I saggi di Luigina Mortari e degli autori giapponesi Kishimi e Koga aprono lo sguardo sulla necessità di alimentare l’interiorità
di LISA GINZBURG
«La condizione umana è
dedicarsi a qualcosa di essenziale che sempre manca: la cura di sé», scrive
Luigina Mortari (Aver cura di sé; Cortina, pagine 192, euro 17). Prendersi
cura di quel che “fa fiorire” la vita, medicare così «le ferite che accadono nel
tempo», perché è prestando cura a noi stessi che più omaggiamo il nostro stare
al mondo, gli diamo un senso. Infonde benessere la lettura del saggio di
Mortari: una ricognizione, la sua, che di per se stessa cura.
Sul filo di percorsi
filosofici diversi ma tutti incentrati sul tema della cura di sé, è libro
fruibile anche per chi di filosofia sia digiuno, e in virtù di questa capacità
divulgativa, benefico. Merito di Foucault avere riacceso interesse per il
prendersi cura, ma c’è il socratismo, alla base. Quei dialoghi di Platone (
Apologia di Socrate, Cratilo, Fedone, Alcibiade) nei quali Socrate offre una
definizione di cura di sé molto vicina non solo a quella di amor proprio, anche
di amore altruista. Maieutica e pedagogia socratica convergono: educare è
orientare l’altro conducendolo a miglior cura di se stesso. Per farsi del bene,
occorre liberarsi dell’inessenziale. Individuare quel che non è necessario
all’anima, avere il coraggio di lasciarlo andare. Sgombrare, fare spazio. In
caccia e in cerca di nozioni e stimoli vitali non mediocri: cose che animano e
fanno sentire vivi. Lì dove si avverte consistenza, spessore, vero stimolo, lì
e non altrove sostare con il pensiero. Perfar questo, conoscersi a fondo.
Prendere le misure della
propria persona e personalità. Scavalcando secoli e sterzando in direzione di
tutt’altre prospettive teoretiche, il socratismo si interseca con la
fenomenologia.
Quel che più alimenta la
vita dell’anima, e la cura e la guarisce, è «una conoscenza riflessiva della
nostra interiorità»: così Heidegger in Essere e tempo. Procedere interi,
centrati, «con un’anima completamente impiantata su se stessa», nelle parole di
Edith Stein.
Affinare la vita
interiore sino a renderla bussola, antenna per orientarsi, agire.
Evitare così ogni distruttività.
L’intuito si fa conoscenza, e forte delle verità comprese realizza quell’«uso
pragmatico dell’introspezione» predicato da Pierre Hadot nei suoi studi sugli
esercizi spirituali. Cura di sé come massima attenzione. Vigilanza
ininterrotta: pensare i pensieri, pensare il proprio sentire. Evitare il
maleficio delle illusioni,
quegli scompensi che
provoca «il lavoro sradicante dell’immaginazione».
Togliere, scartare il
dannoso. Prender tempo, per riconquistarlo. Cessata la stanchezza della
dispersione, tornare alle acque sorgive della propria intima, individuale
energia. Nella fretta, rallentare. Re-incontrare il silenzio.
Avere la forza di abitare
il vuoto. Sopportare mancanza di conferme del mondo, acquietare ogni ansia di
venire riconosciuti e legittimati dagli sguardi altrui. Nel frattempo, fare del
proprio uscire di scena una “politica del quotidiano”. Questo è cura. Quanto ai
rapporti umani, la buona qualità del tessuto delle nostre relazioni che Socrate
nell’Apologia raccomanda, forma anche quella di cura, talvolta operare un
taglio con le aspettative del mondo è la migliore medicina. In Giappone ha
venduto quattro milioni di copie un libro scritto a due mani da Ichiro Kishimi
e Fumitake Koga, filosofo divulgatore di pensiero psicoanalitico il primo,
autore di manuali di business il secondo. Si intitola Il coraggio di non
piacere (De Agostini, pagine 284, euro 16,90): costruito in forma di dialogo
tra un maestro e un giovane discepolo, propone una visione a-storica del
trauma, sposando le istanze del pensiero di Adolf Adler in opposizione alla
teoria della nevrosi di Freud, “eziologica” perché tutta vincolata al tempo.
Nell’universo giapponese dominato dal trauma di Hiroshima, non sorprende il
successo di un pensiero che nega le tracce mnestiche ancorandosi a un’idea di
cura di sé tutta imperniata sul momento presente.
Liberarsi dei ricordi e
non solo: anche del peso di nodi gordiani dati da relazioni complesse.
Farlo rispettando se
stessi, i propri limiti.
Delegare, saper dirsi:
«Ho fatto quanto dovevo, da qui in poi non è più compito mio». Per poter
camminare sulle proprie gambe, tale divisione di compiti è esiziale, il maestro
dice allo sconcertato discepolo. Fluidificare l’osmosi con il mondo esterno
lasciando ad esso spazio di agire, non solo reagire ai nostri gesti. Smettere
di ossessionarsi con le pretese che la realtà avanza su di noi, di cercare
approvazione. Semplicemente essere, quel che davvero si sente di volere. Questo
anche è autonomia. Libertà. Cura di se stessi.
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