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A CACCIA DEL PRIMO POSTO .....

Ventiduesima domenica durante l'anno:  
Sir 3,17-18.20.28-29/ Eb 12,18-19.22-24/ Lc 14,1.7-14

Dal Vangelo secondo Luca - Lc 14, 1.7-14
Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo.
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

Commento di don Fabio Rosini
Primi posti
Si urla, sempre. Sempre più spesso, sempre più forte. E, finalmente, senza remore, senza vergogna, senza ipocriti perbenismi. Diciamolo, infine, sveliamo il segreto di pulcinella: l’uomo è fogna putrida. Inutile giocare a fare i democratici, i tolleranti, i dialoganti. Viva l’uomo forte, le parole forti, le scelte forti. Poco importa se la realtà è complessa e va accolta e capita per poter essere cambiata: chi c’è c’è e pazienza per gli altri. È una giungla, il mondo, impone una lotta senza quartiere. Per essere visibili, per essere notati, o anche solo per sopravvivere. O forse facciamo parte dell’altra parte, di quella che vorrebbe e non potrebbe. Di quella, direbbe il filosofo Niestche, che non potendo essere dalla parte dei vittoriosi esalta i perdenti, dicendo beati i poveri. Ma vorremmo, o sì se vorremmo, essere visibili. Ci sfiniamo di selfie, siamo inquieti se non abbiamo sufficienti like, seguiamo i vari influencer pensando che siano loro i nuovi modelli. Uno su mille ce la fa, d’accordo. E gli altri novecentonovantanove? E su questo minestrone che ribolle, su questi tempi infangati e rissosi, irrompe una Parola sussurrata. Un Parola capace di orientare. Di svelare. Di far capire. Di illuminare. Uno su mille ce la fa, d’accordo. E gli altri novecentonovantanove?
Emergere
Non cerchiamo salvezza, ma salvatori, dicevamo nelle scorse domeniche. Qualcuno che risolva al posto nostro, senza farci fare troppa fatica, se possibile. Gesù osserva la realtà, molto simile alla nostra. Vede come, durante un banchetto ufficiale, alla presenza di persone importanti, molti si sgomitino per accedere ai primi posti, per avvicinarsi alla star, vera o presunta, della festa. E, pieno di buon senso, ammonisce: attento a non fare figure meschine. Atteggiamento che portiamo incistato nel cuore. La voglia di emergere, di apparire, di contare. Nel mondo e nella Chiesa, sia chiaro. Che porta in sé una fragilità sconcertante: far dipendere dagli altri il valore di ciò che siamo.
Appesi
Troppe volte siamo appesi dal giudizio che gli altri danno delle nostre azioni. Dipendiamo dal giudizio: sarò capace? Avrò fatto bene? Ci sforziamo di essere come gli altri si aspettano che siamo. Bravi genitori, bravi figli, bravi preti. Speriamo, prima o poi, di ricevere un diplomino colorato che attesti la nostra bravura. E se questo non accade sprofondiamo nella depressione o facciamo una scenata terribile per non avere visto riconosciuti i nostri sforzi, dopo tutto quello che ho fatto per te! Mendichiamo un apprezzamento, elemosiniamo un buffetto. Perché fondiamo la nostra autostima fuori da noi. Siamo dei capolavori. Dio ci ha creati tali. Pezzi unici. Inutile pensare di essere delle fotocopie. Volgiamo lo sguardo all’Unico che sa davvero chi siamo. E cosa possiamo diventare.
Vai a te stesso.
Gesù ci rivela un mondo altro: non hai bisogno di mostrarti, di apparire, tu vali. L’autostima che nasce nel tuo cuore non è misurata dalle tue abilità, no, ma dal fatto che sei pensato, voluto e amato dal tuo Dio. Anche se non vinci nessuna medaglia. Anche se la tua vita è fatta di piccoli passi.
Tu vali!
 Questo è il messaggio della Scrittura: sei prezioso agli occhi di Dio. Non importa il tuo limite, né la misura della tua paura. Non importa cosa gli altri pensino di te: tu vali, sei prezioso agli occhi di Dio. Perciò non hai necessità di ostentare, di cercare ossessivamente una visibilità che il mondo ti nega o riserva a pochissimi eletti. Tu vali, anche se non vincerai mai nessuna medaglia d’oro e la tua piccola vita si perderà nei ricordi di una generazione. Tu vali, non svendere la tua dignità, coltiva il dentro e se coltivi il fuori, e coltivalo, che sia sempre e solo trasparenza del dentro. I tuoi limiti? Un recinto che delimita lo spazio in cui realizzarti. I tuoi peccati? Esperienza della finitudine e della libertà ancora da purificare, da accogliere da adulto e da mettere nelle mani di Dio. Non hai bisogno di metterti ai primi posti: solo Dio conosce il tuo cuore, lo conosce più di quanto tu lo conosca, non lasciarti travolgere dai falsi profeti del nostro tempo.
Siamo chiamati
Il mio nome è scritto nei cieli, cioè nel cuore di Dio. mi sono accostato all’assemblea dei santi, fratelli e sorelle che, come me, sono stati toccati dalla presenza del Mistero. Non ho bisogno di urlare se non di gridare con la vita quanto siamo amati. E vivere da salvato. No, non urlo, non litigo, non penso di essere più furbo o migliore. Sono creta nelle mani del vasaio. Ecco da dove nasce l’umiltà. Che non è la depressione di noi cattolici, ma l’esperienza gioiosa e feconda di ciò che possiamo realisticamente essere. Sappiamo di essere preziosi agli di Dio. Abbiamo conosciuto la nostra ombra ma, infinitamente di più, la luce della sua presenza. Quella vogliamo raccontare e vivere. Perché sperimentiamo di essere amati in totalità, e questo amore ci spinge a superare ogni ostacolo.
Davvero vi interessano ancora i primi posti?







venerdì 30 agosto 2019

IL TEMPO DEL CREATO - I CRISTIANI UNITI PER DIFENDERE LA NATURA

Papa Francesco: 
la Creazione è un progetto dell’amore di Dio


Per il mese di settembre, il Pontefice orienta l’intenzione di preghiera a favore della protezione dei mari e degli oceani, “molti dei quali oggi minacciati da diverse cause”

Barbara Castelli – Città del Vaticano


Preghiamo in questo mese perché i politici, gli scienziati e gli economisti lavorino insieme per la protezione dei mari e degli oceani”. E’ l’esortazione che Papa Francesco leva nel video-messaggio per l’intenzione di preghiera del mese di settembre. Il Pontefice ricorda che “la Creazione è un progetto dell’amore di Dio all’umanità”, e che oggi gli oceani, che custodiscono “la maggior parte dell’acqua del pianeta e anche la maggior varietà di esseri viventi”, sono “minacciati da diverse cause”. “La nostra solidarietà con la ‘casa comune’ – insiste – nasce dalla nostra fede”.
La costante attenzione del Papa per l’ambiente
Padre Frédéric Fornos, direttore internazionale della Rete mondiale di preghiera del Papa, che include il Movimento eucaristico giovanile, ricorda che lo scorso anno, in occasione della Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato (#SeasonOfCreation), Papa Bergoglio si era soffermato sulla “questione dell’acqua”, con particolare riguardo ai mari e agli oceani, la cui custodia “rappresenta oggi una responsabilità ineludibile”. “Non possiamo permettere che i mari e gli oceani – si legge nel Messaggio del Pontefice – si riempiano di distese inerti di plastica galleggiante. Anche per questa emergenza siamo chiamati a impegnarci, con mentalità attiva, pregando come se tutto dipendesse dalla Provvidenza divina e operando come se tutto dipendesse da noi”.
Il polmone blu del mondo
Il video-messaggio di Papa Francesco per settembre affronta la grave sfida che rappresenta la protezione degli oceani. Il fitoplancton oceanico, infatti, è responsabile della produzione di oltre la metà dell’ossigeno del pianeta. L’edizione di questo mese è stata una co-produzione tra Yann Arthus-Bertrand e il suo team Hope Production, l’agenzia La Machi - Comunicazione per la buone cause e Vatican Media. Questo contributo, inoltre, viene lanciato nell’ambito della celebrazione ecumenica annuale “Il Tempo del Creato”.
Il mare soffocato dalla plastica
Ogni anno, oltre 8 milioni di tonnellate di plastica si riversano negli oceani, causando, tra le altre cose, la morte di circa 100.000 specie. L’inquinamento marino dovuto alla plastica è un problema globale e transfrontaliero, che richiede una responsabilità condivisa e un approccio comune. Nei suoi “Obiettivi di sviluppo sostenibile”, le Nazioni Unite si sono poste diversi obiettivi per contrastare questa situazione, consapevole che gli oceani forniscono risorse naturali fondamentali come cibo, medicine, biocarburanti e altri prodotti; contribuiscono alla decomposizione molecolare e all’eliminazione dei rifiuti e dell’inquinamento; e i suoi ecosistemi costieri agiscono da ammortizzatori per ridurre i danni causati dalle tempeste.

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Vatican News






giovedì 29 agosto 2019

MAESTRI DELLA SCUOLA PRIMARIA

GLI INSEGNANTI SI RACCONTANO

sabato 24 agosto 2019

UNA PORTA STRETTA


Quella porta «stretta» per aprirci all'essenziale




padre Ermes Ronchi

XXI Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (25 agosto 2019)

Gesù è in cammino verso la città dove muoiono i profeti. Lungo la strada, un tale gli pone una domanda circa la salvezza: di Gerusalemme e di tutti. Tremore e ansia nella voce di chi chiede. E Gesù risponde con altrettanta cura: salvezza sarà, ma non sarà facile. E ricorre all'immagine della porta stretta. Un aggettivo che ci inquieta, perché «stretta» evoca per noi fatiche e difficoltà.
Ma tutto il Vangelo è portatore non di dolenti, ma di belle notizie: la porta è stretta, cioè piccola, come lo sono i piccoli e i bambini e i poveri che saranno i principi del Regno di Dio; è stretta ma a misura d'uomo, di un uomo nudo ed essenziale, che ha lasciato giù tutto ciò di cui si gonfia: ruoli, portafogli gonfi, l'elenco dei meriti, i bagagli inutili, il superfluo; la porta è stretta, ma è aperta.
L'insegnamento è chiaro: fatti piccolo, e la porta si farà grande. Quando il padrone di casa chiuderà la porta, voi busserete: Signore aprici. E lui: non so di dove siete, non vi conosco. Avete false credenziali. Quelli che si accalcano per entrare si vantano di cose che contano poco: abbiamo mangiato e bevuto con te, eravamo in piazza ad ascoltarti. Ma questo può essere solo un alibi di comodo. «Quando è vera fede e quando è solo religione? Fede vera è quando fai te sulla misura di Dio; semplice religione è quando fai Dio a tua misura» (Turoldo).
Abbiamo mangiato in tua presenza... Non basta mangiare il pane che è Gesù, spezzato per noi, bisogna farsi pane, spezzato per la fame d'altri. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia. Non vi conosco. Il riconoscimento sta nella giustizia fattiva.
Dio non ti riconosce per formule, riti o simboli religiosi, ma perché hai mani di giustizia. Ti riconosce non perché fai delle cose per lui, ma perché con lui e come lui fai delle cose per i piccoli e i poveri. Non so di dove siete: il vostro modo di vedere è lontanissimo dal mio, voi venite da un mondo diverso rispetto al mio, da un altro pianeta. Infatti, quelli che bussano alla porta chiusa hanno compiuto sì azioni per Dio, ma nessun gesto di giustizia per i fratelli.
La conclusione della piccola parabola è piena di sorprese: la sala è piena, oltre quella porta Gesù immagina una festa multicolore: verranno da oriente e occidente, dal nord e dal sud del mondo e siederanno a mensa. Viene sfatata l'idea della porta stretta come porta per pochi, solo per i più bravi. Tutti possono passare, per la misericordia di Dio. Il suo sogno è far sorgere figli da ogni dove, per una offerta di felicità, per una vita in pienezza. Lui li raccoglie da tutti gli angoli del mondo, variopinti clandestini del regno, arrivati ultimi e per lui considerati primi.

Tratto da Qumran2.net | www.qumran2.net



venerdì 23 agosto 2019

LA FORESTA AMAZZONICA BRUCIA. PERICOLI PER IL MONDO INTERO


In un comunicato la preoccupazione dei vescovi del Consiglio episcopale latinoamericano, Celam. L’Istituto Nazionale di Ricerche Spaziali brasiliano, responsabile del monitoraggio satellitare delle foreste, riporta che dall’inizio dell’anno sono scoppiati circa 73.000 incendi con un aumento dell’82% rispetto allo scorso anno. Poco più della metà dei roghi avviene in Amazzonia

Adriana Masotti e Roberto Artigiani – Città del Vaticano

La più grande foresta del pianeta, quella della Regione amazzonica, brucia a ritmi preoccupanti e i vescovi dell'America Latina sentono il dovere di alzare la voce per richiamare l'attenzione su questo dramma. “Consapevoli dei terribili incendi che consumano grandi porzioni di flora e fauna, in Alaska, Groenlandia, Siberia, Isole Canarie, e in particolare in Amazzonia, noi vescovi dell'America Latina e dei Caraibi desideriamo esprimere la nostra preoccupazione per la gravità di questa tragedia", si legge in un comunicato a firma della presidenza del Celam, il Consiglio dei vescovi latinoamericani. La speranza dettata dal Sinodo sull'Amazzonia ormai vicino, continuano i presuli, sembra ora offuscata dal dolore per questa tragedia naturale. Esprimono quindi alle popolazioni indigene del territorio amazzonico la loro vicinanza, mentre uniscono la propria voce alla loro per chiedere al mondo solidarietà e pronta attenzione "per fermare questa devastazione”.
La denuncia contenuta nello Strumento di lavoro del Sinodo
Lo Strumento di lavoro del Sinodo sull’Amazzonia, si legge ancora nel comunicato, avverte profeticamente che in questa foresta di vitale importanza per il pianeta, è stata innescata una profonda crisi a causa di un prolungato intervento dell'uomo in cui predominano la 'cultura della scarto' e una mentalità che mette al centro l’attività produttiva. “Esortiamo i governi dei Paesi amazzonici, in particolare del Brasile e della Bolivia, le Nazioni Unite e la comunità internazionale ad agire seriamente per salvare il polmone del mondo”, scrivono i vescovi, ricordando che ciò che succede in Amazzonia ha una portata planetaria. “Se l'Amazzonia soffre – concludono - soffre il mondo”.
Roghi alimentati dal clima politico
I dati sugli incendi forniti dall'Istituto Nazionale di Ricerche Spaziali brasiliano fotografano una realtà allarmante. Stefano Raimondi dell’ufficio Aree Protette di Legambiente commenta: “La situazione è decisamente peggiorata nel corso dell’ultimo anno. Le fonti che abbiamo riportano un incremento degli incendi in tutto il Brasile di oltre l’83% nella prima parte dell’anno rispetto allo stesso periodo del 2018. Altre fonti sono anche più allarmistiche, ma sicuramente possiamo dire che a grandi linee gli incendi sono più che raddoppiati. È una situazione preoccupante visto che si tratta di roghi di origine dolosa, alimentati da un clima politico che nega la questione nonostante ci possano essere conseguenze a livello mondiale”.
Una pesante eredità per le prossime generazioni
Riguardo alle conseguenze degli incendi, Raimondi afferma che “da un lato c’è l’effetto immediato dell’emissione nell’atmosfera di grandi quantità di anidride carbonica che alimenta l’effetto serra; dall’altro c’è il fatto che in prospettiva queste foreste non contribuiranno per decenni all’assorbimento dei gas che concorrono ad alterare il clima. Stiamo perdendo foreste di dimensioni pari a interi Stati europei. Questi enormi danni li pagheranno le prossime generazioni". 
Situazione politica favorevole al disboscamento
Sulla questione dei roghi il presidente del Brasile, Bolsonaro ha chiamato in causa le Ong. Le sue dichiarazioni sono state definite “completamente irresponsabili” dall’Istituto Brasiliano di Protezione Ambientale. Secondo Raimondi “Bolsonaro accusa gli ambientalisti di appiccare gli incendi quando evidentemente la responsabilità è da ricercare altrove" E prosegue: "In Amazzonia i disboscamenti con il fuoco sono sempre avvenuti da parte di allevatori e contadini per ottenere territorio da coltivare o da mettere a disposizione di allevamenti. L’accelerazione degli ultimi mesi si nutre anche dell'attuale clima politico: la scarsa attenzione nei confronti delle tematiche ambientali ha portato molti agricoltori e allevatori, purtroppo anche piccoli, ad accelerare il disboscamento non sapendo quanto durerà questa situazione così favorevole alla sottrazione del territorio amazzonico per scopi meramente produttivi”.

Vatican News

mercoledì 21 agosto 2019

CRISI DI GOVERNO ed EDUCAZIONE CIVICA

Educazione civica solo nel 2020

La mancata pubblicazione della legge sulla Gazzetta Ufficiale fa slittare tutta la materia di un anno.


 di PAOLO FERRARIO

L’educazione civica, la prima vittima della crisi di governo.
In questo agosto ad alta tensione, tra una dichiarazione e una smentita, un comizio e un’intervista, nei corridori del Parlamento si è persa la legge 1264 “Introduzione dell’insegnamento scolastico dell’educazione civica”, approvata in via definitiva dal Senato lo scorso 1° agosto, ma non ancora pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. E proprio qui sta il problema. 
Secondo il primo comma dell’articolo 2 della legge in questione, «l’insegnamento trasversale dell’educazione civica» è introdotto «a decorrere dal 1° settembre del primo anno scolastico successivo all’entrata in vigore della presente legge». Prevista quindici giorni dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Che, per far sì che la materia fosse introdotta già dall’anno scolastico 2019-2020 - come annunciato dallo stesso ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, che un minuto dopo l’approvazione parlava di «giornata storica per la scuola italiana» - doveva avvenire entro il 16 agosto. In questo modo, l’entrata in vigore sarebbe caduta entro il 31 agosto, giorno di chiusura dell’anno scolastico 2018-2019. E, quindi, l’anno scolastico successivo sarebbe stato il 2019-2020, che avrà inizio il 1° settembre. La mancata pubblicazione entro il termine di metà agosto, invece, farà giocoforza slittare l’entrata in vigore (quando sarà), dopo il 1° settembre e, quindi, già nel nuovo anno scolastico. Di conseguenza, l’anno scolastico successivo all’entrata in vigore della legge, sarà il 2020-2021.
Un bel pasticcio, insomma, per una riforma, presentata come la cura del malessere che, da troppo tempo, si respira nella scuola - sfociato anche in bullismo e aggressioni ad insegnanti - rimasta, invece, impantanata in Parlamento.
«Comunque vada a finire, siamo di fronte all’ennesima occasione persa», commenta, amaramente, la segretaria generale della Cisl Scuola, Maddalena Gissi. Che, all’indomani dell’approvazione della legge, ne aveva già segnalato le criticità. Come, per esempio, la mancata attribuzione di un monte ore aggiuntivo per realizzare le 33 ore annue di educazione civica previste dalla norma, «da svolgersi – recita, in proposito, il comma 3 dell’articolo 2 – nell’ambito del monte orario obbligatorio previsto dagli ordinamenti vigenti ». In altri termini, sottolineava Gissi, si «pone inevitabilmente a carico delle istituzioni scolastiche il compito di far quadrare i conti nella programmazione annuale dell’attività».
Il limbo in cui è finita la legge, a giudizio della leader sindacale, potrebbe allora essere utilmente impiegato per porre mano a questa e altre criticità della riforma. Come, per esempio, la mancata indicazione di un docente specifico per insegnare la nuova materia, affidata «in contitolarità » a più professori, che fanno riferimento a un non meglio specificato collega «con compiti di coordinamento». Il tutto, altro punto dolente segnalato dal sindacato, senza «incrementi o modifiche dell’organico, né ore di insegnamento eccedenti rispetto all’orario» e senza la previsione di «compensi, indennità, rimborsi di spese o altri emolumenti ». Insomma, una riforma a costo zero, che lascia «molto perplessa» la segretaria Gissi. «Anche questa vicenda – conclude – dimostra che in tanti si cimentano con la scuola, ma senza avere la necessaria conoscenza della complessità delle questioni».
Tutte problematiche su cui il Ministero dell’Istruzione, sollecitato da Avvenire, non ha voluto prendere posizione. A partire dalla domanda principale: perché la legge non è stata pubblicata entro i termini previsti? «Non mi stupirei se si trattasse di distrazione o incuria», dice, laconicamente, Cristina Giachi, vicesindaca di Firenze e presidente della Commissione istruzione, politiche educative ed edilizia scolastica dell’Anci. L’Associazione dei Comuni italiani si era fatta promotrice di una proposta di legge di iniziativa popolare sull’educazione alla cittadinanza, sottoscritta da più di centomila cittadini, che aveva dato avvio all’iter parlamentare arrivato a conclusione il 1° agosto.
«La nostra proposta era più articolata e, alla fine, si è arrivati a questo compromesso – ricorda Giachi –. Questo slittamento potrebbe anche essere l’occasione per rimetterci mano, anche se non sono fiduciosa che ciò possa avvenire. Per il governo è stata soltanto una battaglia di bandiera senza la minima attenzione ai contenuti. E anche questo scivolone finale dimostra la scarsa cura che ha caratterizzato l’intera vicenda. L’ennesima occasione persa».





LA FOLLIA DELLA VIOLENZA. QUOTIDIANI EPISODI DI VIOLENZA CHE CI SGOMENTANO

LA VIOLENZA 
«BANALE» 
LA NATURA UMANA

Come si perde 
il "lume della ragione"

 Lettura neuroscientifica delle «esplosioni» estive

di Pietro Pietrini*

Il duplice omicidio del giorno di Ferragosto a Ucria, nel Messinese, apparentemente a seguito di una lite per un parcheggio, va ad aggiungersi al lungo elenco di fatti di cronaca analoghi avvenuti negli ultimi anni. Nel solo 2016, stando a dati statistici pubblicati dall’Osservatorio Asaps (Associazione sostenitori amici della Polizia stradale), in Italia ci sono stati ben 183 episodi di aggressioni stradali refertati, che hanno causato quattro morti e 238 feriti, 37 dei quali gravi. Aggressioni che trovano origine in una precedenza non concessa, un parcheggio conteso, un sorpasso non gradito. O ancora, c’è chi è stato ucciso per il fastidio di uno schiamazzo in strada o per aver negato una sigaretta. Liti che esplodono per ragioni che sembra già tanto poter definire 'futili'. Quei futili motivi che per il Codice penale costituiscono un aggravante di un fatto di reato. Fenomeno pressoché ubiquitario. Il che certo non consola, ma piuttosto impone una riflessione sull’umana natura. Cosa accade nella mente umana in questi frangenti? Come si arriva a perdere il lume della ragione?
A chi di noi non è mai capitato di ritrovarsi a inveire con foga contro il furbetto che con una manovra magari un po’ azzardata ci ha appena soffiato da sotto il naso il parcheggio che avevamo adocchiato dopo lungo girovagare? Se ripensiamo alla nostra risposta in quei frangenti, potremmo addirittura rimanere sorpresi dalla veemenza della nostra reazione, da quello che in quegli attimi siamo riusciti a dire, o meglio, non siamo riusciti a non dire, non importa se eravamo soli o con altri in macchina, magari con i nostri figli. Nell’immediatezza dell’evento non riusciamo a evitare una reazione viscerale, quasi incontrollabile: presi da un impeto di rabbia che sale, proferiamo imprecazioni e maledizioni di ogni genere. In poco tempo, tuttavia, anche solo pochi attimi più tardi, riprendiamo il controllo e ci rimettiamo, magari sbuffando un po’, alla ricerca di un nuovo posto. È una reazione fisiologica. È la ragione per cui, nelle situazioni di conflitto, fin da piccoli ci insegnano a contare fino a dieci prima di rispondere. Perché sappiamo che in quei pochi secondi è molto probabile che il tono della nostra risposta diventi radicalmente diverso. L’alternativa è rischiare di dire cose delle quali ci pentiamo poco dopo, magari anche solo dopo aver appena finito di pronunciarle.
L’esperienza ci insegna anche che la nostra risposta di fronte a eventi simili può essere assai diversa da giorno a giorno. Basta poco: se siamo digiuni o abbiamo mangiato, se siamo stanchi o riposati, tristi o felici. La nostra percezione del mondo che ci circonda cambia e così la nostra modalità di interagire con esso. Le recenti acquisizioni delle neuroscienze cognitive stanno rivelando il fine gioco di squadra tra emozione e ragione nella modulazione del nostro comportamento. Conosciamo sempre meglio i meccanismi cerebrali che sottendono questi rapporti in condizioni normali e in presenza di patologie psichiatriche. Sappiamo oggi che particolari combinazioni di fattori genetici, neurobiologici e cerebrali, unitamente a fattori ambientali, possono favorire condizioni di maggiore rischio di discontrollo degli impulsi, di comportamenti abnormi in risposta a provocazioni anche modeste. Ma se in alcuni dei casi di cronaca come quelli ricordati in apertura è talvolta possibile riscontrare una franca patologia mentale o una storia di abuso di sostanze, in molti altri casi non vi è nulla di questo. L’assassino è «la persona mite, lavoratore instancabile e mai protagonista di episodi violenti» come nel caso del sessantenne che nel giugno del 2016 a Giulianova uccise con una coltellata al cuore un compaesano con il quale poco prima aveva un diverbio per un sorpasso. Mutuando Hannah Arendt, potremmo definirla la «banalità del male», che trasforma il vicino della porta accanto in un assassino. La sfida delle neuroscienze sociali, che studiano con metodologie multidisciplinari il comportamento umano, è quella di riuscire a comprendere quali meccanismi entrano in gioco nel generare quel 'sonno della ragione' che, in pochi attimi, cambia per sempre la sorte sia della vittima sia dell’aggressore.
*Psichiatra e neuroscienziato direttore della Scuola Imt Alti Studi Lucca

martedì 20 agosto 2019

TRISTE QUEL PAESE CHE NON PROGETTA IL FUTURO !

Il Presidente della Cei al Meeting di Rimini lancia l'allarme sulla condizione dei giovani italiani 

“Da ormai molti decenni nel discorso pubblico - ha denunciato il porporato - è usuale parlare dei giovani attraverso un linguaggio denso di retorica e buoni sentimenti, ma con poca attenzione alla vita concreta dei ragazzi e soprattutto con un discutibile senso di responsabilità verso di loro. Quando parlo di vita concreta mi riferisco ovviamente ad una vita piena in cui la dimensione spirituale ha un peso importante”.
Ho la netta sensazione che il nostro Paese - ha aggiunto ancora il Cardinale Bassetti - non riesca minimamente a valorizzare i talenti, le capacità e le attitudini dei nostri giovani. I giovani che io conosco sono infatti giovani ricchi. Anzi, ricchissimi. Non di denaro ma di talenti. Nella maggioranza dei casi, però, questi talenti non vengono riconosciuti. Rimangono sepolti nel deserto o nella palude della nostra società”.

Oggi - ha concluso - “in moltissimi casi ci troviamo di fronte a delle persone che vivono un profondo non senso esistenziale perché non riescono ad intravedere il futuro. È triste quel Paese che non sa dare speranza ai propri figli! È triste quel Paese che non sa progettare il futuro, che non riesce a sanare le ferite della propria storia. In questi anni, ho incontrato e conosciuto moltissimi ragazzi che hanno voglia di mettersi in gioco, che hanno desiderio di mostrare le proprie capacità e di applicare quello che hanno studiato, ma hanno perso la speranza di trovare un ruolo e un posto in questa società avida e arida. Hanno perso la speranza di trovare un lavoro degno che non sia fatto solo di precarietà e umiliazioni quotidiane”.

(ACI Stampa).- 

sabato 17 agosto 2019

LA VERITÀ E' CIO' CHE ARDE


Vangelo: Lc 12,49-53 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )
 
Visualizza Lc 12,49-53
Sono venuto a gettare fuoco sulla terra. Tutti abbiamo conosciuto uomini e donne appassionati del Vangelo, e li abbiamo visti passare fra noi come una fiaccola accesa. «La verità è ciò che arde» (Christian Bobin), occhi e mani che ardono, che hanno luce e trasmettono calore: «la vita xe fiama» (Biagio Marin).
Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. Lui che ha chiesto di amare i nemici, che ha dato il nome di "divisore", diavolo, al peggior nemico dell'uomo, che ha pregato fino all'ultima sera per l'unità "ut unum sint", qui si contraddice. E capisco allora che, sotto la superficie delle parole, devo cercare ancora.
Gesù stesso, tenero come un innamorato e coraggioso come un eroe, è stato con tutta la sua vita segno di contraddizione. Il suo Vangelo è venuto come una sconvolgente liberazione: per le donne sottomesse e schiacciate dal maschilismo; per i bambini, proprietà dei genitori; per gli schiavi in balia dei padroni; per i lebbrosi, i ciechi, i poveri. Si è messo dalla loro parte, li chiama al suo banchetto, fa di un bambino il modello di tutti e dei poveri i principi del suo regno, sceglie sempre l'umano contro il disumano. La sua predicazione non metteva in pace la coscienza, ma la risvegliava dalle false paci! Paci apparenti, rotte da un modo più vero di intendere la vita.
La scelta di chi si dona, di chi perdona, di chi non si attacca al denaro, di chi non vuole dominare ma servire gli altri, di chi non vuole vendicarsi diventa precisamente divisione, guerra, urto inevitabile con chi pensa a vendicarsi, salire, dominare, con chi pensa che è vita solo quella di colui che vince. Leonardo Sciascia si augurava: «Io mi aspetto che i cristiani qualche volta accarezzino il mondo in contropelo». Ritti, controcorrente, senza accodarsi ai potenti di turno o al pensiero dominante. Che riscoprano e vivano la "beatitudine degli oppositori", di chi si oppone a tutto ciò che fa male alla storia e al cuore dei figli di Dio.
Gesù nel Vangelo di Tommaso ha questa espressione: «Stare vicino a me è stare vicino al fuoco». Siamo discepoli di un Vangelo che brucia, brucia dentro, ci infiamma qualche volta almeno, oppure abbiamo una fede che rischia di essere solo un tranquillante, una fede sonnifero? Il Vangelo non è un bavaglio, ma un megafono. Ti fa voce di chi non ha voce, sei il giusto che lotta in mezzo alle ingiustizie, mai passivo e arreso, mai senza fuoco.
Quanto vorrei che questo fuoco fosse già acceso. Eppure arde! C'è dentro le cose il seme incandescente di un mondo nuovo. C'è una goccia di fuoco anche in me, una lingua di fuoco sopra ognuno di noi a Pentecoste, c'è lo Spirito santo che accende i suoi roveti all'angolo di ogni strada.


giovedì 15 agosto 2019

ADULTI E GIOVANI IN ASCOLTO


di Alessandra Smerilli

Chi è l’adulto? Participio passato del verbo adolescere, è sinonimo di "cresciuto": in quasi tutte le culture è apparso desiderabile giungere a una reale maturità, e così il passaggio verso il mondo delle responsabilità è stato ritualizzato in una festa. Invece sono in molti a rilevare come oggi, almeno in Occidente, essenziale sia rimanere o ritornare giovani, se possibile per tutta la vita. A livello antropologico si tratta di una deregulation senza precedenti. Non è più definito che cosa sia proprio di ogni generazione e ciò che ci si debba aspettare dalle diverse età. Ognuno può prendersi il ruolo dell’altro. Le possibilità di ciascuno si moltiplicano, così come una competizione in cui chiunque può rivelarsi avversario. Per il cristianesimo si tratta dell’implosione di un rapporto tra le generazioni apparentemente imprescindibile per la trasmissione della fede: in famiglia e poi in comunità gerarchicamente strutturate i grandi educano i piccoli alla vita, introducendo a un ordine spirituale che si vorrebbe riflesso in quello sociale.
          Sebbene in qualche angolo del pianeta sembri funzionare ancora, internet materializza ovunque lo scardinamento di quel modello, connettendo ormai "orizzontalmente" ragazzi e adulti a ogni latitudine, senza distinzione di ruoli e identità. Non deve dunque sorprendere che, in ambito cattolico, persino il Sinodo dei vescovi si orienti a non concepire più i giovani semplicemente come "destinatari" della fede: non c’è semplicemente un messaggio da trasmettere da chi sa a chi non sa, ma un’esigenza continua di convertirsi insieme alla novità del Vangelo. Potremmo allora legittimamente chiederci: i giovani hanno ancora bisogno degli adulti? In che cosa possiamo aiutarli? Come ci interpella questo tempo?
Ci sono questioni che investono la fede stessa in cui i millennials stanno evidentemente facendo da apripista e come da enzimi nel corpo sociale. Intensa, ad esempio, è generalmente la loro sensibilità per la cura della casa comune, nelle sfide che riguardano il rispetto per il creato e la necessità di cambiamento nei nostri comportamenti quotidiani. Durante un incontro sul rapporto tra economia e ambiente, ad esempio, un ragazzino di 12 anni interviene raccontando a tutti che quest’anno in quaresima ha vissuto il digiuno dalla plastica. Alla domanda: «Ma cosa vuol dire?», così risponde: «Ogni sabato vado a fare la spesa con mia mamma e vigilo su come fa gli acquisti, chiedendole con insistenza di limitare la plastica, in modo da scegliere confezioni ecologiche e materiali riciclabili». D’altra parte, gli adolescenti che fanno notare al loro prete come i foglietti della preghiera avrebbero potuto esser stampati fronte-retro e su carta riciclata sono gli stessi che vanno sollecitati con un certo vigore affinché non trasformino in una discarica lo scenario alpino in cui stanno pranzando al sacco. L’adulto, insomma, rimane determinante a strutturare in habitus ciò da cui mente e cuore sono attratti, favorendo e accompagnando il passaggio dall’entusiasmo a convinzioni che muovono poi i comportamenti reali. 
Il punto, forse, è riconoscere la circolarità delle sollecitazioni: anche dal più piccolo, sempre più spesso, si è messi in questione e chiamati a crescere ancora. In questo il contesto contemporaneo si dimostra realmente nuovo. Più si trascorre tempo incontrando i ragazzi e i giovani del nostro Paese, più ci si rende conto che verso i loro adulti di riferimento essi costituiscono una costante provocazione al confronto e all’apertura. Dove le gerarchie si sono indebolite e i ruoli sono diventati sempre più interscambiabili, la sostanza delle parole e dei comportamenti è la vera questione. In questo, spazzando via molte formalità, i giovani esercitano a propria volta una propria maieutica, che chiede a chi li ha preceduti di venire nuovamente o maggiormente alla luce. Durante una conferenza sui temi della finanza due adolescenti si stavano dimostrando attentissimi. Erano collaboratori di Radio Immaginaria, un network dei ragazzi. Dialogando con loro a margine dei lavori arrivano importanti domande: «Che cosa possiamo dire ai nostri genitori per convincerli ad essere più consapevoli di come usano il denaro? Come possiamo far capire loro che non possono lamentarsi di un mondo che non funziona, se poi loro stessi con le loro scelte contribuiscono a farlo andare così? Si dice che noi giovani non siamo interessati ai grandi temi, per esempio all’economia e della finanza, ma quanto dipende dal modo in cui ci vengono trasmessi?». Domande a degli adulti, sugli adulti: l’incontro tra generazioni rimane quindi imprescindibile, a condizione che includa l’interlocutore e divenga uno scambio. 
In realtà, il cambiamento d’epoca ci riconduce così ai fondamentali dell’educazione. Adulto è chi si assume la responsabilità di ciò che dice e di ciò che fa, del mondo così come è configurato, della sua bellezza e delle sue miserie. Sa di non sapere, riconosce il proprio potere e i suoi limiti: quelli strutturali, ma anche quelli necessari a dare agli altri spazio e respiro. Fragile, limitato, in movimento, l’adulto fa una proposta, si posiziona, si colloca con un carattere proprio nella complessità. È il contrario del bambino che scalpita, si gonfia e grida pretendendo di esser tutto e di ottenere tutto. Non è rigido, perché della realtà conosce le sfumature e l’instabilità: la sua coerenza non è ostentazione di principi, ma duttilità e costanza, partecipazione ai problemi altrui, affidabilità. Di fronte alle domande dei giovani, l’esortazione Christus Vivit (CV) di papa Francesco lancia un appello alla Chiesa che per essere credibile ai loro occhi «a volte ha bisogno di recuperare l’umiltà e semplicemente ascoltare, riconoscere in ciò che altri dicono una luce che la può aiutare a scoprire meglio il Vangelo. Una Chiesa sulla difensiva, che dimentica l’umiltà, che smette di ascoltare, che non si lascia mettere in discussione, perde la giovinezza e si trasforma in un museo. Come potrà accogliere così i sogni dei giovani?» (n. 41). 
La prima generazione del nuovo millennio non vuole fare a meno o liberarsi di noi adulti, anzi. Il punto è che molte volte non riusciamo a interagire, perché le aspettative reciproche non si incrociano. Vorremmo che fossero pronti ad ascoltare quello che abbiamo da dire e da trasmettere e loro si aspettano, piuttosto, di trovarsi davanti a persone che li comprendano, che li guardino con fiducia e che li sollecitino nelle loro potenzialità e nel superamento di difficoltà e disagi. È capitato durante una lezione con diverse classi di licei e di istituti tecnici di Matera. Ci eravamo preparati, volevamo dare il meglio di noi; abbiamo cercato di arrivare con una presentazione ben fatta e accattivante; rischiavamo di parlare troppo. Fino a quando una insegnante ha chiesto la parola: possiamo mostrarvi quel che abbiamo realizzato noi? I ragazzi hanno cominciato, allora, a condividere la loro preparazione al nostro evento: in modo più originale e innovativo si sono fatti portavoce, gli uni verso gli altri, dei principali messaggi che noi adulti intendevamo trasmettere. E allora, perché chiamare dei relatori? La risposta non ha tardato a venire, con un momento di dialogo insieme ai ragazzi. Domande precise, puntuali, profonde: chiedevano una testimonianza credibile, aiuto, speranza e racconti di vita. «Siamo chiamati a investire sulla loro audacia ed educarli ad assumersi le loro responsabilità» (DF 70): a questo ci richiama il Sinodo. «Si tratta prima di tutto di non porre tanti ostacoli, norme, controlli e inquadramenti obbligatori a quei giovani credenti che sono leader naturali nei quartieri e nei diversi ambienti. Dobbiamo limitarci ad accompagnarli e stimolarli, confidando un po’ di più nella fantasia dello Spirito Santo che agisce come vuole» (CV230).




I CRISTIANI CHE FANNO L'ITALIA



di Antonio Spadaro

Che posto ha il discepolato cristiano nel­la moderna società democratica? Come possono i cristiani contribuire a una sana democrazia e a un governo vera­mente popolare della nostra Italia? Per affrontare queste domande si è sviluppato un interessante dibattito sull’eredità di don Sturzo in occasione dell’anni­versario del suo appello «a tutti gli uomini liberi e forti» (1919). Per proseguire la riflessione, pensiamo sia neces­sario tornare al V Convegno della Chiesa italiana, che si è svolto a Firenze nel 2015: un evento sinodale.
In quell’occasione papa Francesco ha pronunciato un discorso che potremmo definire «profetico» alla luce dell’oggi. Bisogna tirarlo fuori dai sussidi chiusi da tempo e tornare a meditare su quelle parole che pongono un legame forte tra fede e politica, perché «i credenti sono cittadini».
«La nazione non è un museo – affermava Francesco –, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose». Ma soprattutto aggiungeva che è inutile cercare soluzioni in «condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative». Ed eccoci all’attuale crisi della democrazia. In un tempo in cui il bisogno di partecipazione si sta esprimendo in forme e modi nuovi, non è possibile tornare all’«usato garantito» o alle retoriche già sentite. Tantomeno, quindi, possiamo immaginare di risolvere la questione mettendo i cattolici tutti da una «parte» (considerando tutti «gli altri» dall’altra). Non basta più neanche una sola tradizione politica a risolvere i problemi del Paese.
La forza propulsiva del cattolicesimo democratico ha bisogno di essere resistente in questi tempi confusi, ma anche di ascoltare e capire meglio, perfino coloro che oggi sono riusciti a intercettare umori e idee della gente. Agostino e Benedetto, davanti al crollo dell’Impero, hanno messo le basi del cristianesimo del Medioevo. Il cristianesimo non ha mai temuto i cambi di paradigma.
Che fare, dunque? La Chiesa italiana saprà farsi interpellare dal mutamento in corso senza limitarsi ad attendere tempi migliori? E come? Abbiamo compreso che è impossibile pensare il futuro dell’Italia senza una partecipazione attiva di tutti i cittadini. Per questo prendiamo spunto da un passaggio del discorso introduttivo del card. Gualtiero Bassetti alla sessione invernale del Consiglio permanente della Cei: «Ripartiamo, fratelli, da questo stile sinodale, viviamolo sul campo, tra la gente…».
Ecco il punto: soltanto un esercizio effettivo di sinodalità all’interno della Chiesa potrà aiutarci a leggere la nostra storia d’oggi e a fare discernimento. Che cos’è la sinodalità? Essa consiste nel coinvolgimento e nella partecipazione attiva di tutto il popolo di Dio alla vita e alla missione della Chiesa attraverso la discussione e il discernimento. Essa respinge ogni forma di clericalismo, incluso quello politico. La crisi della funzione storica delle élites – che fino a poco fa era riuscita a far dare alle democrazie occidentali il meglio di sé – deve aprirci gli occhi. La sinodalità è radicata nella natura popolare della Chiesa, «popolo di Dio».
Perché la sinodalità? Perché questo ampio coinvolgimento? Perché innanzitutto dobbiamo capire che cosa ci è accaduto. Dopo anni in cui forse abbiamo dato per scontato il rapporto tra Chiesa e popolo, e abbiamo immaginato che il Vangelo fosse penetrato nella gente d’Italia, constatiamo invece che il messaggio di Cristo resta, talvolta almeno, ancora uno scandalo. Sentimenti di paura, diffidenza e persino odio – del tutto alieni dalla coscienza cristiana – hanno preso forma tra la nostra gente e si sono espressi nei social networks, oltre che nel broadcasting personale di questo o di quel leader politico, finendo per inquinare il senso estetico ed etico del nostro popolo. Il fenomeno – sia chiaro – non riguarda solamente la nostra Italia.
A questo si aggiunga il fatto che il potere politico oggi ha anche ambizioni «teologiche». Pure il crocifisso è usato come segno dal valore politico, ma in maniera inversa rispetto a quello che eravamo abituati: se prima si dava a Dio quel che invece sarebbe stato bene restasse nelle mani di Cesare, adesso è Cesare a impugnare e brandire quello che è di Dio, a volte pure con la complicità dei chierici.
Il «nemico», dunque, non è più solamente la secolarizzazione, come spesso abbiamo detto, ma è la paura, l’ostilità, il sentirsi minacciati, la frattura dei legami sociali e la perdita del senso di fratellanza umana e di solidarietà. Nella società sta venendo meno la fiducia: nei medici, negli insegnanti, nei politici, negli intellettuali, nei giornalisti, negli uomini del sacro… Risuonano su questa situazione confusa le parole che il Papa a Firenze ha rivolto alla Chiesa italiana: «Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa». E aveva chiesto alla Chiesa: «discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti».
Francesco proseguiva raccoman­dando la ricostruzione dei legami per favorire «l’amicizia sociale». Quindi, compito della Chiesa italiana – diceva – è «dare una risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune». È da fuggire, dunque, l’opzione tombale, cioè l’eresia che le nostre comunità non abbiano più nulla da dire nel fermento della nostra società.
Quale deve essere, allora, il senso di questa risposta? Possiamo riconoscerlo nel discorso di fine anno 2018 del presidente Mattarella, il quale ha affermato l’importanza dell’impegno «per riconoscersi come una comunità di vita» che ha un «comune destino». Sentirsi comunità significa «condividere valori, prospettive, diritti e doveri», «“pensarsi” dentro un futuro comune, da costrui­re insieme»». D'altronde, la forza della Chiesa cattolica in politica è la sua cattolicità, cioè la sua capacità di ricordare l’universalità e di tenere insieme i pezzi lì dove tutto sembra andare in frantumi. E ciò vale anche per la nostra Chiesa italiana.
A questo punto torniamo alla nostra domanda iniziale. Possiamo riconoscere il nostro compito oggi come discepoli di Cristo impegnati nelle tensioni della nostra moderna democrazia in due punti evidenziati dal Presidente: da una parte, contrastare le «tendenze alla regressione della storia»; dall’altra, fare la nostra parte per costruire il Pae­se come «comunità di vita», curando le ferite dei legami spezzati e della fiducia tradita. E questo potrà avvenire solamente grazie a un largo coinvolgimento del popolo di Dio, in un processo sinodale non ristretto né alle élites del pensiero cattolico né ai contesti (specifici e importanti) di formazione.
L’esercizio della sinodalità e quello della democrazia sono cose diverse come metodo. Ma si può facilmente cogliere quanto sia importante la sinodalità nella Chiesa per discernere le forme dell’impegno democratico dei cristiani affinché essi siano – come ci chiedeva Francesco alla fine del suo discorso di Firenze – «costruttori dell’Italia». Che dunque stia maturando il tempo per un sinodo della Chiesa italiana?





MARIA, LA FANTASIA DI DIO - Buona festa dell'Assuzione


di Alberto Maggi

L’inizio e la fine della vita terrena di Maria corrispondono al compimento del progetto che Dio ha sull’umanità: creati per diventare suoi figli, realizziamo questa figliolanza nella vita terrena mediante la pratica di un amore che somigli a quello di Dio e proseguiamo presso il Padre la nostra esistenza oltrepassando la soglia della morte.
La Chiesa presenta come modello perfetto di questo itinerario Maria: l’ingresso nell’esistenza terrena viene celebrato con l’Immacolata e quello nella sfera di Dio con l’Assunta.
Come per l’Immacolata, quello dell’Assunta è un altro dei dogmi recenti (Costituzione Apostolica Munificentissimus Deus, 1950) che non hanno alcuna diretta radice nella Sacra scrittura, ma che appartengono di buon diritto al patrimonio della fede del popolo cristiano.
L’Assunta è infatti una verità di fede nata non dalla speculazione teologica ma dal buon senso o intuito della gente, e in passato era una festività tanto importante da stare alla pari col Natale, la Pasqua e la Pentecoste, le tre grandi solennità dell’anno liturgico.
Ma dobbiamo chiederci che può significare oggi per noi celebrare una simile festa. È ancora una volta rimanere sbalorditi di fronte ai tanti straordinari privilegi che Dio ha abbondantemente riversato su Maria, oppure una proposta, una possibilità valida per tutti i credenti?
Maria “assunta” in cielo è la firma di Dio sull’umanità, la creazione di un uomo che si lasci coinvolgere dall’azione vivificante dello Spirito santo: “Tale glorificazione è il destino di quanti Cristo ha fatto fratelli”, affermò infatti Paolo VI nella Marialis cultus, il documento pontificio che ha portato un’aria nuova nella conoscenza di Maria.
Pertanto anche noi, se mettiamo nella nostra vita una qualità d’amore che assomigli a quella di Dio, fin da adesso, come afferma l’Apostolo Paolo “sediamo nei cieli, in Cristo Gesù” (Ef 2,6), siamo come lui vincitori della morte e continueremo a vivere per sempre (Gv 11,25), come prega la Chiesa il 15 agosto: “anche noi possiamo per intercessione della Vergine Maria giungere fino al Padre nella gloria del cielo”.
Dio non ha creato l’uomo per la morte, ma per la vita, per una vita che può raggiungere la stessa qualità divina, ed essere perciò inattaccabile e indistruttibile.
La festa dell’Assunta ci ricorda e ci stimola quel che possiamo essere.
Ci ricorda che noi siamo importanti agli occhi del Padre che ci vuole innalzare al suo stesso livello.
Ci stimola perché al desiderio del Signore di renderci simili a lui, deve corrispondere anche il nostro impegno di vivere una vita di una tale qualità da renderla indistruttibile e capace quindi di durare per sempre.
Per Maria l’assunzione non è stato un premio ricevuto per meriti speciali, ma la conclusione logica della sua esistenza che fin da Nazaret ha diretto sempre verso scelte di servizio, d’amore, pertanto di vita. Anche quando scegliere non era né facile è logico, anche nelle situazioni più drammatiche, Maria ha scelto la vita.
Maria si è fidata della fantasia di Dio.
L’assunzione è il coronamento logico della vita di Maria e della fantasia di Dio: la donna, l’essere emarginato che non poteva neanche mettere piede dentro il santuario, Dio la vuole con sé. Il Signore l’innalza al suo stesso livello ed elimina la distanza che lo separava dall’umanità.
E noi oggi non dobbiamo stare a guardare con il naso per aria verso il cielo (At 1,11), ma far si che pure la nostra vita sia una festa della fantasia di Dio. Esperimentare che non esiste fallimento, non esiste peccato, non esiste angoscia che il Padre nella potenza del suo amore non possa trasformare in vita. Non esiste colpa che non possa diventare una “felice colpa” come canta la liturgia del sabato santo.
Anche per noi la vita eterna non sarà un premio da ricevere per la buona condotta tenuta nell’esistenza terrena, ma l’accoglienza di un dono d’amore di quel Padre che vuole che neanche uno dei suoi figli si perda (Gv 6,39).
L’assunzione è la festa e la condizione di quanti hanno saputo essere fedeli all’amore portando così a compimento il progetto di Dio sull’uomo.

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lunedì 12 agosto 2019

MAGELLANO: UNA STRAORDINARIA AVVENTURA ALLA SCOPERTA DEL MONDO


500 anni fa, il primo giro del mondo  in 2  anni,  11 mesi, 17 giorni

Con 237 uomini e 5 vascelli, Magellano parte dalla Spagna per il primo grande evento globale: il giro del mondo


di Emanuela Campanile


Dal 2018 e fino al 2022, la Spagna con una serie di iniziative rende omaggio al V centenario della spedizione di Fernando Magellano e Juan Sebastián Elcano. La straordinaria avventura che ebbe inizio a Siviglia - direzione isole Molucche, Indonesia - nel 1519, si concluse tre anni dopo con il giro del mondo.
A servizio della Corona spagnola, il nobile e raffinato portoghese Magellano con l'esploratore spagnolo di origine Basche, Juan Sebastián Elcano, si imbarca il 10 agosto, giorno di San Lorenzo, "dal molo di Siviglia", come scrive il vicentino Antonio Pigafetta, cronista di questo primo evento globale della storia:
“ Avendo inteso che allora se era preparata una armata in la città di Siviglia, che era de cinque nave, per andare a scoprire la spezieria nelle isole di Maluco, de la quale era capitanio generale Fernando de Magaglianes, gentiluomo portoghese, ed era commendatore di Santo Jacobo de la Spada, [che] più volte con molte sue laudi aveva peregrato in diverse guise lo Mar Oceano, mi partii... ”
"Essendo la armata fornita di tutte le cose necessarie per mare e d'ogni sorte de gente", prosegue nel suo racconto l'attendente di Magellano, i 237 uomini e i 5 velieri messi a disposizione da Carlo V, salpano alla ricerca di nuove rotte per rendere più facile il trasporto delle spezie dal Nuovo Mondo. Per Magellano, in realtà, la vera sfida è scoprire l’esistenza di un passaggio tra Oceano Atlantico e Oceano Pacifico, raggiungere dunque l’Oriente navigando verso Occidente. Trinidad, San Antonio, Concepción, Victoria e la più piccola Santiago "detteno", dunque, "il trinchetto al vento".
Per quanto il giovane Magellano conosca alla perfezione tutte le mappe - a quell'epoca a disposizione - e predisponga ogni cosa nei più piccoli dettagli, gli è impossibile evitare le incertezze e gli imprevisti di questa straordinaria e terribile impresa.
Sbagli di rotta, ammutinamenti, malattie, fame, scontri con gli indigeni delle terre di approdo, riducono "l'armata" da 5 navi, ad una sola. Dei 237 salpati, se ne salvano solo 18. E tra loro non c'è "il capitanio". Magellano muore nell'Isola di Cebu - Filippine - durante una spedizione per sedare l'insurrezione della popolazione locale. Era il 27 aprile 1521.
“ Sabato, a sei de settembre 1522, intrassemo nella baia de San Lucar, se non disdotto uomini e la maggior parte infermi. Dal tempo che se partissemo de questa baia fin al giorno presente avevamo fatto quattordici mila e quattrocento e sessanta leghe e più, compiuto lo circolo del mondo, dal levante al ponente. Marti, noi tutti, in camicia e discalzi, andassemo con una torcia in mano, a visitare il luogo di Santa Maria de la Victoria e de Santa Maria de l'Antiqua. ”
Pur non portando a termine la sua missione, Magellano è il primo europeo a navigare nell'Oceano Pacifico e a trovarne il più importante passaggio naturale - della cui esistenza era convinto - con l'Oceano Atlantico. Pigafetta lo descrive "calmo", "saggio", "rispettoso" ma forse, bisognerebbe anche dire folle abbastanza da lasciarsi sedurre dal mare il cui "spettacolo - diceva una famosa scrittrice francese - fa sempre una profonda impressione", essendo "l’immagine di quell’infinito che attira senza posa il pensiero, e nel quale senza posa il pensiero va a perdersi.”