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venerdì 31 maggio 2019

PADRE NOSTRO ........

 Papa Francesco: " .....Ogni volta che diciamo “Padre nostro” ribadiamo che la parola Padre non può stare senza dire nostro. Uniti nella preghiera di Gesù, ci uniamo anche nella sua esperienza di amore e di intercessione che ci porta a dire: Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro (cfr Gv 20,17). È l’invito a che il “mio” si trasformi in nostro e il nostro si faccia preghiera. Aiutaci, Padre, a prendere sul serio la vita del fratello, a fare nostra la sua storia. Aiutaci, Padre, a non giudicare il fratello per le sue azioni e i suoi limiti, ma ad accoglierlo prima di tutto come figlio tuo. Aiutaci a vincere la tentazione di sentirci figli maggiori, che a forza di stare al centro dimenticano il dono dell’altro (cfr Lc 15,25-32).
A Te, che sei nei cieli, i cieli che abbracciano tutti e dove fai sorgere il sole sui buoni e sui cattivi, sui giusti e sugli ingiusti (cfr Mt5,45), a Te domandiamo quella concordia che in terra non abbiamo saputo custodire. La chiediamo per l’intercessione di tanti fratelli e sorelle nella fede che insieme abitano il tuo Cielo dopo aver creduto, amato e molto sofferto, anche ai nostri giorni, per il solo fatto di essere cristiani.
Come loro anche noi vogliamo santificare il tuo nome mettendolo al centro di tutti i nostri interessi. Che sia il tuo nome, Signore, e non il nostro a muoverci e risvegliarci nell’esercizio della carità. Quante volte, pregando, ci limitiamo a chiedere doni ed elencare richieste, dimenticando che la prima cosa è lodare il tuo nome, adorare la tua persona, per poi riconoscere nella persona del fratello che ci hai posto accanto il tuo riflesso vivente. In mezzo a tante cose che passano e per le quali ci affanniamo, aiutaci, Padre, a ricercare quello che resta: la presenza tua e del fratello.
Siamo nell’attesa che venga il tuo regno: lo domandiamo e desideriamo perché vediamo che le dinamiche del mondo non lo assecondano. Dinamiche orientate dalle logiche del denaro, degli interessi, del potere. Mentre ci troviamo immersi in un consumismo sempre più sfrenato, che ammalia con bagliori luccicanti ma evanescenti, aiutaci, Padre, a credere in quello che preghiamo: a rinunciare alle comode sicurezze del potere, alle ingannevoli seduzioni della mondanità, alla vuota presunzione di crederci autosufficienti, all’ipocrisia di curare le apparenze. Così non perderemo di vista quel Regno al quale tu ci chiami.
Sia fatta la tua volontà, non la nostra. «È volontà di Dio la salvezza di tutti» (S. Giovanni Cassiano, Conferenze spirituali, IX, 20). Abbiamo bisogno, Padre, di allargare gli orizzonti, per non restringere nei nostri limiti la tua misericordiosa volontà salvifica, che tutti vuole abbracciare. Aiutaci, Padre, mandando a noi, come a Pentecoste, lo Spirito Santo, autore del coraggio e della gioia, perché ci spinga ad annunciare la lieta notizia del Vangelo oltre i confini delle nostre appartenenze, delle lingue, delle culture, delle nazioni.
Ogni giorno abbiamo bisogno di Lui, nostro pane quotidiano. Egli è il pane della vita (cfr Gv 6,35.48), che ci fa sentire figli amati e sfama ogni nostra solitudine e orfanezza. Egli è il pane del servizio: spezzatosi per farsi servo nostro, chiede a noi di servirci a vicenda (cfr Gv 13,14). Padre, mentre ci doni il pane quotidiano, alimenta in noi la nostalgia del fratello, il bisogno di servirlo. Chiedendo il pane quotidiano, Ti domandiamo anche il pane della memoria, la grazia di rinsaldare le radici comuni della nostra identità cristiana, radici indispensabili in un tempo in cui l’umanità, e le giovani generazioni in particolare, rischiano di sentirsi sradicate in mezzo a tante situazioni liquide, incapaci di fondare l’esistenza. Il pane che chiediamo, con la sua lunga storia che va dalla semina alla spiga, dal raccolto alla tavola, ispiri in noi il desiderio di essere pazienti coltivatori di comunione, che non si stancano di far germogliare semi di unità, di far lievitare il bene, di operare sempre accanto al fratello: senza sospetti e senza distanze, senza forzature e senza omologazioni, nella convivialità delle diversità riconciliate.
Il pane che domandiamo oggi è anche il pane di cui tanti ogni giorno sono privi, mentre pochi hanno il superfluo. Il Padre Nostro non è preghiera che acquieta, è grido di fronte alle carestie di amore del nostro tempo, di fronte all’individualismo e all’indifferenza che profanano il nome tuo, Padre. Aiutaci ad avere fame di donarci. Ricordaci, ogni volta che preghiamo, che per vivere non abbiamo bisogno di conservarci, ma di spezzarci; di condividere, non di accumulare; di sfamare gli altri più che riempire noi stessi, perché il benessere è tale solo se è di tutti.
Ogni volta che preghiamo chiediamo che i nostri debiti siano rimessi. Ci vuole coraggio, perché al tempo stesso ci impegniamo a rimettere i debiti che gli altri hanno con noi. Pertanto, dobbiamo trovare la forza di perdonare di cuore il fratello (cfr Mt 18,35) come Tu, Padre, perdoni i nostri peccati: di lasciarci alle spalle il passato e di abbracciare insieme il presente. Aiutaci, Padre, a non cedere alla paura, a non vedere nell’apertura un pericolo; ad avere la forza di perdonarci e di camminare, il coraggio di non accontentarci del quieto vivere e di ricercare sempre, con trasparenza e sincerità, il volto del fratello.
E quando il male, accovacciato alla porta del cuore (cfr Gen 4,7), ci indurrà a chiuderci in noi stessi; quando la tentazione di isolarci si farà più forte, nascondendo la sostanza del peccato, che è distanza da Te e dal nostro prossimo, aiutaci ancora, Padre. Incoraggiaci a trovare nel fratello quel sostegno che Tu ci hai posto a fianco per camminare verso di Te, e ad avere insieme il coraggio di dire: “Padre nostro”. Amen.

Bucarest, 31 maggio

Leggi. PADRE NOSTRO



A SCUOLA: ANZITUTTO COLLABORARE, NON COMPETERE

La scuola dovrebbe essere un luogo di collaborazione e cooperazione e non un sistema competitivo. La maggior parte dei nostri insegnanti è consapevole dell’importanza della collaborazione (pur operando in condizioni materiali molto difficili), ma ci sono ancora una serie di “cattive abitudini”, talvolta involontarie, che finiscono per mettere al centro forme di competizione non opportune. In particolare, abbiamo individuato due tendenze che potremmo facilmente correggere per trasformare la didattica della competizione (presunta) in didattica della collaborazione (reale).
Il primo punto di attenzione sono le prove standardizzate (test Invalsi per cominciare): svolgere un test non significa instillare la competizione nei cuori e nelle menti dei ragazzi, ma unicamente rilevare dati uniformi sul territorio nazionale; questa è un’esigenza legata alla pianificazione di politiche ed interventi educativi, non ha nulla a che vedere con la competizione tra studenti. Eppure, la percezione comune è quella di una sorta di gara tra scuole e tra alunni. Se riuscissimo a cambiare questo stereotipo, avremmo già fatto un grande passo avanti verso una didattica maggiormente collaborativa.
Il secondo punto di attenzione è costituito dai messaggi che i ragazzi ricevono a casa, dai genitori. La famiglia, in modo indiretto, ha un ruolo importante nella costruzione di un ambiente scolastico: spesso sono proprio i genitori a istituire un sistema di confronti e classifiche. Invece di compilare l’elenco dei voti di tutta la classe, meglio focalizzare l’attenzione sulle attività di gruppo svolte dai ragazzi.

da: Portale bambini.


IL BELLO E IL BUONO


La civiltà del “senza” 
che occorre riempire

di Alberto Caprotti

Molti di noi, i meno giovani almeno, sono nati in anni in cui la benzina era con il piombo, le ricerche con l’enciclopedia, i dolci con l’olio di palma, il dentifricio con il fluoro e il talco con il boro, il telefono con i gettoni, le gomme con la camera d’aria, le caramelle con lo zucchero, la birra con l’alcol, il film con la cassetta, la febbre con il termometro a mercurio, le foto con la Kodak, il pesto con l’aglio, la tuta dei pompieri con l’amianto, la vacanza con i genitori, il ghiacciolo con il colorante, la bici con i pedali, il cinema con il fumo di sigaretta, la musica con il cd e la cioccolata rigorosamente con la panna.
Preistoria? Sembra, ma non lo è. Parliamo di epoche più recenti del classico “si stava meglio quando si stava peggio”, concetto abusato e nella maggior parte dei casi completamente falso e manifesto di ingratitudine verso il progresso. Ma è vero che pochi anni sono bastati affinché tanto sia diverso da prima. La ragione è che prima le alternative non c’erano, molte cose non si sapevano, e quelle che facevano male si sottovalutavano con un sorriso. O magari non facevano male affatto. Il tempo le ha rese nocive, e la convinzione che lo fossero ha consolidato il concetto. Il salutismo in particolare ci ha cambiato, forse perché nulla di ciò che è buono può essere anche sano: i cibi “migliori” sono sempre quelli senza grassi, il pane senza sale, il latte senza lattosio, la pasta senza glutine, il caffè senza caffeina. È la civiltà del “senza” quella a cui ci stiamo abituando, traguardo scelto ma anche in parte imposto dalle mode, oltre che da allergie sempre più frequenti e ritmi di vita che non perdonano sgarri.
Il fatto è che sono cambiati i presupposti, oltre che gli orizzonti. Veniamo da una generazione per la quale l’obiettivo era mangiare di più, possedere cose migliori, godere di più, sottovalutare lo spreco, cogliere l’attimo. E guardare indietro per non stare peggio, anziché guardare avanti per stare meglio. Così la vita media forse si è allungata, ma il consumo è degenerato in consumismo. Ora per fortuna abbiamo capito che occorre reimpostare il nostro rapporto con la terra, con l’aria e con l’acqua. In una parola, con ciò che i credenti chiamano “creato”, e tutti gli altri “natura”. Molti non si adeguano, per diffusa ignoranza mista ad assenza di educazione: malattia incurabile, purtroppo. Ma c’è nella maggioranza una nuova consapevolezza verso un mondo che dobbiamo conservare per allontanarne il più possibile la fine, attraverso un diverso rapporto con noi stessi e con ciò che ci circonda. La parola chiave è una sola: rispetto. Che è un valore straordinario e inevitabile. Rispetto per le cose, rispetto per le idee giuste, per i comportamenti che ci consentono di “durare”, unico sistema per cambiare il paradigma che per anni ci ha guidato e che era “sfruttare”.
Togliere, limare, diminuire. Non solo a tavola, purtroppo: sono questi i verbi del presente.
Che fanno bene, perché probabilmente aiutano a vivere meglio. Ma che presuppongono di rimettere qualcosa “dentro” per compensare il vuoto cosmico che lasciano e che ci circonda. Senza grassi, certo, ma la nostra è anche la civiltà senza sentimenti, senza tempo, senza cortesia, senza confidenza, senza vita. Eliminiamo, razionalizziamo, “ottimizziamo” come dicono quelli che sanno fare i bilanci. E il conto finale è più magro, in tutti i sensi. Mancano i contenuti, ma anche semplicemente i “con” e tutti i sentimenti limitrofi. I confini allargati, i congiuntivi giusti, i consigli utili, le conseguenze positive, i contatti costruttivi, i concetti intelligenti.


da www.avvenire.it


mercoledì 29 maggio 2019

IN UN MONDO SENZA IL SACRO SIAMO DIVENTATI SOLO TURISTI


TURISTI ... PER CASO

Il terrorismo, l'Europa, la Silicon Valley, il ruolo della cultura....
 E il  libro, "L'innominabile attuale". Parla lo scrittore-editore
di Dario Olivero

Dal maggio del '45 a oggi si è entrati in una zona che non ha nome, per questo è "L'innominabile attuale". Roberto Calasso siede nel suo ufficio all'Adelphi, nel centro di Milano. Sulla scrivania l'ennesimo caffè, davanti gli scaffali con quel che resta della biblioteca di Bobi Bazlen, il codice genetico da cui è fiorita la casa editrice da sempre più inattuale e più attuale d'Italia. Attuale è parola che ricorre spesso. A partire dal titolo del nuovo libro L'innominabile attuale appunto, seguito ideale del profetico La rovina di Kasch del 1983. In questo tempo senza nome vive l'ultima evoluzione dell'Homo sapiens, quello che Calasso definisce Homo saecularis: noi. " Homo saecularis - dice - è un risultato molto sofisticato della storia. Per arrivare a lui bisogna essersi scrollati di dosso una quantità di pesi. E questa mancanza di gravami di vario genere - religioso, politico, tradizionale - non ha prodotto soddisfazione o felicità, ma una specie di panico. La vittoria della secolarità, che ormai pervade tutto il mondo, è paradossale. Homo saecularis si è trovato di fronte un mondo che non è in grado di trattare. Ha vinto ma gli manca qualcosa di essenziale, domina ma si rivolta contro se stesso. Tutti i nomi che usa sono inadeguati e richiederebbero quella "rettifica" che secondo Confucio era il primo compito del pensiero. Di qui il titolo del libro, che si è imposto dopo 34 anni di latenza". Il libro è diviso in due parti. La seconda è una polifonia di voci (Virginia Woolf, Simone Weil, Walter Benjamin, Céline), che descrivono momenti di ciò che avveniva dal '33 al '45, dalla presa del potere di Hitler sino alla fine della Seconda guerra mondiale. La prima parte invece è tutta sul presente. "Le due parti - spiega Calasso - sono l'una il contrappeso dell'altra. La prima vagherebbe un po' nell'aria, parlando di questo mondo senza appigli fermi, se non si presupponesse l'altra, che è un ultimo, tremendo scontro, come fra rocce che cozzano tentando di distruggersi e autodistruggendosi. Chi non conosce quel presupposto non vede il basamento di quanto sta succedendo oggi".
Una categoria che utilizza è quella del turista. Perché?
"Il mondo di Homo saecularis non ha una categoria che lo rappresenti. Non si può dire che tali siano l'impiegato, l'operaio, il manager, il politico. Turista, invece, è l'unica categoria che copre tutto. Il turista di cui parlo non è solo quello che viaggia, ma il modello antropologico della realtà virtuale. I tecnici della realtà virtuale parlano di una "realtà aumentata", che però si fonda su una realtà diminuita, a cui è stato sottratto un carattere imprescindibile: l'irreversibilità. Su questa via si incontrano sia il bigotto dell'iperconnessione sia l'energumeno che vuole mettere a posto il mondo".
L'Homo saecularis si rivolta anche contro la democrazia.
"La democrazia formale è l'unico modello che rende vivibile il mondo, anche se, per pure ragioni demografiche, è pressoché impraticabile. Comunque, se non ci fosse, per esempio in India vi sarebbe il massacro continuo. È l'ultimo sbarramento per rendere la vita tollerabile, al di fuori ci sono solo tortura e regimi di polizia. Ma ogni democrazia deve difendersi da enormi forze contrarie".
Uno dei capisaldi democratici in discussione è l'idea che la rappresentanza sia superata dalla partecipazione diretta.
"La mediazione è decisiva. Non rispettarla è una forma di pensiero ignaro, perché la mediazione è ciò che ci costituisce, anche se viene continuamente svillaneggiata come fosse ciò che falsifica tutto. Ma la nostra percezione è già una mediazione, in senso fisiologico. Per vedere qualcosa operiamo un filtraggio. Se non lo si ha presente, si finisce per pensare che la mediazione sia l'agente che ti imbroglia, il giornalista ingannatore, il politico o, come è accaduto, il maligno ebreo. È triste. Questa avversione indica che è diventato più grezzo il tessuto del pensare. Nel disintermediarsi del mondo, chi non ha il dono della refrattarietà si lascia facilmente ingannare. E prende la sua voce per vox populi. Homo saecularis si è sbarazzato delle religioni, ma è tremendamente credulo".
Una delle cause è la rivoluzione digitale.
"È un immenso rivolgimento. Di cui stiamo vedendo solo l'inizio. Nella Silicon Valley, che è il suo epicentro, si assiste a un fenomeno che non ha precedenti. Ci sono alcuni imprenditori, che possono anche essere considerati come intellettuali audaci o imbonitori farneticanti, a seconda delle prospettive, e questi imprenditori avviano investimenti che modificano il mondo giorno per giorno. Sotto il nome di intelligenza artificiale si raccoglie oggi non più, come negli anni Settanta, una sorta di dottrina esoterica, ma una potenza economica dirompente. Laggiù non si parla e non si scrive d'altro che del momento, in parte desiderato in parte temuto, e per molti piuttosto vicino, in cui le macchine saranno più intelligenti di noi. A rimanere esclusa è la parola più importante: coscienza. Su che cosa sia e come funzioni nessun neuroscienziato è riuscito a dire qualcosa che vada oltre un goffo balbettio. Sarebbe d'aiuto per tutti leggere le Upanishad".
Che cosa pensa dell'attuale stato dell'Europa?
"Spero che l'Europa continui a esserci come misura di autodifesa minima, ma ne vedo l'impotenza totale. La politica europea è solo reattiva, non attiva. Un tentativo di reagire a fatti soverchianti. Alti funzionari tentano di tenerli sotto controllo, ma quando si comincia a usare l'espressione "tenere sotto controllo" vuol dire che tutto è già fuori controllo".
Le categorie che lei utilizza per nominare i nostri tempi sono decisamente inattuali. Per esempio l'idea di sacrificio. Come può un concetto così arcaico essere utile per descrivere l'attualità?
"Il sacrificio è la cosa più difficile da pensare che abbia mai incontrato. Non è certo una mia invenzione, lo si ritrova ovunque nella storia. Per un lunghissimo periodo le civiltà più distanti sono accomunate dal fatto che in forme diverse tutte praticano il sacrificio, dalla Cina all'India alla Grecia alla Palestina. Poi c'è una svolta: con Gesù il sacrificio vuole finire per sempre e diventa, nella messa, memoria del sacrificio. Ma al tempo stesso la morte di Gesù è un ritorno alle origini del sacrificio, dove è il dio a sacrificarsi. Infine c'è l'oggi, in cui la pratica rituale è espunta, non ha diritto di cittadinanza. Ma l'assassinio-suicidio dei terroristi islamici, minaccia che continua a paralizzare il mondo, è una evidente forma sacrificale, dove la vittima è l'attentatore e tutti coloro che da lui vengono uccisi sono il frutto del sacrificio. Il sacrificio non scompare perché la società secolare ha deciso di non usarlo più come atto rituale. Torna in altre forme. Il terrorismo - e soprattutto la guerra, a partire dalla Prima guerra mondiale. Se legge Gli ultimi giorni dell'umanità di Kraus, si parla più di sacrifici che di battaglie. Poi nella Seconda guerra mondiale il sacrificio diventa opera di disinfestazione, con i campi di sterminio. Che, per un orripilante equivoco, si continua a chiamare con la stessa parola che designa il sacrificio di ringraziamento celebrato da Noè dopo il diluvio: olocausto".
Dov'è oggi il sacrificio?
"Non è più una categoria religiosa. Se il religioso implica un contatto con l'invisibile, nel caso del terrorismo islamico questo non sussiste. Il frutto del sacrificio non è più nell'invisibile, ma nella moltiplicazione degli uccisi nel mondo visibile. Ma il sacrificio continua a esserci, la società non riesce a vivere senza".
Ma la ragione ultima del terrorismo islamico è generalmente considerata religiosa.
"Definizione che mi sembra impropria. All'origine, c'è piuttosto il bisogno di una vendetta globale, un rigetto del mondo occidentale. Un certo numero di persone, in una fascia di paesi che va dal Marocco all'Indonesia e comprende più di un miliardo e mezzo di abitanti, si sente sopraffatta, esautorata. Nel modo di vita, di essere. Così nel libro parlo anche di pornografia, non meno importante della conquista economica. Il fatto che da un momento all'altro, in paesi dai rapporti molto tortuosi con l'eros, la visione di un numero sterminato di corpi femminili nudi che compiono atti sessuali diventasse accessibile gratuitamente in rete nel giro di pochi secondi è stato uno shock enorme, che irrideva il desiderio nel momento in cui lo suscitava".
Lei ha scritto che quando la cultura viene accostata all'utile, la vera cultura muore.
"La parola "utile" è il disastro su cui si fonda tutta l'economia e risale a Bentham, suo progenitore, spesso ignorato. Il calcolo costi- benefici in un certo ordine di cose è totalmente sviante. Nell'ordine del piacere, come di tutte le cose fondamentali della vita, non si può applicare".
Ma nel suo libro lei parla dei refrattari a questo stato di cose, quelli che non si ritrovano nella figura dell'Homo saecularis. Sono sperduti, soli, neanche l'università, lei scrive, è un luogo dove trovare ascolto.
"Mi sembra che l'università come istituzione stia perdendo ogni linfa vitale, non solo in Italia, ma ovunque. So che vi operano tuttora persone di grande qualità, ma soffrendo".
Cito da una sua intervista: "Negli anni Cinquanta in Italia vi erano tre aggregazioni: quella marxista, quella laico-liberale e quella cattolica. I marxisti, se erano intelligenti, leggevano i libri Einaudi, o comunque "Il contemporaneo". I laici-liberali leggevano "Il Mondo" e i cattolici, tendenzialmente, leggevano assai poco. I democristiani erano appagati dalla pura gestione del potere e avevano capito che la cosa più accorta era quella di lasciare la cultura alla sinistra".
"Penso ancora che la descrizione sia esatta. Ma riconosco che in quegli anni erano vive e attive persone ben più significative rispetto a oggi. Tuttavia provavo una certa insofferenza per quel mondo tripartito. A cui Adelphi si è opposta fin dall'inizio, tenendosene fuori".
I libri Adelphi hanno accompagnato in modo trasversale gli italiani, compresa la classe dirigente del paese. Secondo lei quanto hanno inciso culturalmente?
"Faccio fatica a riconoscere una classe dirigente nell'Italia di oggi e certamente non la collego con ciò che pubblichiamo. Mi interessa solo l'efficacia sui singoli. Le persone che leggono i nostri libri sono le più varie. Talvolta si incontrano e si riconoscono tra loro. Ma non ho mai contato su un effetto sociale o politico. L'editore come pedagogo è una concezione per me del tutto estranea".
Non si sente solo?
"Non tanto, perché considero un prodigio ricorrente che i libri ancora si vendano. Sono tentato di pensare che un certo numero di persone congeniali a quello che pubblichiamo ci sia ancora. E non sono poche - anche se non così percepibili. Ignoti lettori nell'innominabile attuale".

Intervista pubblicata da Repubblica.

martedì 28 maggio 2019

GIORNATA MONDIALE DEL GIOCO

Includere bambini e ragazzi con disabilità

L’Autorità garante in Italia per l’infanzia e l’adolescenza lancia l’iniziativa “Giocare tutti, nessuno escluso” e promuove laboratori inclusivi per bambini e ragazzi con disabilità
di Chiara Capuani – Città del Vaticano
Il gioco è un diritto di bambini e ragazzi previsto dalla Convenzione di New York sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Un diritto, però, se non è di tutti, non è un diritto. Per tale ragione occorre ampliare le iniziative di sensibilizzazione e far crescere una cultura del gioco spontaneo in modo che tutti i bambini possano giocare insieme. È questo l’intento dell’Agia, l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza.  Gli eventi di “Giocare tutti, nessuno escluso” sono in programma a: Ravenna, Marina di Ravenna, Udine, Napoli, Gaeta (Latina), Milano, Cremona, Acireale (Catania), Como, Genova Sestri Ponente, Brindisi, Ostuni (Brindisi), Afragola (Napoli), Condofuri (Reggio Calabria), Piossasco (Torino), Catania, Trieste, Lecco e Crema (Cremona). “Il gioco è un diritto dei bambini e dei ragazzi. L’articolo 31 della Carta di New York lo ribadisce e il senso di questa giornata è renderlo effettivo”. Così afferma ai microfoni di Radio Vaticana Italia, Filomena Albano, titolare della Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza.
Ascolta l’intervista a Filomena Albano

Come rendere il diritto al gioco effettivo

“La sensibilizzazione è il primo passo per raggiungere l’obiettivo. Gli adulti hanno un ruolo chiave nel promuovere attività inclusive che garantiscano a tutti i minori, anche quelli con disabilità, le stesse opportunità. In Italia – prosegue Filomena Albano – ci sono solo 134 parchi attrezzati per minori con disabilità, la maggior parte concentrati al nord e comunque focalizzati solo su un tipo di disabilita, quella fisica, e non su quella sensoriale. Mancano, inoltre, dati e notizie su come questi ragazzi vivano le possibilità di integrazione con i loro coetanei”.

Criticità nel processo d’inclusione

Per avere un quadro chiaro sulle criticità sperimentate dai minori, bisognerebbe avere più elementi d’informazione. Solo se si ha fotografia di un fenomeno si possono apportare delle modifiche efficaci. Bisognerebbe creare una banca dati sulla disabilita che in Italia in questo momento non c’è. In seconda istanza c’è bisogno di maggiori investimenti, sia per creare delle strutture inclusive, sia per cambiare approccio sul piano culturale. Ci sono buone prassi, come il baskin, che consente di far praticare lo sport insieme a ragazzi a sviluppo tipico e a ragazzi con disabilità. Tuttavia non devono essere attività isolate ma occorre generalizzarle in investimenti di carattere generale.  Infine – conclude Albano – bisogna sostenere le famiglie, che molto spesso avvertono il peso della solitudine. Occorre uno spirito di comunità che includa e non divida. In questo, l’Attività garante, ha il compito di accendere dei fari su situazioni e su bambini che spesso sono invisibili”.

Vatican News

domenica 26 maggio 2019

PREGHIERA PER L'EUROPA

Padre dell’umanità, Signore della storia, 
guarda questo continente europeo
 al quale tu hai inviato tanti filosofi, legislatori e saggi, 
precursori della fede nel tuo Figlio morto e risorto.
Guarda questi popoli evangelizzati da Pietro e Paolo,
 dai profeti, dai monaci, dai santi; 
guarda queste regioni bagnate dal sangue dei martiri
 e toccate dalla voce dei Riformatori. 
Guarda i popoli uniti da tanti legami 
ma anche divisi, nel tempo, dall’odio e dalla guerra. 
Donaci di lavorare per una Europa dello Spirito 
fondata non soltanto sugli accordi economici, 
ma anche sui valori umani ed eterni. 
Una Europa capace di riconciliazioni etniche ed ecumeniche, pronta ad accogliere lo straniero, rispettosa di ogni dignità. 
Donaci di assumere con fiducia 
il nostro dovere di suscitare e promuovere un’intesa tra i popoli 
che assicuri per tutti i continenti, 
la giustizia e il pane, la libertà e la pace. 
Amen

Card. Carlo Maria Martini


sabato 25 maggio 2019

LO SPIRITO SANTO VI CONSOLERÀ'

26 maggio 2019 
VI domenica di Pasqua 
Commento al Vangelo 
di ENZO BIANCHI 


Gv 14,23-29

23In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. 24Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
25Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. 26Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. 27Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore.28Avete udito che vi ho detto: «Vado e tornerò da voi». Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. 29Ve l'ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate.

In questo tempo pasquale la chiesa continua a offrirci i “discorsi di addio” di Gesù (cf. Gv 13,31-16,33), collocati nell’ultima cena ma da intendersi quali parole di Gesù glorificato, del Signore risorto e vivente che si rivolge alla sua comunità aprendole gli occhi sul suo presente nella storia, una volta avvenuto il suo esodo da questo mondo al Padre (cf. Gv 13,1).

In quel contesto di ultimo incontro tra Gesù e i suoi, alcuni discepoli gli pongono delle domande: Pietro innanzitutto (cf. Gv 13,36-37), poi Tommaso (cf. Gv 14,5), infine Giuda, non l’Iscariota. Costui gli chiede: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?” (Gv 14,22). È una domanda che deve aver causato anche sofferenza nei discepoli: dopo quell’avventura vissuta insieme a Gesù per anni, egli se ne va e sembra che nulla sia veramente cambiato nella vita del mondo… Una piccola e sparuta comunità ha compreso qualcosa perché Gesù si è manifestato a essa, ma gli altri non hanno visto e non vedono nulla. A cosa si riduce dunque la venuta del Figlio dell’uomo sulla terra, la sua vita in attesa del regno di Dio imminente che egli proclamava?

Gesù allora risponde: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”. Ecco perché Gesù non si manifesta al mondo che non crede in lui, che gli è ostile perché non riesce ad amarlo: per avere la manifestazione di Gesù occorre amarlo! Ogni volta che si leggono queste parole, si è turbati in profondità: Gesù, figlio di Maria e di Giuseppe, uomo come noi, non ci chiede solo di essere suoi discepoli, di osservare il suo insegnamento, ma anche di amarlo, perché amandolo si compie ciò che lui vuole e facendo ciò che lui vuole lo si ama. In ogni caso, qui l’amore viene definito necessario per la relazione con Gesù. Amare è una parola impegnativa, eppure Gesù la utilizza, leggendo la relazione con il discepolo non solo nella fede, nell’obbedienza all’insegnamento, nella sequela, ma anche nell’amore.

Più in profondità, Gesù precisa che chi lo ama, nell’amore per lui resterà fedele alla sua parola – riassunta per il quarto vangelo nel “comandamento nuovo”, “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 13,34; 15,12) – , sarà amato dal Padre, così che il Padre e il Figlio verranno a mettere dimora presso di lui: inabitazione di Dio in chi ama Gesù! Se manca l’amore, invece, non ci sarà riconoscimento di questa presenza quando Gesù sarà “assente”; dopo la sua vicenda terrena, infatti, una volta salito presso il Padre (cf. Gv 20,17), Gesù sarà assente, e tuttavia, se l’amore resta, egli sarà presente nel suo discepolo. Di fronte a queste parole la nostra comprensione vacilla, ma ci può venire in soccorso l’esperienza vissuta in una relazione di amore, quando l’amato/a è assente eppure noi facciamo una certa esperienza della sua presenza in noi, nell’attesa che ritorni e con la sua presenza faccia a faccia rinnovi la relazione d’amore e la riempia.

Questa è un’esperienza dell’assente che possono conoscere solo gli amanti, e Gesù la promette indicandola però nello spazio della fedeltà alla sua parola, della realizzazione dei suoi comandi. Per questo specifica che la sua parola, quella data ai discepoli e alle folle in tutta la sua vita, non era parola sua, ma parola di Dio, del Padre che lo aveva inviato nel mondo. Questa parola ormai consegnata ai credenti, che rimane per sempre, è capace di far sentire la presenza di Gesù quando la parola stessa sarà letta, meditata, ascoltata e realizzata dal cristiano; sarà un segno, un sacramento efficace, che genera la Presenza del Signore. Gesù non è più tra di noi con la sua presenza fisica, in quanto glorificato, risuscitato dallo Spirito e vivente presso il Padre; ma la sua parola, conservata nella chiesa, lo rende vivente nell’assemblea che lo ascolta, Presenza divina che fa di ogni ascoltatore la dimora di Dio. Quella “Parola (Lógos)” che “si è fatta carne (sárx)” (Gv 1,14) in Gesù di Nazaret si è fatta voce (phoné) e quindi lógos, parola degli umani, e in ogni credente si fa Presenza di Dio (Shekinah), si fa carne (sárx) umana del credente, continuando a dimorare nel mondo (cf. Gv 17,18).

E di tutta questa dinamica di presenza è assolutamente artefice lo Spirito di Dio che è anche lo Spirito di Cristo. È l’altro Inviato dal Padre, è l’altro Maestro inviato dal Padre, è l’altro Consolatore inviato dal Padre.

Gesù sale al Padre e lo Spirito santo, che era suo “compagno inseparabile” (Basilio di Cesarea), da Cristo scende su tutti i credenti come un Paraclito, chiamato accanto quale difensore e consolatore; sarà proprio lui a insegnare ogni cosa, facendo ricordare tutte le parole di Gesù e, nel contempo, rinnovandole nell’oggi della chiesa. C’è una sola differenza tra Gesù e il Consolatore: Gesù parlava di fronte ai discepoli che lo ascoltavano, mentre il Consolatore, che con il Figlio e il Padre viene ad abitare nel credente, parla come un “maestro interiore”, con più forza, potremmo dire… Non siamo orfani, non siamo stati lasciati soli da Gesù, e quel Dio che dovevamo scoprire fuori di noi, davanti a noi, ora dobbiamo scoprirlo in noi come presenza che ha messo in noi la sua tenda, la sua dimora.

Certo, nell'andarsene Gesù vede la sua opera, quella che umanamente ha realizzato in obbedienza al Padre, “incompiuta”, perché i discepoli non capiscono ancora, perché la verità nella sua pienezza non è ancora rivelabile e lui stesso avrebbe ancora molti insegnamenti da dare, molte cose da rivelare… Eppure ecco che Gesù ci insegna l’arte di “lasciare la presa”: se ne va senza ansia per la sua comunità e per il suo destino, ma anzi con la fiducia che c’è lo Spirito, il Consolatore e Difensore,

il quale agirà nella comunità da lui lasciata; insegnerà molte cose necessarie e che egli stesso, Gesù, si era inibito di insegnare perché la comunità non era pronta a recepirle e a comprenderle; e soprattutto darà ai discepoli grande forza e tanti doni che essi non possedevano.

“Lo Spirito santo vi insegnerà ogni cosa e vi farà ricordare tutto ciò che io vi ho detto”: promessa, questa, che vediamo realizzata nella vita della chiesa e nella nostra vita, nelle nostre storie. Oggi il Vangelo lo comprendiamo più di ieri, più di mille anni fa. Per la salvezza degli uomini e delle donne di ieri era sufficiente quella comprensione, ma per noi oggi è necessaria un’altra comprensione, dovuta alla “corsa” del Vangelo nella storia (cf. 2Ts 3,1), perché in essa il Vangelo si dilata e la chiesa lo approfondisce, lo comprende meglio e di più. La fede dei grandi padri della chiesa è ancora la fede della chiesa di oggi, ma molto più approfondita. Il Vangelo letto al concilio di Trento è lo stesso Vangelo letto da noi oggi, ma oggi lo comprendiamo meglio, come affermava papa Giovanni. Siamo nel tempo in cui lo Spirito santo, che è sempre Spirito del Padre, procedendo da lui, ma anche Spirito del Figlio, perché suo “compagno inseparabile”, è presente nelle vie della chiesa e agisce quando essa lo invoca e gli obbedisce.

Così nella chiesa c’è la pace, lo shalom, la vita piena lasciata da Gesù, non la pace mondana, ma una pace sorretta dalla speranza, perché Gesù ha detto ancora: “Me ne vado, ma ritornerò a voi!”. “Se n’è andato il nostro pastore”, abbiamo cantato nel responsorio del sabato santo; ma in questo tempo pasquale che dura fino al giorno del Signore possiamo cantare: “Ecco, ritorna il nostro Pastore”, perché viene a noi ogni giorno in questa discesa del Padre e del Figlio nella forza syn-kata-batica, ac-con-discendente, dello Spirito santo. Viene con la Parola, fedelmente; viene con gli eventi della storia nei quali, al di là delle evidenze, è sempre operante; viene nella nostra carne che fatica e lotta, ma per essere trasfigurata dalla sua gloriosa venuta.

Ma noi amiamo Gesù? Secondo le sue affermazioni ascoltate e interpretate, infatti, se non lo amiamo, non siamo capaci di restare fedeli alla sua parola. Se invece viviamo tale amore e tale obbedienza al Signore, la sua vita diventa la nostra vita.




venerdì 24 maggio 2019

EDUCARE ALLA PACE IN UN MONDO MULTIRELIGIOSO. UNA PROSPETTIVA CRISTIANA

Educare alla pace in una prospettiva cristiana


Lanciato a Ginevra un documento congiunto del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso (Pcid) e del Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec) “Educazione per la pace in un mondo multi religioso: una prospettiva cristiana” per incoraggiare le Chiese e le organizzazioni cristiane a riflettere sulle radici strutturali che hanno portato a turbare la pace nel mondo

Definito dai firmatari «un’importante pietra miliare nel nostro impegno costante per rafforzare le relazioni ecumeniche attraverso la promozione del dialogo interreligioso», il documento è stato presentato nel corso della conferenza sul tema «Promuovere la pace insieme». Dopo un suggestivo momento spirituale, caratterizzato da musiche strumentali e dall’accensione di una lampada da parte dei leader delle diverse tradizioni di fede intervenuti, il vescovo Miguel Ángel Ayuso Guixot, segretario del dicastero vaticano, e il segretario generale del Cec, Olav Fykse Tveit, hanno pronunciato i rispettivi discorsi introduttivi, seguiti dai saluti del nunzio apostolico Ivan Jurkovič, osservatore permanente della Santa Sede presso l’Ufficio delle Nazioni Unite ed istituzioni specializzate a Ginevra, e della rappresentante della missione permanente degli Emirati arabi uniti, Aalya Al Shehhi.

Approfondimento sullo storico documento sulla Fratellanza umana per la pace

Successivamente due sessioni sono state dedicate all’approfondimento dello storico documento sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato dal Papa e dal Grande imam di Al Azhar ad Abu Dhabi il 4 febbraio scorso — per la Chiesa cattolica ha preso la parola il segretario del Pcid, monsignor Indunil Kodithuwakku — e di quello lanciato durante la Conferenza.

Mons. Ayuso: pianeta minacciato da terrorismo e violenza a sfondo religioso

Nella breve presentazione di quest’ultimo, monsignor Ayuso ha preso spunto dalla constatazione che «viviamo in un mondo frammentato» in cui «la polarizzazione è in aumento. Oltre alla crisi ecologica, l’instabilità politica, economica e sociale continua a minacciare il benessere se non l’esistenza stessa del pianeta. Il terrorismo, gli atti di violenza motivati dalla religione, la radicalizzazione o l’auto-radicalizzazione attraverso i social media, i discorsi di odio, così come i predicatori estremisti, i missionari e le istituzioni religiose che gettano semi di violenza sono piaghe sociali che devono essere affrontate». Per questo, ha spiegato il presule comboniano, il documento «si fonda sulla convinzione condivisa che l’educazione ha un ruolo vitale, anzi essenziale, da svolgere nel risolvere i conflitti, prevenirne il ripetersi, guarire le ferite, ristabilire la giustizia e sostenere l’uguale dignità di tutti». Infatti, ha aggiunto, «anche se questo documento è stato scritto da cristiani ed è principalmente rivolto a cristiani», esso «afferma che la costruzione della pace deve coinvolgere tutti».

Sette motivi per cui i cristiani si devono impegnare per la pace

Articolato in tre sezioni, nella prima vi sono esposti sette motivi per cui i cristiani sono chiamati a impegnarsi nell’educazione per la pace: Cristo è la nostra pace (cfr Efesini 2, 14); come beneficiari del dono della pace di Cristo, i suoi discepoli sono chiamati a essere artigiani di pace; essa è intrinsecamente legata alla giustizia; la cura e la valutazione dell’educazione sono intrinseche alla tradizione e alla pratica cristiane e devono molto del loro significato alla saggezza biblica; la pace, intesa anche come ripristino delle giuste relazioni, fa emergere i legami fondamentali tra peccato, perdono e riconciliazione; il processo di pace implica prestare attenzione sia al passato sia al futuro; la fede cristiana nel Dio uno e trino insegna che le persone divine sono realmente distinte e tuttavia legate l’una all’altra.

Implementare la costruzione della pace attraverso l’educazione

La seconda parte del documento presenta una dozzina di aree e strategie per implementare la costruzione della pace attraverso l’educazione, che coinvolgono tutte le età e tutti i settori della società, alcune delle quali sono più specificamente appropriate per i bambini, altre per i giovani e altre ancora per gli adulti. Tra queste, il diritto a un’educazione adeguata, educazione olistica, educazione per esseri umani creati a immagine di Dio, il modello di Gesù come maestro; apprendimento permanente e per tutti; pace e potere; conoscere, proteggere e affermare “l’altro”; uso dei media nell’educazione alla pace; imparare da e con le Scritture; culto, spiritualità e educazione per la pace; prevenzione e riconciliazione; integrare le prospettive di sviluppo con ecologia.

La preghiera delle Chiese come strumento di educazione alla pace

Infine la terza parte offre dieci raccomandazioni per la riflessione orante alle Chiese, alle istituzioni educative cristiane e agli organismi ecumenici nazionali e regionali confessionali: studiare il documento e riflettere su quali potrebbero essere i metodi educativi efficaci e strettamente correlati alla pace; sviluppare risorse educative e corsi di studio; identificare i potenziali interlocutori con cui sviluppare strumenti educativi creativi, interattivi, incentrati sullo studente per vari livelli (dalla famiglia alle comunità religiose, dalle istituzioni educative alla società in generale); esaminare e sfidare i fattori strutturali passati e presenti che hanno contribuito alla violenza; incoraggiare le istituzioni cristiane di istruzione e le agenzie ecclesiastiche, in particolare quelle che offrono programmi di catechesi per bambini e giovani, a introdurre elementi di educazione per la pace nella formazione spirituale e umana; verificare come elementi della vita religiosa — compresi la conoscenza delle scritture, il culto pubblico, la preghiera e la liturgia — possano favorire la solidarietà umana per una società più giusta e pacifica; esigere che le istituzioni cristiane di tutto il mondo studino in modo orante il documento Christian Witness in a Multi-Religious World: Recommendations for Conduct (2011) per superare le dispute legate a comprensioni contrastanti di intendere la missione, la conversione e il proselitismo; ricordare le storie di vita di persone straordinarie che hanno affrontato in modo ecumenico e interreligioso questioni di giustizia, pace ed ecologia; sollecitare i governi a sviluppare modelli educativi che promuovano e diano priorità alla pace; pregare insieme per la causa della pace.


giovedì 23 maggio 2019

CASA e SCUOLA: EDUCAZIONE ALLA GENTILEZZA


Io a scuola insegnerei educazione alla gentilezza, un’ora a settimana. Perché magari la maturità scolastica ci insegna a fare benissimo le equazioni, a scrivere un tema a meraviglia, a tradurre a menadito greco e latino, a parlare le lingue. Poi manca la maturità emotiva per affrontare al meglio lo stress. Lo stress di chi non si è insegnato il rispetto, l’attesa, l’educazione, la giusta misura nel dire le cose, la differenza fra il lasciar correre e l’aggredire, fra l’avere carattere e la prevaricazione, fra il diritto di critica e il non diritto di offesa. Una persona gentile sa essere sgradevole, se vuole. Sceglie di non esserlo, semplicemente. Poi ci sono le materie che impariamo sul campo, geometria delle anime, geografia degli sguardi e se siamo fortunati diventiamo il libro di storia di qualcuno. Vi auguro di andare controcorrente, non sempre, solo quando serve a restare voi stessi e assolutamente mai controcuore“.
                                                                                                                                      Massimo Bisotti

Abbiamo voluto riproporvi questo spunto dello scrittore Massimo Bissotti, sintesi artistica di quei pensieri che cerchiamo di proporre ogni giorno, di quel mondo gentile che ci piacerebbe costruire. Poche righe, ma secondo noi più utili di tutto quello che recentemente si è detto su resilienza, empatia ed emozioni.
Nel nostro mondo c’è spazio per la gentilezza? Molto poco: lo stress e i ritmi frenetici del lavoro e della vita hanno portato a perdere progressivamente questo valore. Scambiare qualche parola gentile con gli altri è visto come una perdita di tempo.
Riscopriamo la gentilezza
La gentilezza è alla base dell’empatia: sorridere, fare del bene, rendere migliore la giornata degli altri. E’ un valore che, poco alla volta, rende la nostra vita più piena. Essere gentili significa essere grati alla vita e al mondo che abitiamo. Per riscoprire la gentilezza, dobbiamo abbattere il muro dell’egoismo e delle finte preoccupazioni: abituiamoci a non utilizzare lo smartphone quando non è strettamente necessario. Abituiamoci ad ascoltare e a comunicare in modo sincero: guardiamo negli occhi i bambini e le persone con cui parliamo.
I bambini nascono gentili: fino a 6/7 anni, nonostante l’egocentrismo tipico della loro età, sono pronti a condividere con gli altri, comunicano volentieri e prendono a cuore i problemi degli altri. Perché noi adulti non ne siamo più in grado? Forse, un primo passo potrebbe essere proprio quello di riscoprire la gentilezza dell’infanzia, facendo un passo indietro con il cuore.
Per insegnare ad essere gentili dobbiamo utilizzare il linguaggio del cuore
Siamo sicuri che in educazione paghi la scientificità con cui ci inventiamo metodi e competenze? Siamo sicuri che siano un buon modo per insegnare il rispetto, l’amore e la gentilezza? Noi non lo siamo. Anzi, ogni giorno che passa ci convinciamo un pochino di più che spesso fanno solo danni. Abbiamo messo al centro delle nostre ricerche metodi per insegnare meglio, che in quanto tali si sono concentrati su tutto ciò che si poteva misurare: se sai a memoria le tabelline, se riesci a parlare tre lingue diverse, se sai programmare un’applicazione.
Abbiamo però dimenticato il cuore, la gentilezza spontanea, quell’educazione emotiva che non si trova nelle riflessioni degli psicologi ma solo nella vita vissuta. E anche adesso, che ci siamo accorti dell’errore e stiamo correndo ai ripari, usiamo lo stesso sistema: scientifico, enciclopedico, squadrato. Spuntano manuali sulle emozioni come fossero l’aritmetica di base. Istruzioni per allenare questo e quello, dalla resilienza alla gratitudine. Senza capire che il cuore parla la lingua del cuore, e con quella va educato.
Quindi, perché non ripartire dall’arte, dalla narrazione, dai piccoli gesti spontanei, dalla voglia di cambiare? Potrebbe essere un modo per innovare per davvero, e innovando stare meglio. Potrebbe essere il primo passo verso una ricerca della felicità concreta e non solo teorizzata.