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giovedì 27 giugno 2019

PRENDERSI CURA DI SE' PER FARE FIORIRE LA VITA

I saggi di Luigina Mortari e degli autori giapponesi Kishimi e Koga aprono lo sguardo sulla necessità di alimentare l’interiorità

 di LISA GINZBURG

«La condizione umana è dedicarsi a qualcosa di essenziale che sempre manca: la cura di sé», scrive Luigina Mortari (Aver cura di sé; Cortina, pagine 192, euro 17). Prendersi cura di quel che “fa fiorire” la vita, medicare così «le ferite che accadono nel tempo», perché è prestando cura a noi stessi che più omaggiamo il nostro stare al mondo, gli diamo un senso. Infonde benessere la lettura del saggio di Mortari: una ricognizione, la sua, che di per se stessa cura.
Sul filo di percorsi filosofici diversi ma tutti incentrati sul tema della cura di sé, è libro fruibile anche per chi di filosofia sia digiuno, e in virtù di questa capacità divulgativa, benefico. Merito di Foucault avere riacceso interesse per il prendersi cura, ma c’è il socratismo, alla base. Quei dialoghi di Platone ( Apologia di Socrate, Cratilo, Fedone, Alcibiade) nei quali Socrate offre una definizione di cura di sé molto vicina non solo a quella di amor proprio, anche di amore altruista. Maieutica e pedagogia socratica convergono: educare è orientare l’altro conducendolo a miglior cura di se stesso. Per farsi del bene, occorre liberarsi dell’inessenziale. Individuare quel che non è necessario all’anima, avere il coraggio di lasciarlo andare. Sgombrare, fare spazio. In caccia e in cerca di nozioni e stimoli vitali non mediocri: cose che animano e fanno sentire vivi. Lì dove si avverte consistenza, spessore, vero stimolo, lì e non altrove sostare con il pensiero. Perfar questo, conoscersi a fondo.
Prendere le misure della propria persona e personalità. Scavalcando secoli e sterzando in direzione di tutt’altre prospettive teoretiche, il socratismo si interseca con la fenomenologia.
Quel che più alimenta la vita dell’anima, e la cura e la guarisce, è «una conoscenza riflessiva della nostra interiorità»: così Heidegger in Essere e tempo. Procedere interi, centrati, «con un’anima completamente impiantata su se stessa», nelle parole di Edith Stein.
Affinare la vita interiore sino a renderla bussola, antenna per orientarsi, agire.
Evitare così ogni distruttività. L’intuito si fa conoscenza, e forte delle verità comprese realizza quell’«uso pragmatico dell’introspezione» predicato da Pierre Hadot nei suoi studi sugli esercizi spirituali. Cura di sé come massima attenzione. Vigilanza ininterrotta: pensare i pensieri, pensare il proprio sentire. Evitare il maleficio delle illusioni,
quegli scompensi che provoca «il lavoro sradicante dell’immaginazione».
Togliere, scartare il dannoso. Prender tempo, per riconquistarlo. Cessata la stanchezza della dispersione, tornare alle acque sorgive della propria intima, individuale energia. Nella fretta, rallentare. Re-incontrare il silenzio.
Avere la forza di abitare il vuoto. Sopportare mancanza di conferme del mondo, acquietare ogni ansia di venire riconosciuti e legittimati dagli sguardi altrui. Nel frattempo, fare del proprio uscire di scena una “politica del quotidiano”. Questo è cura. Quanto ai rapporti umani, la buona qualità del tessuto delle nostre relazioni che Socrate nell’Apologia raccomanda, forma anche quella di cura, talvolta operare un taglio con le aspettative del mondo è la migliore medicina. In Giappone ha venduto quattro milioni di copie un libro scritto a due mani da Ichiro Kishimi e Fumitake Koga, filosofo divulgatore di pensiero psicoanalitico il primo, autore di manuali di business il secondo. Si intitola Il coraggio di non piacere (De Agostini, pagine 284, euro 16,90): costruito in forma di dialogo tra un maestro e un giovane discepolo, propone una visione a-storica del trauma, sposando le istanze del pensiero di Adolf Adler in opposizione alla teoria della nevrosi di Freud, “eziologica” perché tutta vincolata al tempo. Nell’universo giapponese dominato dal trauma di Hiroshima, non sorprende il successo di un pensiero che nega le tracce mnestiche ancorandosi a un’idea di cura di sé tutta imperniata sul momento presente.
Liberarsi dei ricordi e non solo: anche del peso di nodi gordiani dati da relazioni complesse.
Farlo rispettando se stessi, i propri limiti.
Delegare, saper dirsi: «Ho fatto quanto dovevo, da qui in poi non è più compito mio». Per poter camminare sulle proprie gambe, tale divisione di compiti è esiziale, il maestro dice allo sconcertato discepolo. Fluidificare l’osmosi con il mondo esterno lasciando ad esso spazio di agire, non solo reagire ai nostri gesti. Smettere di ossessionarsi con le pretese che la realtà avanza su di noi, di cercare approvazione. Semplicemente essere, quel che davvero si sente di volere. Questo anche è autonomia. Libertà. Cura di se stessi.





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