La civiltà del “senza”
che occorre riempire
di Alberto Caprotti
Molti di noi, i meno giovani almeno, sono nati in anni in cui la benzina
era con il piombo, le ricerche con l’enciclopedia, i dolci con l’olio di palma,
il dentifricio con il fluoro e il talco con il boro, il telefono con i gettoni,
le gomme con la camera d’aria, le caramelle con lo zucchero, la birra con
l’alcol, il film con la cassetta, la febbre con il termometro a mercurio, le
foto con la Kodak, il pesto con l’aglio, la tuta dei pompieri con l’amianto, la
vacanza con i genitori, il ghiacciolo con il colorante, la bici con i pedali,
il cinema con il fumo di sigaretta, la musica con il cd e la cioccolata
rigorosamente con la panna.
Preistoria? Sembra, ma non lo è. Parliamo di epoche più recenti del
classico “si stava meglio quando si stava peggio”, concetto abusato e nella
maggior parte dei casi completamente falso e manifesto di ingratitudine verso
il progresso. Ma è vero che pochi anni sono bastati affinché tanto sia diverso
da prima. La ragione è che prima le alternative non c’erano, molte cose non si
sapevano, e quelle che facevano male si sottovalutavano con un sorriso. O
magari non facevano male affatto. Il tempo le ha rese nocive, e la convinzione
che lo fossero ha consolidato il concetto. Il salutismo in particolare ci ha
cambiato, forse perché nulla di ciò che è buono può essere anche sano: i cibi
“migliori” sono sempre quelli senza grassi, il pane senza sale, il latte senza
lattosio, la pasta senza glutine, il caffè senza caffeina. È la civiltà del
“senza” quella a cui ci stiamo abituando, traguardo scelto ma anche in parte
imposto dalle mode, oltre che da allergie sempre più frequenti e ritmi di vita
che non perdonano sgarri.
Il fatto è che sono cambiati i presupposti, oltre che gli orizzonti.
Veniamo da una generazione per la quale l’obiettivo era mangiare di più,
possedere cose migliori, godere di più, sottovalutare lo spreco, cogliere
l’attimo. E guardare indietro per non stare peggio, anziché guardare avanti per
stare meglio. Così la vita media forse si è allungata, ma il consumo è
degenerato in consumismo. Ora per fortuna abbiamo capito che occorre
reimpostare il nostro rapporto con la terra, con l’aria e con l’acqua. In una
parola, con ciò che i credenti chiamano “creato”, e tutti gli altri “natura”.
Molti non si adeguano, per diffusa ignoranza mista ad assenza di educazione:
malattia incurabile, purtroppo. Ma c’è nella maggioranza una nuova
consapevolezza verso un mondo che dobbiamo conservare per allontanarne il più
possibile la fine, attraverso un diverso rapporto con noi stessi e con ciò che
ci circonda. La parola chiave è una sola: rispetto. Che è un valore
straordinario e inevitabile. Rispetto per le cose, rispetto per le idee giuste,
per i comportamenti che ci consentono di “durare”, unico sistema per cambiare
il paradigma che per anni ci ha guidato e che era “sfruttare”.
Togliere, limare, diminuire. Non solo a tavola, purtroppo: sono questi i
verbi del presente.
Che fanno bene, perché probabilmente aiutano a vivere meglio. Ma che
presuppongono di rimettere qualcosa “dentro” per compensare il vuoto cosmico
che lasciano e che ci circonda. Senza grassi, certo, ma la nostra è anche la
civiltà senza sentimenti, senza tempo, senza cortesia, senza confidenza, senza
vita. Eliminiamo, razionalizziamo, “ottimizziamo” come dicono quelli che sanno fare
i bilanci. E il conto finale è più magro, in tutti i sensi. Mancano i
contenuti, ma anche semplicemente i “con” e tutti i sentimenti limitrofi. I
confini allargati, i congiuntivi giusti, i consigli utili, le conseguenze
positive, i contatti costruttivi, i concetti intelligenti.
da www.avvenire.it
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