivere. O forse facciamo parte dell’altra parte, di quella che vorrebbe e
non potrebbe. Di quella, direbbe il filosofo Niestche, che non potendo essere
dalla parte dei vittoriosi esalta i perdenti, dicendo beati i poveri. Ma
vorremmo, o sì se vorremmo, essere visibili. Ci sfiniamo di selfie, siamo
inquieti se non abbiamo sufficienti like, seguiamo i vari influencer pensando
che siano loro i nuovi modelli. Uno su mille ce la fa, d’accordo. E gli altri
novecentonovantanove? E su questo minestrone che ribolle, su questi tempi
infangati e rissosi, irrompe una Parola sussurrata. Un Parola capace di
orientare. Di svelare. Di far capire. Di illuminare. Uno su mille ce la fa,
d’accordo. E gli altri novecentonovantanove?
Emergere
Non cerchiamo salvezza, ma salvatori,
dicevamo nelle scorse domeniche. Qualcuno che risolva al posto nostro, senza
farci fare troppa fatica, se possibile. Gesù osserva la realtà, molto simile
alla nostra. Vede come, durante un banchetto ufficiale, alla presenza di
persone importanti, molti si sgomitino per accedere ai primi posti, per
avvicinarsi alla star, vera o presunta, della festa. E, pieno di buon senso,
ammonisce: attento a non fare figure meschine. Atteggiamento che portiamo
incistato nel cuore. La voglia di emergere, di apparire, di contare. Nel mondo
e nella Chiesa, sia chiaro. Che porta in sé una fragilità sconcertante: far
dipendere dagli altri il valore di ciò che siamo.
Appesi
Troppe volte siamo appesi dal giudizio
che gli altri danno delle nostre azioni. Dipendiamo dal giudizio: sarò capace?
Avrò fatto bene? Ci sforziamo di essere come gli altri si aspettano che siamo.
Bravi genitori, bravi figli, bravi preti. Speriamo, prima o poi, di ricevere un
diplomino colorato che attesti la nostra bravura. E se questo non accade
sprofondiamo nella depressione o facciamo una scenata terribile per non avere
visto riconosciuti i nostri sforzi, dopo tutto quello che ho fatto per te!
Mendichiamo un apprezzamento, elemosiniamo un buffetto. Perché fondiamo la
nostra autostima fuori da noi. Siamo dei capolavori. Dio ci ha creati tali.
Pezzi unici. Inutile pensare di essere delle fotocopie. Volgiamo lo sguardo
all’Unico che sa davvero chi siamo. E cosa possiamo diventare.
Vai a te stesso.
Gesù ci rivela un mondo altro: non hai
bisogno di mostrarti, di apparire, tu vali. L’autostima che nasce nel tuo cuore
non è misurata dalle tue abilità, no, ma dal fatto che sei pensato, voluto e
amato dal tuo Dio. Anche se non vinci nessuna medaglia. Anche se la tua vita è fatta
di piccoli passi.
Tu vali!
Questo
è il messaggio della Scrittura: sei prezioso agli occhi di Dio. Non importa il
tuo limite, né la misura della tua paura. Non importa cosa gli altri pensino di
te: tu vali, sei prezioso agli occhi di Dio. Perciò non hai necessità di
ostentare, di cercare ossessivamente una visibilità che il mondo ti nega o
riserva a pochissimi eletti. Tu vali, anche se non vincerai mai nessuna
medaglia d’oro e la tua piccola vita si perderà nei ricordi di una generazione.
Tu vali, non svendere la tua dignità, coltiva il dentro e se coltivi il fuori,
e coltivalo, che sia sempre e solo trasparenza del dentro. I tuoi limiti? Un
recinto che delimita lo spazio in cui realizzarti. I tuoi peccati? Esperienza
della finitudine e della libertà ancora da purificare, da accogliere da adulto
e da mettere nelle mani di Dio. Non hai bisogno di metterti ai primi posti:
solo Dio conosce il tuo cuore, lo conosce più di quanto tu lo conosca, non
lasciarti travolgere dai falsi profeti del nostro tempo.
Siamo chiamati
Il mio nome è scritto nei cieli, cioè nel
cuore di Dio. mi sono accostato all’assemblea dei santi, fratelli e sorelle
che, come me, sono stati toccati dalla presenza del Mistero. Non ho bisogno di
urlare se non di gridare con la vita quanto siamo amati. E vivere da salvato.
No, non urlo, non litigo, non penso di essere più furbo o migliore. Sono creta
nelle mani del vasaio. Ecco da dove nasce l’umiltà. Che non è la depressione di
noi cattolici, ma l’esperienza gioiosa e feconda di ciò che possiamo
realisticamente essere. Sappiamo di essere preziosi agli di Dio. Abbiamo
conosciuto la nostra ombra ma, infinitamente di più, la luce della sua
presenza. Quella vogliamo raccontare e vivere. Perché sperimentiamo di essere
amati in totalità, e questo amore ci spinge a superare ogni ostacolo.
Davvero vi interessano ancora i primi
posti?
venerdì 30 agosto 2019
IL TEMPO DEL CREATO - I CRISTIANI UNITI PER DIFENDERE LA NATURA
Per il mese di settembre, il Pontefice orienta l’intenzione di preghiera a favore della protezione dei mari e degli oceani, “molti dei quali oggi minacciati da diverse cause”
Barbara Castelli – Città del
Vaticano
“Preghiamo in questo mese perché i politici, gli scienziati e
gli economisti lavorino insieme per la protezione dei mari e degli oceani”. E’
l’esortazione che Papa Francesco leva nel video-messaggio per l’intenzione di preghiera
del mese di settembre. Il Pontefice ricorda che “la Creazione è un progetto
dell’amore di Dio all’umanità”, e che oggi gli oceani, che custodiscono “la
maggior parte dell’acqua del pianeta e anche la maggior varietà di esseri
viventi”, sono “minacciati da diverse cause”. “La nostra solidarietà con la
‘casa comune’ – insiste – nasce dalla nostra fede”.
La costante attenzione del Papa per l’ambiente
Padre Frédéric Fornos, direttore internazionale della Rete
mondiale di preghiera del Papa, che include il Movimento eucaristico giovanile,
ricorda che lo scorso anno, in occasione della Giornata mondiale di preghiera
per la cura del Creato (#SeasonOfCreation), Papa Bergoglio si era soffermato
sulla “questione dell’acqua”, con particolare riguardo ai mari e agli oceani,
la cui custodia “rappresenta oggi una responsabilità ineludibile”. “Non
possiamo permettere che i mari e gli oceani – si legge nel Messaggio del Pontefice – si riempiano di distese inerti di
plastica galleggiante. Anche per questa emergenza siamo chiamati a impegnarci,
con mentalità attiva, pregando come se tutto dipendesse dalla Provvidenza
divina e operando come se tutto dipendesse da noi”.
Il polmone blu del mondo
Il video-messaggio di Papa Francesco per settembre affronta
la grave sfida che rappresenta la protezione degli oceani. Il fitoplancton
oceanico, infatti, è responsabile della produzione di oltre la metà
dell’ossigeno del pianeta. L’edizione di questo mese è stata una co-produzione
tra Yann Arthus-Bertrand e il suo team Hope Production, l’agenzia La Machi -
Comunicazione per la buone cause e Vatican Media. Questo contributo, inoltre,
viene lanciato nell’ambito della celebrazione ecumenica annuale “Il Tempo del
Creato”.
Il mare soffocato dalla plastica
Ogni anno, oltre 8 milioni di tonnellate di plastica si
riversano negli oceani, causando, tra le altre cose, la morte di circa 100.000
specie. L’inquinamento marino dovuto alla plastica è un problema globale e
transfrontaliero, che richiede una responsabilità condivisa e un approccio
comune. Nei suoi “Obiettivi di sviluppo sostenibile”, le Nazioni Unite si sono
poste diversi obiettivi per contrastare questa situazione, consapevole che gli
oceani forniscono risorse naturali fondamentali come cibo, medicine,
biocarburanti e altri prodotti; contribuiscono alla decomposizione molecolare e
all’eliminazione dei rifiuti e dell’inquinamento; e i suoi ecosistemi costieri
agiscono da ammortizzatori per ridurre i danni causati dalle tempeste.
Leggi anche:
Vatican News
giovedì 29 agosto 2019
MAESTRI DELLA SCUOLA PRIMARIA
GLI INSEGNANTI SI RACCONTANO
Tra qualche giorno si ritorna in classe. #TV2000, con un viaggio in sei puntate, racconta i maestri delle scuole primarie— Tv2000.it (@TV2000it) 29 agosto 2019
Dal 20 settembre in seconda serata, sul canale 28: "Maestri" di Andrea Salvadore@Avvenire_Nei @vinmorgante @CEI_news @MiurSocial @agensir pic.twitter.com/KS6suVUBZY
sabato 24 agosto 2019
UNA PORTA STRETTA
Quella porta «stretta» per aprirci all'essenziale
padre Ermes Ronchi
XXI Domenica del Tempo Ordinario
(Anno C) (25 agosto 2019)
Gesù è in cammino verso la
città dove muoiono i profeti. Lungo la strada, un tale gli pone una domanda
circa la salvezza: di Gerusalemme e di tutti. Tremore e ansia nella voce di chi
chiede. E Gesù risponde con altrettanta cura: salvezza sarà, ma non sarà
facile. E ricorre all'immagine della porta stretta. Un aggettivo che ci
inquieta, perché «stretta» evoca per noi fatiche e difficoltà.
Ma tutto il Vangelo è portatore non
di dolenti, ma di belle notizie: la porta è stretta, cioè piccola, come lo sono
i piccoli e i bambini e i poveri che saranno i principi del Regno di Dio; è
stretta ma a misura d'uomo, di un uomo nudo ed essenziale, che ha lasciato giù
tutto ciò di cui si gonfia: ruoli, portafogli gonfi, l'elenco dei meriti, i
bagagli inutili, il superfluo; la porta è stretta, ma è aperta.
L'insegnamento è chiaro: fatti
piccolo, e la porta si farà grande. Quando il padrone di casa chiuderà la
porta, voi busserete: Signore aprici. E lui: non so di dove siete, non vi
conosco. Avete false credenziali. Quelli che si accalcano per entrare si
vantano di cose che contano poco: abbiamo mangiato e bevuto con te, eravamo in
piazza ad ascoltarti. Ma questo può essere solo un alibi di comodo. «Quando è
vera fede e quando è solo religione? Fede vera è quando fai te sulla misura di
Dio; semplice religione è quando fai Dio a tua misura» (Turoldo).
Abbiamo mangiato in tua presenza...
Non basta mangiare il pane che è Gesù, spezzato per noi, bisogna farsi pane,
spezzato per la fame d'altri. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di
ingiustizia. Non vi conosco. Il riconoscimento sta nella giustizia fattiva.
Dio non ti riconosce per formule,
riti o simboli religiosi, ma perché hai mani di giustizia. Ti riconosce non
perché fai delle cose per lui, ma perché con lui e come lui fai delle cose per
i piccoli e i poveri. Non so di dove siete: il vostro modo di vedere è
lontanissimo dal mio, voi venite da un mondo diverso rispetto al mio, da un
altro pianeta. Infatti, quelli che bussano alla porta chiusa hanno compiuto sì
azioni per Dio, ma nessun gesto di giustizia per i fratelli.
La conclusione della piccola
parabola è piena di sorprese: la sala è piena, oltre quella porta Gesù immagina
una festa multicolore: verranno da oriente e occidente, dal nord e dal sud del
mondo e siederanno a mensa. Viene sfatata l'idea della porta stretta come porta
per pochi, solo per i più bravi. Tutti possono passare, per la misericordia di
Dio. Il suo sogno è far sorgere figli da ogni dove, per una offerta di
felicità, per una vita in pienezza. Lui li raccoglie da tutti gli angoli del
mondo, variopinti clandestini del regno, arrivati ultimi e per lui considerati
primi.
Tratto da Qumran2.net | www.qumran2.net
venerdì 23 agosto 2019
LA FORESTA AMAZZONICA BRUCIA. PERICOLI PER IL MONDO INTERO
Adriana Masotti e Roberto
Artigiani – Città del Vaticano
La più grande foresta del
pianeta, quella della Regione amazzonica, brucia a ritmi preoccupanti e i
vescovi dell'America Latina sentono il dovere di alzare la voce per richiamare
l'attenzione su questo dramma. “Consapevoli dei terribili incendi che consumano
grandi porzioni di flora e fauna, in Alaska, Groenlandia, Siberia, Isole
Canarie, e in particolare in Amazzonia, noi vescovi dell'America Latina e dei
Caraibi desideriamo esprimere la nostra preoccupazione per la gravità di questa
tragedia", si legge in un comunicato a firma della presidenza del Celam,
il Consiglio dei vescovi latinoamericani. La speranza dettata dal Sinodo
sull'Amazzonia ormai vicino, continuano i presuli, sembra ora offuscata dal
dolore per questa tragedia naturale. Esprimono quindi alle popolazioni indigene
del territorio amazzonico la loro vicinanza, mentre uniscono la propria voce
alla loro per chiedere al mondo solidarietà e pronta attenzione "per
fermare questa devastazione”.
La denuncia contenuta nello Strumento di lavoro del Sinodo
Lo Strumento di lavoro del
Sinodo sull’Amazzonia, si legge ancora nel comunicato, avverte profeticamente
che in questa foresta di vitale importanza per il pianeta, è stata innescata
una profonda crisi a causa di un prolungato intervento dell'uomo in cui
predominano la 'cultura della scarto' e una mentalità che mette al centro l’attività
produttiva. “Esortiamo i governi dei Paesi amazzonici, in particolare del
Brasile e della Bolivia, le Nazioni Unite e la comunità internazionale ad agire
seriamente per salvare il polmone del mondo”, scrivono i vescovi, ricordando
che ciò che succede in Amazzonia ha una portata planetaria. “Se l'Amazzonia
soffre – concludono - soffre il mondo”.
Roghi alimentati dal clima politico
I dati sugli incendi forniti
dall'Istituto Nazionale di Ricerche Spaziali brasiliano fotografano una realtà
allarmante. Stefano Raimondi dell’ufficio Aree Protette di
Legambiente commenta: “La situazione è decisamente peggiorata nel corso
dell’ultimo anno. Le fonti che abbiamo riportano un incremento degli incendi in
tutto il Brasile di oltre l’83% nella prima parte dell’anno rispetto allo
stesso periodo del 2018. Altre fonti sono anche più allarmistiche, ma
sicuramente possiamo dire che a grandi linee gli incendi sono più che
raddoppiati. È una situazione preoccupante visto che si tratta di roghi di
origine dolosa, alimentati da un clima politico che nega la questione
nonostante ci possano essere conseguenze a livello mondiale”.
Una pesante eredità per le
prossime generazioni
Riguardo alle conseguenze
degli incendi, Raimondi afferma che “da un lato c’è l’effetto immediato dell’emissione
nell’atmosfera di grandi quantità di anidride carbonica che alimenta l’effetto
serra; dall’altro c’è il fatto che in prospettiva queste foreste non
contribuiranno per decenni all’assorbimento dei gas che concorrono ad alterare
il clima. Stiamo perdendo foreste di dimensioni pari a interi Stati europei.
Questi enormi danni li pagheranno le prossime generazioni".
Situazione politica favorevole al disboscamento
Sulla questione dei roghi il
presidente del Brasile, Bolsonaro ha chiamato in causa le Ong. Le sue
dichiarazioni sono state definite “completamente irresponsabili” dall’Istituto
Brasiliano di Protezione Ambientale. Secondo Raimondi “Bolsonaro accusa gli
ambientalisti di appiccare gli incendi quando evidentemente la responsabilità è
da ricercare altrove" E prosegue: "In Amazzonia i disboscamenti con
il fuoco sono sempre avvenuti da parte di allevatori e contadini per ottenere
territorio da coltivare o da mettere a disposizione di allevamenti. L’accelerazione
degli ultimi mesi si nutre anche dell'attuale clima politico: la scarsa
attenzione nei confronti delle tematiche ambientali ha portato molti
agricoltori e allevatori, purtroppo anche piccoli, ad accelerare il
disboscamento non sapendo quanto durerà questa situazione così favorevole alla
sottrazione del territorio amazzonico per scopi meramente produttivi”.
Vatican News
mercoledì 21 agosto 2019
CRISI DI GOVERNO ed EDUCAZIONE CIVICA
Educazione civica solo nel 2020
La mancata pubblicazione della legge sulla Gazzetta Ufficiale
fa slittare tutta la materia di un anno.
di PAOLO FERRARIO
L’educazione civica, la prima vittima della crisi di governo.
In
questo agosto ad alta tensione, tra una dichiarazione e una smentita, un
comizio e un’intervista, nei corridori del Parlamento si è persa la legge 1264
“Introduzione dell’insegnamento scolastico dell’educazione civica”, approvata
in via definitiva dal Senato lo scorso 1° agosto, ma non ancora pubblicata
sulla Gazzetta Ufficiale. E proprio qui sta il problema.
Secondo il primo comma
dell’articolo 2 della legge in questione, «l’insegnamento trasversale
dell’educazione civica» è introdotto «a decorrere dal 1° settembre del primo
anno scolastico successivo all’entrata in vigore della presente legge».
Prevista quindici giorni dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Che,
per far sì che la materia fosse introdotta già dall’anno scolastico 2019-2020 -
come annunciato dallo stesso ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, che un
minuto dopo l’approvazione parlava di «giornata storica per la scuola italiana»
- doveva avvenire entro il 16 agosto. In questo modo, l’entrata in vigore
sarebbe caduta entro il 31 agosto, giorno di chiusura dell’anno scolastico
2018-2019. E, quindi, l’anno scolastico successivo sarebbe stato il 2019-2020,
che avrà inizio il 1° settembre. La mancata pubblicazione entro il termine di
metà agosto, invece, farà giocoforza slittare l’entrata in vigore (quando
sarà), dopo il 1° settembre e, quindi, già nel nuovo anno scolastico. Di
conseguenza, l’anno scolastico successivo all’entrata in vigore della legge,
sarà il 2020-2021.
Un bel pasticcio, insomma, per una riforma, presentata come
la cura del malessere che, da troppo tempo, si respira nella scuola - sfociato
anche in bullismo e aggressioni ad insegnanti - rimasta, invece, impantanata in
Parlamento.
«Comunque vada a finire, siamo di fronte all’ennesima
occasione persa», commenta, amaramente, la segretaria generale della Cisl
Scuola, Maddalena Gissi. Che, all’indomani dell’approvazione della legge, ne
aveva già segnalato le criticità. Come, per esempio, la mancata attribuzione di
un monte ore aggiuntivo per realizzare le 33 ore annue di educazione civica
previste dalla norma, «da svolgersi – recita, in proposito, il comma 3
dell’articolo 2 – nell’ambito del monte orario obbligatorio previsto dagli
ordinamenti vigenti ». In altri termini, sottolineava Gissi, si «pone
inevitabilmente a carico delle istituzioni scolastiche il compito di far
quadrare i conti nella programmazione annuale dell’attività».
Il limbo in cui è finita la legge, a giudizio della leader
sindacale, potrebbe allora essere utilmente impiegato per porre mano a questa e
altre criticità della riforma. Come, per esempio, la mancata indicazione di un
docente specifico per insegnare la nuova materia, affidata «in contitolarità »
a più professori, che fanno riferimento a un non meglio specificato collega
«con compiti di coordinamento». Il tutto, altro punto dolente segnalato dal
sindacato, senza «incrementi o modifiche dell’organico, né ore di insegnamento
eccedenti rispetto all’orario» e senza la previsione di «compensi, indennità,
rimborsi di spese o altri emolumenti ». Insomma, una riforma a costo zero, che
lascia «molto perplessa» la segretaria Gissi. «Anche questa vicenda – conclude
– dimostra che in tanti si cimentano con la scuola, ma senza avere la
necessaria conoscenza della complessità delle questioni».
Tutte problematiche su cui il Ministero dell’Istruzione,
sollecitato da Avvenire, non ha voluto prendere posizione. A partire dalla
domanda principale: perché la legge non è stata pubblicata entro i termini
previsti? «Non mi stupirei se si trattasse di distrazione o incuria», dice,
laconicamente, Cristina Giachi, vicesindaca di Firenze e presidente della
Commissione istruzione, politiche educative ed edilizia scolastica dell’Anci.
L’Associazione dei Comuni italiani si era fatta promotrice di una proposta di
legge di iniziativa popolare sull’educazione alla cittadinanza, sottoscritta da
più di centomila cittadini, che aveva dato avvio all’iter parlamentare arrivato
a conclusione il 1° agosto.
«La nostra proposta era più articolata e, alla fine, si è
arrivati a questo compromesso – ricorda Giachi –. Questo slittamento potrebbe
anche essere l’occasione per rimetterci mano, anche se non sono fiduciosa che
ciò possa avvenire. Per il governo è stata soltanto una battaglia di bandiera
senza la minima attenzione ai contenuti. E anche questo scivolone finale
dimostra la scarsa cura che ha caratterizzato l’intera vicenda. L’ennesima
occasione persa».
LA FOLLIA DELLA VIOLENZA. QUOTIDIANI EPISODI DI VIOLENZA CHE CI SGOMENTANO
LA VIOLENZA
«BANALE»
E
LA NATURA UMANA
Come si perde
il "lume della ragione"
Lettura neuroscientifica delle «esplosioni» estive
di Pietro
Pietrini*
Il duplice omicidio del
giorno di Ferragosto a Ucria, nel Messinese, apparentemente a seguito di una
lite per un parcheggio, va ad aggiungersi al lungo elenco di fatti di cronaca
analoghi avvenuti negli ultimi anni. Nel solo 2016, stando a dati statistici
pubblicati dall’Osservatorio Asaps (Associazione sostenitori amici della
Polizia stradale), in Italia ci sono stati ben 183 episodi di aggressioni
stradali refertati, che hanno causato quattro morti e 238 feriti, 37 dei quali
gravi. Aggressioni che trovano origine in una precedenza non concessa, un
parcheggio conteso, un sorpasso non gradito. O ancora, c’è chi è stato ucciso
per il fastidio di uno schiamazzo in strada o per aver negato una sigaretta.
Liti che esplodono per ragioni che sembra già tanto poter definire 'futili'.
Quei futili motivi che per il Codice penale costituiscono un aggravante di un
fatto di reato. Fenomeno pressoché ubiquitario. Il che certo non consola, ma
piuttosto impone una riflessione sull’umana natura. Cosa accade nella mente
umana in questi frangenti? Come si arriva a perdere il lume della ragione?
A chi di noi non è mai
capitato di ritrovarsi a inveire con foga contro il furbetto che con una
manovra magari un po’ azzardata ci ha appena soffiato da sotto il naso il
parcheggio che avevamo adocchiato dopo lungo girovagare? Se ripensiamo alla
nostra risposta in quei frangenti, potremmo addirittura rimanere sorpresi dalla
veemenza della nostra reazione, da quello che in quegli attimi siamo riusciti a
dire, o meglio, non siamo riusciti a non dire, non importa se eravamo soli o con
altri in macchina, magari con i nostri figli. Nell’immediatezza dell’evento non
riusciamo a evitare una reazione viscerale, quasi incontrollabile: presi da un
impeto di rabbia che sale, proferiamo imprecazioni e maledizioni di ogni
genere. In poco tempo, tuttavia, anche solo pochi attimi più tardi, riprendiamo
il controllo e ci rimettiamo, magari sbuffando un po’, alla ricerca di un nuovo
posto. È una reazione fisiologica. È la ragione per cui, nelle situazioni di
conflitto, fin da piccoli ci insegnano a contare fino a dieci prima di
rispondere. Perché sappiamo che in quei pochi secondi è molto probabile che il
tono della nostra risposta diventi radicalmente diverso. L’alternativa è
rischiare di dire cose delle quali ci pentiamo poco dopo, magari anche solo
dopo aver appena finito di pronunciarle.
L’esperienza ci insegna
anche che la nostra risposta di fronte a eventi simili può essere assai diversa
da giorno a giorno. Basta poco: se siamo digiuni o abbiamo mangiato, se siamo
stanchi o riposati, tristi o felici. La nostra percezione del mondo che ci
circonda cambia e così la nostra modalità di interagire con esso. Le recenti
acquisizioni delle neuroscienze cognitive stanno rivelando il fine gioco di
squadra tra emozione e ragione nella modulazione del nostro comportamento.
Conosciamo sempre meglio i meccanismi cerebrali che sottendono questi rapporti
in condizioni normali e in presenza di patologie psichiatriche. Sappiamo oggi
che particolari combinazioni di fattori genetici, neurobiologici e cerebrali, unitamente
a fattori ambientali, possono favorire condizioni di maggiore rischio di
discontrollo degli impulsi, di comportamenti abnormi in risposta a provocazioni
anche modeste. Ma se in alcuni dei casi di cronaca come quelli ricordati in
apertura è talvolta possibile riscontrare una franca patologia mentale o una
storia di abuso di sostanze, in molti altri casi non vi è nulla di questo.
L’assassino è «la persona mite, lavoratore instancabile e mai protagonista di
episodi violenti» come nel caso del sessantenne che nel giugno del 2016 a
Giulianova uccise con una coltellata al cuore un compaesano con il quale poco
prima aveva un diverbio per un sorpasso. Mutuando Hannah Arendt, potremmo
definirla la «banalità del male», che trasforma il vicino della porta accanto
in un assassino. La sfida delle neuroscienze sociali, che studiano con
metodologie multidisciplinari il comportamento umano, è quella di riuscire a
comprendere quali meccanismi entrano in gioco nel generare quel 'sonno della
ragione' che, in pochi attimi, cambia per sempre la sorte sia della vittima sia
dell’aggressore.
*Psichiatra e neuroscienziato direttore
della Scuola Imt Alti Studi Lucca
martedì 20 agosto 2019
TRISTE QUEL PAESE CHE NON PROGETTA IL FUTURO !
Il Presidente della Cei al Meeting di Rimini lancia l'allarme sulla condizione dei giovani italiani
Grido di allarme del Cardinale Gualtiero Bassetti, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, nel suo intervento al 40° Meeting di Rimini. Secondo l’Arcivescovo di Perugia “più di ogni ideologia politica, le giovani generazioni rischiano di essere attratte da un materialismo nichilista senza alcuna cura verso l’altro che sta nella sofferenza e senza uno slancio autentico verso il futuro”.
“Da ormai molti decenni nel discorso pubblico - ha denunciato il porporato - è
usuale parlare dei giovani attraverso un linguaggio denso di retorica e
buoni sentimenti, ma con poca attenzione alla vita concreta
dei ragazzi e soprattutto con un discutibile senso di responsabilità
verso di loro. Quando parlo di vita concreta mi riferisco ovviamente ad
una vita piena in cui la dimensione spirituale ha un peso importante”.
“Ho la netta sensazione che il nostro Paese - ha aggiunto ancora il Cardinale Bassetti - non riesca minimamente a valorizzare i talenti, le capacità e le attitudini dei nostri giovani. I
giovani che io conosco sono infatti giovani ricchi. Anzi, ricchissimi.
Non di denaro ma di talenti. Nella maggioranza dei casi, però, questi
talenti non vengono riconosciuti. Rimangono sepolti nel deserto o nella
palude della nostra società”.
Oggi - ha concluso - “in moltissimi casi ci troviamo di fronte a
delle persone che vivono un profondo non senso esistenziale perché non
riescono ad intravedere il futuro. È triste quel Paese che non
sa dare speranza ai propri figli! È triste quel Paese che non sa
progettare il futuro, che non riesce a sanare le ferite della propria
storia. In questi anni, ho incontrato e conosciuto moltissimi
ragazzi che hanno voglia di mettersi in gioco, che hanno desiderio di
mostrare le proprie capacità e di applicare quello che hanno studiato,
ma hanno perso la speranza di trovare un ruolo e un posto in questa
società avida e arida. Hanno perso la speranza di trovare un lavoro
degno che non sia fatto solo di precarietà e umiliazioni quotidiane”.
(ACI Stampa).-
sabato 17 agosto 2019
LA VERITÀ E' CIO' CHE ARDE
padre Ermes Ronchi
XX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (14/08/2016)
Vangelo: Lc 12,49-53
Sono venuto a gettare fuoco sulla terra. Tutti abbiamo conosciuto uomini e donne appassionati del Vangelo, e li abbiamo visti passare fra noi come una fiaccola accesa. «La verità è ciò che arde» (Christian Bobin), occhi e mani che ardono, che hanno luce e trasmettono calore: «la vita xe fiama» (Biagio Marin).
Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. Lui che ha chiesto di amare i nemici, che ha dato il nome di "divisore", diavolo, al peggior nemico dell'uomo, che ha pregato fino all'ultima sera per l'unità "ut unum sint", qui si contraddice. E capisco allora che, sotto la superficie delle parole, devo cercare ancora.
Gesù stesso, tenero come un innamorato e coraggioso come un eroe, è stato con tutta la sua vita segno di contraddizione. Il suo Vangelo è venuto come una sconvolgente liberazione: per le donne sottomesse e schiacciate dal maschilismo; per i bambini, proprietà dei genitori; per gli schiavi in balia dei padroni; per i lebbrosi, i ciechi, i poveri. Si è messo dalla loro parte, li chiama al suo banchetto, fa di un bambino il modello di tutti e dei poveri i principi del suo regno, sceglie sempre l'umano contro il disumano. La sua predicazione non metteva in pace la coscienza, ma la risvegliava dalle false paci! Paci apparenti, rotte da un modo più vero di intendere la vita.
La scelta di chi si dona, di chi perdona, di chi non si attacca al denaro, di chi non vuole dominare ma servire gli altri, di chi non vuole vendicarsi diventa precisamente divisione, guerra, urto inevitabile con chi pensa a vendicarsi, salire, dominare, con chi pensa che è vita solo quella di colui che vince. Leonardo Sciascia si augurava: «Io mi aspetto che i cristiani qualche volta accarezzino il mondo in contropelo». Ritti, controcorrente, senza accodarsi ai potenti di turno o al pensiero dominante. Che riscoprano e vivano la "beatitudine degli oppositori", di chi si oppone a tutto ciò che fa male alla storia e al cuore dei figli di Dio.
Gesù nel Vangelo di Tommaso ha questa espressione: «Stare vicino a me è stare vicino al fuoco». Siamo discepoli di un Vangelo che brucia, brucia dentro, ci infiamma qualche volta almeno, oppure abbiamo una fede che rischia di essere solo un tranquillante, una fede sonnifero? Il Vangelo non è un bavaglio, ma un megafono. Ti fa voce di chi non ha voce, sei il giusto che lotta in mezzo alle ingiustizie, mai passivo e arreso, mai senza fuoco.
Quanto vorrei che questo fuoco fosse già acceso. Eppure arde! C'è dentro le cose il seme incandescente di un mondo nuovo. C'è una goccia di fuoco anche in me, una lingua di fuoco sopra ognuno di noi a Pentecoste, c'è lo Spirito santo che accende i suoi roveti all'angolo di ogni strada.
da PAROLE NUOVE
giovedì 15 agosto 2019
ADULTI E GIOVANI IN ASCOLTO
di
Alessandra Smerilli
Chi è
l’adulto? Participio passato del verbo adolescere, è sinonimo di
"cresciuto": in quasi tutte le culture è apparso desiderabile
giungere a una reale maturità, e così il passaggio verso il mondo delle
responsabilità è stato ritualizzato in una festa. Invece sono in molti a
rilevare come oggi, almeno in Occidente, essenziale sia rimanere o ritornare giovani,
se possibile per tutta la vita. A livello antropologico si tratta di una
deregulation senza precedenti. Non è più definito che cosa sia proprio di ogni
generazione e ciò che ci si debba aspettare dalle diverse età. Ognuno può
prendersi il ruolo dell’altro. Le possibilità di ciascuno si moltiplicano, così
come una competizione in cui chiunque può rivelarsi avversario. Per il
cristianesimo si tratta dell’implosione di un rapporto tra le generazioni
apparentemente imprescindibile per la trasmissione della fede: in famiglia e
poi in comunità gerarchicamente strutturate i grandi educano i piccoli alla
vita, introducendo a un ordine spirituale che si vorrebbe riflesso in quello
sociale.
Sebbene in qualche angolo del
pianeta sembri funzionare ancora, internet materializza ovunque lo
scardinamento di quel modello, connettendo ormai "orizzontalmente"
ragazzi e adulti a ogni latitudine, senza distinzione di ruoli e identità. Non
deve dunque sorprendere che, in ambito cattolico, persino il Sinodo dei vescovi
si orienti a non concepire più i giovani semplicemente come
"destinatari" della fede: non c’è semplicemente un messaggio da
trasmettere da chi sa a chi non sa, ma un’esigenza continua di convertirsi
insieme alla novità del Vangelo. Potremmo allora legittimamente chiederci: i
giovani hanno ancora bisogno degli adulti? In che cosa possiamo aiutarli? Come
ci interpella questo tempo?
Ci sono
questioni che investono la fede stessa in cui i millennials stanno
evidentemente facendo da apripista e come da enzimi nel corpo sociale. Intensa,
ad esempio, è generalmente la loro sensibilità per la cura della casa comune,
nelle sfide che riguardano il rispetto per il creato e la necessità di
cambiamento nei nostri comportamenti quotidiani. Durante un incontro sul
rapporto tra economia e ambiente, ad esempio, un ragazzino di 12 anni
interviene raccontando a tutti che quest’anno in quaresima ha vissuto il
digiuno dalla plastica. Alla domanda: «Ma cosa vuol dire?», così risponde:
«Ogni sabato vado a fare la spesa con mia mamma e vigilo su come fa gli
acquisti, chiedendole con insistenza di limitare la plastica, in modo da
scegliere confezioni ecologiche e materiali riciclabili». D’altra parte, gli
adolescenti che fanno notare al loro prete come i foglietti della preghiera
avrebbero potuto esser stampati fronte-retro e su carta riciclata sono gli
stessi che vanno sollecitati con un certo vigore affinché non trasformino in
una discarica lo scenario alpino in cui stanno pranzando al sacco. L’adulto,
insomma, rimane determinante a strutturare in habitus ciò da cui mente e cuore
sono attratti, favorendo e accompagnando il passaggio dall’entusiasmo a
convinzioni che muovono poi i comportamenti reali.
Il punto,
forse, è riconoscere la circolarità delle sollecitazioni: anche dal più piccolo,
sempre più spesso, si è messi in questione e chiamati a crescere ancora. In
questo il contesto contemporaneo si dimostra realmente nuovo. Più si trascorre
tempo incontrando i ragazzi e i giovani del nostro Paese, più ci si rende conto
che verso i loro adulti di riferimento essi costituiscono una costante
provocazione al confronto e all’apertura. Dove le gerarchie si sono indebolite
e i ruoli sono diventati sempre più interscambiabili, la sostanza delle parole
e dei comportamenti è la vera questione. In questo, spazzando via molte
formalità, i giovani esercitano a propria volta una propria maieutica, che
chiede a chi li ha preceduti di venire nuovamente o maggiormente alla luce.
Durante una conferenza sui temi della finanza due adolescenti si stavano dimostrando
attentissimi. Erano collaboratori di Radio Immaginaria, un network dei ragazzi.
Dialogando con loro a margine dei lavori arrivano importanti domande: «Che cosa
possiamo dire ai nostri genitori per convincerli ad essere più consapevoli di
come usano il denaro? Come possiamo far capire loro che non possono lamentarsi
di un mondo che non funziona, se poi loro stessi con le loro scelte
contribuiscono a farlo andare così? Si dice che noi giovani non siamo
interessati ai grandi temi, per esempio all’economia e della finanza, ma quanto
dipende dal modo in cui ci vengono trasmessi?». Domande a degli adulti, sugli
adulti: l’incontro tra generazioni rimane quindi imprescindibile, a condizione
che includa l’interlocutore e divenga uno scambio.
In realtà,
il cambiamento d’epoca ci riconduce così ai fondamentali dell’educazione.
Adulto è chi si assume la responsabilità di ciò che dice e di ciò che fa, del
mondo così come è configurato, della sua bellezza e delle sue miserie. Sa di
non sapere, riconosce il proprio potere e i suoi limiti: quelli strutturali, ma
anche quelli necessari a dare agli altri spazio e respiro. Fragile, limitato,
in movimento, l’adulto fa una proposta, si posiziona, si colloca con un
carattere proprio nella complessità. È il contrario del bambino che scalpita,
si gonfia e grida pretendendo di esser tutto e di ottenere tutto. Non è rigido,
perché della realtà conosce le sfumature e l’instabilità: la sua coerenza non è
ostentazione di principi, ma duttilità e costanza, partecipazione ai problemi
altrui, affidabilità. Di fronte alle domande dei giovani, l’esortazione
Christus Vivit (CV) di papa Francesco lancia un appello alla Chiesa che per
essere credibile ai loro occhi «a volte ha bisogno di recuperare l’umiltà e
semplicemente ascoltare, riconoscere in ciò che altri dicono una luce che la
può aiutare a scoprire meglio il Vangelo. Una Chiesa sulla difensiva, che
dimentica l’umiltà, che smette di ascoltare, che non si lascia mettere in
discussione, perde la giovinezza e si trasforma in un museo. Come potrà
accogliere così i sogni dei giovani?» (n. 41).
La prima
generazione del nuovo millennio non vuole fare a meno o liberarsi di noi
adulti, anzi. Il punto è che molte volte non riusciamo a interagire, perché le
aspettative reciproche non si incrociano. Vorremmo che fossero pronti ad
ascoltare quello che abbiamo da dire e da trasmettere e loro si aspettano,
piuttosto, di trovarsi davanti a persone che li comprendano, che li guardino
con fiducia e che li sollecitino nelle loro potenzialità e nel superamento di
difficoltà e disagi. È capitato durante una lezione con diverse classi di licei
e di istituti tecnici di Matera. Ci eravamo preparati, volevamo dare il meglio
di noi; abbiamo cercato di arrivare con una presentazione ben fatta e
accattivante; rischiavamo di parlare troppo. Fino a quando una insegnante ha
chiesto la parola: possiamo mostrarvi quel che abbiamo realizzato noi? I
ragazzi hanno cominciato, allora, a condividere la loro preparazione al nostro
evento: in modo più originale e innovativo si sono fatti portavoce, gli uni
verso gli altri, dei principali messaggi che noi adulti intendevamo
trasmettere. E allora, perché chiamare dei relatori? La risposta non ha tardato
a venire, con un momento di dialogo insieme ai ragazzi. Domande precise, puntuali,
profonde: chiedevano una testimonianza credibile, aiuto, speranza e racconti di
vita. «Siamo chiamati a investire sulla loro audacia ed educarli ad assumersi
le loro responsabilità» (DF 70): a questo ci richiama il Sinodo. «Si tratta
prima di tutto di non porre tanti ostacoli, norme, controlli e inquadramenti
obbligatori a quei giovani credenti che sono leader naturali nei quartieri e
nei diversi ambienti. Dobbiamo limitarci ad accompagnarli e stimolarli,
confidando un po’ di più nella fantasia dello Spirito Santo che agisce come
vuole» (CV230).
I CRISTIANI CHE FANNO L'ITALIA
di Antonio Spadaro
Che posto ha il discepolato
cristiano nella moderna società democratica? Come possono i cristiani
contribuire a una sana democrazia e a un governo veramente popolare della
nostra Italia? Per affrontare queste domande si è sviluppato un
interessante dibattito
sull’eredità di don Sturzo in occasione dell’anniversario del suo
appello «a tutti gli uomini liberi e forti» (1919). Per proseguire la
riflessione, pensiamo sia necessario tornare
al V Convegno della Chiesa italiana, che si è svolto a Firenze nel 2015: un
evento sinodale.
In quell’occasione papa
Francesco ha pronunciato un discorso che potremmo definire «profetico» alla
luce dell’oggi. Bisogna tirarlo fuori dai sussidi chiusi da tempo e tornare a
meditare su quelle parole che pongono un legame forte tra fede e politica,
perché «i credenti sono cittadini».
«La nazione non è un museo –
affermava Francesco –, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in
cui sono da mettere in comune proprio le cose che
differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose». Ma
soprattutto aggiungeva che è inutile cercare soluzioni in «condotte e forme
superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative».
Ed eccoci all’attuale crisi della democrazia. In un tempo in cui il bisogno di
partecipazione si sta esprimendo in forme e modi nuovi, non è possibile tornare
all’«usato garantito» o alle retoriche già sentite. Tantomeno, quindi, possiamo
immaginare di risolvere la questione mettendo i cattolici tutti da una «parte»
(considerando tutti «gli altri» dall’altra). Non basta più neanche una sola
tradizione politica a risolvere i problemi del Paese.
La forza propulsiva del
cattolicesimo democratico ha bisogno di essere resistente in questi tempi
confusi, ma anche di ascoltare e capire meglio, perfino coloro che oggi sono
riusciti a intercettare umori e idee della gente. Agostino e Benedetto, davanti
al crollo dell’Impero, hanno messo le basi del cristianesimo del Medioevo. Il
cristianesimo non ha mai temuto i cambi di paradigma.
Che fare, dunque? La Chiesa
italiana saprà farsi interpellare dal mutamento in corso senza limitarsi ad
attendere tempi migliori? E come? Abbiamo compreso che è impossibile pensare il
futuro dell’Italia senza una partecipazione attiva di tutti i cittadini. Per
questo prendiamo spunto da un passaggio del discorso introduttivo del card.
Gualtiero Bassetti alla sessione invernale del Consiglio permanente della Cei:
«Ripartiamo, fratelli, da questo stile sinodale, viviamolo sul campo, tra la
gente…».
Ecco il punto: soltanto
un esercizio effettivo di sinodalità all’interno della Chiesa potrà aiutarci a
leggere la nostra storia d’oggi e a fare discernimento. Che cos’è la
sinodalità? Essa consiste nel coinvolgimento e nella partecipazione attiva di
tutto il popolo di Dio alla vita e alla missione della Chiesa attraverso la
discussione e il discernimento. Essa respinge ogni forma di clericalismo,
incluso quello politico. La crisi della funzione storica delle élites –
che fino a poco fa era riuscita a far dare alle democrazie occidentali il
meglio di sé – deve aprirci gli occhi. La sinodalità è radicata nella natura
popolare della Chiesa, «popolo di Dio».
Perché la sinodalità? Perché questo ampio coinvolgimento?
Perché innanzitutto dobbiamo capire che cosa ci è accaduto. Dopo anni in cui
forse abbiamo dato per scontato il rapporto tra Chiesa e popolo, e abbiamo
immaginato che il Vangelo fosse penetrato nella gente d’Italia, constatiamo
invece che il messaggio di Cristo resta, talvolta almeno, ancora uno scandalo.
Sentimenti di paura, diffidenza e persino odio – del tutto alieni dalla
coscienza cristiana – hanno preso forma tra la nostra gente e si sono espressi
nei social networks, oltre che nel broadcasting personale
di questo o di quel leader politico, finendo per inquinare il senso estetico ed
etico del nostro popolo. Il fenomeno – sia chiaro – non riguarda solamente la
nostra Italia.
A questo si aggiunga il fatto
che il potere politico oggi ha anche ambizioni «teologiche». Pure il crocifisso
è usato come segno dal valore politico, ma in maniera inversa rispetto a quello
che eravamo abituati: se prima si dava a Dio quel che invece sarebbe stato bene
restasse nelle mani di Cesare, adesso è Cesare a impugnare e brandire quello
che è di Dio, a volte pure con la complicità dei chierici.
Il «nemico», dunque, non è più
solamente la secolarizzazione, come spesso abbiamo detto, ma è la paura,
l’ostilità, il sentirsi minacciati, la frattura dei legami sociali e la perdita
del senso di fratellanza umana e di solidarietà. Nella società sta venendo meno
la fiducia: nei medici, negli insegnanti, nei politici, negli intellettuali,
nei giornalisti, negli uomini del sacro… Risuonano su questa situazione confusa
le parole che il Papa a Firenze ha rivolto alla Chiesa italiana: «Sia una
Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di
perdere qualcosa». E aveva chiesto alla Chiesa: «discutere insieme, oserei dire
arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti».
Francesco proseguiva raccomandando
la ricostruzione dei legami per favorire «l’amicizia sociale». Quindi, compito
della Chiesa italiana – diceva – è «dare una risposta chiara davanti alle
minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle
forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società
comune». È da fuggire, dunque, l’opzione tombale, cioè l’eresia che le nostre
comunità non abbiano più nulla da dire nel fermento della nostra società.
Quale deve essere, allora, il
senso di questa risposta? Possiamo riconoscerlo nel discorso di fine anno 2018
del presidente Mattarella, il quale ha affermato l’importanza dell’impegno «per
riconoscersi come una comunità di vita» che ha un «comune destino». Sentirsi
comunità significa «condividere valori, prospettive, diritti e doveri»,
«“pensarsi” dentro un futuro comune, da costruire insieme»». D'altronde, la
forza della Chiesa cattolica in politica è la sua cattolicità, cioè
la sua capacità di ricordare l’universalità e di tenere insieme i pezzi lì dove
tutto sembra andare in frantumi. E ciò vale anche per la nostra Chiesa
italiana.
A questo punto torniamo alla
nostra domanda iniziale. Possiamo riconoscere il nostro compito oggi come discepoli
di Cristo impegnati nelle tensioni della nostra moderna democrazia in due punti
evidenziati dal Presidente: da una parte, contrastare le «tendenze alla
regressione della storia»; dall’altra, fare la nostra parte per costruire il
Paese come «comunità di vita», curando le ferite dei legami spezzati e della
fiducia tradita. E questo potrà avvenire solamente grazie a un largo
coinvolgimento del popolo di Dio, in un processo sinodale non ristretto né
alle élites del pensiero cattolico né ai contesti (specifici e
importanti) di formazione.
L’esercizio della sinodalità e
quello della democrazia sono cose diverse come metodo. Ma si può facilmente
cogliere quanto sia importante la sinodalità nella Chiesa per
discernere le forme dell’impegno democratico dei cristiani affinché
essi siano – come ci chiedeva Francesco alla fine del suo discorso di Firenze –
«costruttori dell’Italia». Che dunque stia maturando il tempo per un sinodo
della Chiesa italiana?
MARIA, LA FANTASIA DI DIO - Buona festa dell'Assuzione
di Alberto Maggi
L’inizio e la fine della vita terrena di Maria corrispondono al
compimento del progetto che Dio ha sull’umanità: creati per
diventare suoi figli, realizziamo questa figliolanza nella vita terrena
mediante la pratica di un amore che somigli a quello di Dio e proseguiamo
presso il Padre la nostra esistenza oltrepassando la soglia della morte.
La Chiesa presenta come modello perfetto di questo itinerario
Maria: l’ingresso nell’esistenza terrena viene celebrato con l’Immacolata e
quello nella sfera di Dio con l’Assunta.
Come per l’Immacolata, quello dell’Assunta è un altro dei dogmi
recenti (Costituzione Apostolica Munificentissimus Deus, 1950) che non hanno
alcuna diretta radice nella Sacra scrittura, ma che appartengono di buon
diritto al patrimonio della fede del popolo cristiano.
L’Assunta è infatti una verità di fede nata non dalla speculazione
teologica ma dal buon senso o intuito della gente, e in passato era una
festività tanto importante da stare alla pari col Natale, la Pasqua e la
Pentecoste, le tre grandi solennità dell’anno liturgico.
Ma dobbiamo chiederci che può significare oggi per noi
celebrare una simile festa. È ancora una volta rimanere sbalorditi di
fronte ai tanti straordinari privilegi che Dio ha abbondantemente riversato su
Maria, oppure una proposta, una possibilità valida per tutti i credenti?
Maria “assunta” in cielo è la firma di Dio sull’umanità,
la creazione di un uomo che si lasci coinvolgere dall’azione vivificante dello
Spirito santo: “Tale glorificazione è il destino di quanti Cristo ha fatto
fratelli”, affermò infatti Paolo VI nella Marialis cultus, il documento
pontificio che ha portato un’aria nuova nella conoscenza di Maria.
Pertanto anche noi, se mettiamo nella nostra vita una qualità
d’amore che assomigli a quella di Dio, fin da adesso, come afferma l’Apostolo
Paolo “sediamo nei cieli, in Cristo Gesù” (Ef 2,6), siamo come lui vincitori
della morte e continueremo a vivere per sempre (Gv 11,25), come prega la Chiesa
il 15 agosto: “anche noi possiamo per intercessione della Vergine Maria
giungere fino al Padre nella gloria del cielo”.
Dio non ha creato l’uomo per la morte, ma per la vita, per una
vita che può raggiungere la stessa qualità divina, ed essere perciò
inattaccabile e indistruttibile.
La festa dell’Assunta ci ricorda e ci stimola quel che possiamo
essere.
Ci ricorda che noi siamo importanti agli occhi del Padre che ci
vuole innalzare al suo stesso livello.
Ci stimola perché al desiderio del Signore di renderci simili a
lui, deve corrispondere anche il nostro impegno di vivere una vita di una tale
qualità da renderla indistruttibile e capace quindi di durare per sempre.
Per Maria l’assunzione non è stato un premio ricevuto per meriti
speciali, ma la conclusione logica della sua esistenza che fin da Nazaret ha
diretto sempre verso scelte di servizio, d’amore, pertanto di vita. Anche
quando scegliere non era né facile è logico, anche nelle situazioni più
drammatiche, Maria ha scelto la vita.
Maria si è fidata della fantasia di Dio.
L’assunzione è il coronamento logico della vita di Maria e della
fantasia di Dio: la donna, l’essere emarginato che non poteva
neanche mettere piede dentro il santuario, Dio la vuole con sé. Il Signore
l’innalza al suo stesso livello ed elimina la distanza che lo separava
dall’umanità.
E noi oggi non dobbiamo stare a guardare con il naso per aria
verso il cielo (At 1,11), ma far si che pure la nostra vita sia una festa della
fantasia di Dio. Esperimentare che non esiste fallimento, non
esiste peccato, non esiste angoscia che il Padre nella potenza del suo amore
non possa trasformare in vita. Non esiste colpa che non possa diventare una
“felice colpa” come canta la liturgia del sabato santo.
Anche per noi la vita eterna non sarà un premio da ricevere per la
buona condotta tenuta nell’esistenza terrena, ma l’accoglienza di un dono
d’amore di quel Padre che vuole che neanche uno dei suoi figli si perda (Gv 6,39).
L’assunzione è la festa e la condizione di quanti hanno saputo
essere fedeli all’amore portando così a compimento il progetto di Dio
sull’uomo.
Leggi tutto: Maria, la fantasia di Dio
lunedì 12 agosto 2019
MAGELLANO: UNA STRAORDINARIA AVVENTURA ALLA SCOPERTA DEL MONDO
500 anni fa, il primo giro
del mondo in 2 anni, 11 mesi, 17 giorni
Con
237 uomini e 5 vascelli, Magellano parte dalla Spagna per il primo grande
evento globale: il giro del mondo
di Emanuela Campanile
Dal 2018 e fino al 2022, la
Spagna con una serie di iniziative rende omaggio al V centenario della
spedizione di Fernando Magellano e Juan Sebastián Elcano. La straordinaria
avventura che ebbe inizio a Siviglia - direzione isole Molucche, Indonesia -
nel 1519, si concluse tre anni dopo con il giro del mondo.
A servizio della Corona
spagnola, il nobile e raffinato portoghese Magellano con l'esploratore spagnolo
di origine Basche, Juan Sebastián Elcano, si imbarca il 10 agosto, giorno di
San Lorenzo, "dal molo di Siviglia", come scrive il vicentino Antonio
Pigafetta, cronista di questo primo evento globale della storia:
“ Avendo inteso che allora
se era preparata una armata in la città di Siviglia, che era de cinque nave,
per andare a scoprire la spezieria nelle isole di Maluco, de la quale era
capitanio generale Fernando de Magaglianes, gentiluomo portoghese, ed era
commendatore di Santo Jacobo de la Spada, [che] più volte con molte sue laudi
aveva peregrato in diverse guise lo Mar Oceano, mi partii... ”
"Essendo la armata fornita di tutte le cose necessarie per mare e
d'ogni sorte de gente", prosegue nel suo racconto l'attendente di
Magellano, i 237 uomini e i 5 velieri messi a disposizione da Carlo V, salpano
alla ricerca di nuove rotte per rendere più facile il trasporto delle spezie
dal Nuovo Mondo. Per Magellano, in realtà, la vera sfida è
scoprire l’esistenza di un passaggio tra Oceano Atlantico e Oceano
Pacifico, raggiungere dunque l’Oriente navigando verso Occidente. Trinidad, San
Antonio, Concepción, Victoria e la più piccola Santiago "detteno",
dunque, "il trinchetto al vento".
Per quanto il giovane
Magellano conosca alla perfezione tutte le mappe - a quell'epoca a disposizione
- e predisponga ogni cosa nei più piccoli dettagli, gli è impossibile evitare
le incertezze e gli imprevisti di questa straordinaria e terribile impresa.
Sbagli di rotta,
ammutinamenti, malattie, fame, scontri con gli indigeni delle terre di approdo,
riducono "l'armata" da 5 navi, ad una sola. Dei 237 salpati, se ne
salvano solo 18. E tra loro non c'è "il capitanio". Magellano muore
nell'Isola di Cebu - Filippine - durante una spedizione per sedare
l'insurrezione della popolazione locale. Era il 27 aprile 1521.
“ Sabato, a sei de
settembre 1522, intrassemo nella baia de San Lucar, se non disdotto uomini e la
maggior parte infermi. Dal tempo che se partissemo de questa baia fin al giorno
presente avevamo fatto quattordici mila e quattrocento e sessanta leghe e più,
compiuto lo circolo del mondo, dal levante al ponente. Marti, noi tutti, in
camicia e discalzi, andassemo con una torcia in mano, a visitare il luogo di
Santa Maria de la Victoria e de Santa Maria de l'Antiqua. ”
Pur non portando a termine la
sua missione, Magellano è il primo europeo a navigare nell'Oceano Pacifico e a
trovarne il più importante passaggio naturale - della cui esistenza era
convinto - con l'Oceano Atlantico. Pigafetta lo descrive "calmo",
"saggio", "rispettoso" ma forse, bisognerebbe anche dire
folle abbastanza da lasciarsi sedurre dal mare il cui "spettacolo - diceva
una famosa scrittrice francese - fa sempre una profonda impressione",
essendo "l’immagine di quell’infinito che attira senza posa il pensiero, e
nel quale senza posa il pensiero va a perdersi.”
da Vatican News