Alle mie pecore io do la vita eterna.
Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 10, 27-30
Gv 10, 27-30
In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
Pecore e lupi
Come pecore al macello, centinaia di fratelli nella fede,
intenti a celebrare il Risorto, sono stati massacrati da uomini accecati dall’odio
che invocano un dio orribile assetato di sangue.
Sì, davanti alla follia omicida dei terroristi che
stravolgono il Corano e non rispettano l’opinione della più alta carica del
mondo islamico, siamo come pecore condotte al macello.
Non siamo soli, però.
Un altro condotto al macello, che abbiamo celebrato
solennemente durante la Settimana Santa, ora si erge vittorioso.
Come ogni anno la Chiesa dedica la sua quarta domenica del
tempo pasquale per riflettere sul ruolo dei pastori. Per pregare per le vocazioni,
per il dono di avere uomini e donne capaci di donare la loro vita ai fratelli.
Un pastore guerriero
Tutti abbiamo in mente la splendida immagine del pastore che
lascia le novantanove pecore nell’ovile per andare a cercare la pecora che si è
persa e, dopo averla trovata, se la carica sulle spalle e la conduce con le
altre (Lc 15,4-8).
Bene, ora resettate quella immagine.
Perché il pastore di Giovanni è fatto di un’altra pasta.
Non è il buon pastore, è il pastore autentico.
È un vero e proprio combattente che difende le pecore
dall’assalto dei lupi e dall’ignavia dei mercenari. Molto simile all’eroico
adolescente Davide che non aveva paura di cacciare con la sua fionda il leone e
l’orso che assalivano il gregge (1Sam 17,34-35).
Una sottolineatura che completa quella di Luca. Gesù è il
misericordioso, il compassionevole, rivela il volto tenerissimo di Dio, certo.
Ma è anche determinato, disposto a morire per le proprie pecore, come abbiamo
avuto modo di celebrare nei giorni della Pasqua di resurrezione.
La fede è per i forti, non per i deboli. È colma di
tenerezza, ma anche di pacifica convinzione e determinazione.
Così si presenta il Signore: come un alleato, l’uomo forte
che ci difende dalla disperazione.
E annuncia solennemente come far parte del suo gregge.
Ascoltare la voce
Per far parte del suo gregge occorre anzitutto ascoltare la
sua voce con costanza, conoscere e farsi conoscere dal Signore, seguirlo.
In questo tempo pasquale la liturgia pone al centro della
nostra riflessione ancora l’accoglienza della Parola, quella Parola capace di
scuotere i cuori dei rattristati discepoli di Emmaus, quella Parola che,
accolta con l’intelligenza dello Spirito, aiuta a leggere gli eventi della
Storia nella logica di Dio.
Parola che va accolta, conosciuta, pregata, vissuta.
Perché quella Parola ci permette di leggere la nostra vita e
gli eventi anche conflittuali e incomprensibili che stiamo vivendo, la
violenza, il dominio del liberismo disumano, l’indifferenza, nella logica di
Dio. Ma questa lettura meditata va fatta con costanza, per imparare a
riconoscere la voce del Signore e va accolta con autenticità, col desiderio
profondo di adeguarsi a quanto dice.
La vita eterna
Ascoltare la voce del Signore, seguirne le indicazioni, ci fa
prendere coscienza della vita eterna che è in noi. La vita eterna, cioè la vita
dell’Eterno. Il gregge è composto da uomini e donne che hanno scoperto la
propria anima, che la custodiscono, che la coltivano.
In questi termini, Dio solo conosce da chi è composto il
gregge.
Anche persone che non sentono di appartenere ad una Chiesa, o
che vivono apparentemente lontano da essa, possono coltivare la propria
interiorità con passione e verità, e sentire, forte e tenace, la presa del
Signore.
Seguire Cristo significa, ad un certo punto, fare esperienza
della radicalità espressa dal Maestro, un’affermazione piena di impegno:
nessuno ci può rapire dalla sua mano.
Non gli altri con i loro giudizi. Non la violenza di tutti i
terroristi del mondo. Non la delusione delle nostre vite. Nemmeno i nostri
sbagli e i nostri peccati.
L’amore di Dio è più forte di ogni cosa. Nulla ci separerà da
lui (Rm 8).
Per conoscere il Padre
Seguiamo Cristo, il pastore autentico, forte, ci fidiamo di
Lui, ci facciamo condurre.
Da lui, non da altri. Da lui, non da altro.
Non dai nostri appetiti, non dalle mode, non dalle paure, non
dai sensi di colpa, non dalla visione sbagliata di noi stessi, non dai limiti,
non dalle ombre.
Da lui. E farlo ci conduce alla conoscenza piena di Dio.
Perché solo Cristo conosce Dio in pienezza.
Pecore come noi
Qualche tempo fa gli amici aquilano mi hanno portato a vedere
la splendida chiesa di Bominaco. A lato del pulpito, il lato che guarda il
celebrante, un anonimo scultore ha rappresentato una pecora aggredita da un
lupo. E un cane che azzanna il lupo.
Come a dire ai pastori: fate il vostro lavoro. Oggi,
purtroppo, abbiamo visto cani azzannare le pecore, non i lupi.
Allora bisogna essere molto molto chiari: l’unico pastore,
nella Chiesa, è Cristo.
E tutte le pecore lo seguono, anche coloro che hanno nella
Chiesa dei ministeri, cioè un servizio per l’utilità comune.
E al vostro prete non chiedete di essere un super-uomo, un
iper-coerente, ma un discepolo, anzitutto. Perché anch’egli possa dire: “Fatevi
miei imitatori come io lo sono di Cristo” (1Cor 11,1).
Di questo abbiamo bisogno, ora più che mai: di preti che
siano prima seguaci di Cristo.
Cristiani con noi. Preti per noi.
Paolo Curtaz
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