LA VIOLENZA
«BANALE»
E
LA NATURA UMANA
Come si perde
il "lume della ragione"
Lettura neuroscientifica delle «esplosioni» estive
di Pietro
Pietrini*
Il duplice omicidio del
giorno di Ferragosto a Ucria, nel Messinese, apparentemente a seguito di una
lite per un parcheggio, va ad aggiungersi al lungo elenco di fatti di cronaca
analoghi avvenuti negli ultimi anni. Nel solo 2016, stando a dati statistici
pubblicati dall’Osservatorio Asaps (Associazione sostenitori amici della
Polizia stradale), in Italia ci sono stati ben 183 episodi di aggressioni
stradali refertati, che hanno causato quattro morti e 238 feriti, 37 dei quali
gravi. Aggressioni che trovano origine in una precedenza non concessa, un
parcheggio conteso, un sorpasso non gradito. O ancora, c’è chi è stato ucciso
per il fastidio di uno schiamazzo in strada o per aver negato una sigaretta.
Liti che esplodono per ragioni che sembra già tanto poter definire 'futili'.
Quei futili motivi che per il Codice penale costituiscono un aggravante di un
fatto di reato. Fenomeno pressoché ubiquitario. Il che certo non consola, ma
piuttosto impone una riflessione sull’umana natura. Cosa accade nella mente
umana in questi frangenti? Come si arriva a perdere il lume della ragione?
A chi di noi non è mai
capitato di ritrovarsi a inveire con foga contro il furbetto che con una
manovra magari un po’ azzardata ci ha appena soffiato da sotto il naso il
parcheggio che avevamo adocchiato dopo lungo girovagare? Se ripensiamo alla
nostra risposta in quei frangenti, potremmo addirittura rimanere sorpresi dalla
veemenza della nostra reazione, da quello che in quegli attimi siamo riusciti a
dire, o meglio, non siamo riusciti a non dire, non importa se eravamo soli o con
altri in macchina, magari con i nostri figli. Nell’immediatezza dell’evento non
riusciamo a evitare una reazione viscerale, quasi incontrollabile: presi da un
impeto di rabbia che sale, proferiamo imprecazioni e maledizioni di ogni
genere. In poco tempo, tuttavia, anche solo pochi attimi più tardi, riprendiamo
il controllo e ci rimettiamo, magari sbuffando un po’, alla ricerca di un nuovo
posto. È una reazione fisiologica. È la ragione per cui, nelle situazioni di
conflitto, fin da piccoli ci insegnano a contare fino a dieci prima di
rispondere. Perché sappiamo che in quei pochi secondi è molto probabile che il
tono della nostra risposta diventi radicalmente diverso. L’alternativa è
rischiare di dire cose delle quali ci pentiamo poco dopo, magari anche solo
dopo aver appena finito di pronunciarle.
L’esperienza ci insegna
anche che la nostra risposta di fronte a eventi simili può essere assai diversa
da giorno a giorno. Basta poco: se siamo digiuni o abbiamo mangiato, se siamo
stanchi o riposati, tristi o felici. La nostra percezione del mondo che ci
circonda cambia e così la nostra modalità di interagire con esso. Le recenti
acquisizioni delle neuroscienze cognitive stanno rivelando il fine gioco di
squadra tra emozione e ragione nella modulazione del nostro comportamento.
Conosciamo sempre meglio i meccanismi cerebrali che sottendono questi rapporti
in condizioni normali e in presenza di patologie psichiatriche. Sappiamo oggi
che particolari combinazioni di fattori genetici, neurobiologici e cerebrali, unitamente
a fattori ambientali, possono favorire condizioni di maggiore rischio di
discontrollo degli impulsi, di comportamenti abnormi in risposta a provocazioni
anche modeste. Ma se in alcuni dei casi di cronaca come quelli ricordati in
apertura è talvolta possibile riscontrare una franca patologia mentale o una
storia di abuso di sostanze, in molti altri casi non vi è nulla di questo.
L’assassino è «la persona mite, lavoratore instancabile e mai protagonista di
episodi violenti» come nel caso del sessantenne che nel giugno del 2016 a
Giulianova uccise con una coltellata al cuore un compaesano con il quale poco
prima aveva un diverbio per un sorpasso. Mutuando Hannah Arendt, potremmo
definirla la «banalità del male», che trasforma il vicino della porta accanto
in un assassino. La sfida delle neuroscienze sociali, che studiano con
metodologie multidisciplinari il comportamento umano, è quella di riuscire a
comprendere quali meccanismi entrano in gioco nel generare quel 'sonno della
ragione' che, in pochi attimi, cambia per sempre la sorte sia della vittima sia
dell’aggressore.
*Psichiatra e neuroscienziato direttore
della Scuola Imt Alti Studi Lucca
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