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venerdì 31 maggio 2019

IL BELLO E IL BUONO


La civiltà del “senza” 
che occorre riempire

di Alberto Caprotti

Molti di noi, i meno giovani almeno, sono nati in anni in cui la benzina era con il piombo, le ricerche con l’enciclopedia, i dolci con l’olio di palma, il dentifricio con il fluoro e il talco con il boro, il telefono con i gettoni, le gomme con la camera d’aria, le caramelle con lo zucchero, la birra con l’alcol, il film con la cassetta, la febbre con il termometro a mercurio, le foto con la Kodak, il pesto con l’aglio, la tuta dei pompieri con l’amianto, la vacanza con i genitori, il ghiacciolo con il colorante, la bici con i pedali, il cinema con il fumo di sigaretta, la musica con il cd e la cioccolata rigorosamente con la panna.
Preistoria? Sembra, ma non lo è. Parliamo di epoche più recenti del classico “si stava meglio quando si stava peggio”, concetto abusato e nella maggior parte dei casi completamente falso e manifesto di ingratitudine verso il progresso. Ma è vero che pochi anni sono bastati affinché tanto sia diverso da prima. La ragione è che prima le alternative non c’erano, molte cose non si sapevano, e quelle che facevano male si sottovalutavano con un sorriso. O magari non facevano male affatto. Il tempo le ha rese nocive, e la convinzione che lo fossero ha consolidato il concetto. Il salutismo in particolare ci ha cambiato, forse perché nulla di ciò che è buono può essere anche sano: i cibi “migliori” sono sempre quelli senza grassi, il pane senza sale, il latte senza lattosio, la pasta senza glutine, il caffè senza caffeina. È la civiltà del “senza” quella a cui ci stiamo abituando, traguardo scelto ma anche in parte imposto dalle mode, oltre che da allergie sempre più frequenti e ritmi di vita che non perdonano sgarri.
Il fatto è che sono cambiati i presupposti, oltre che gli orizzonti. Veniamo da una generazione per la quale l’obiettivo era mangiare di più, possedere cose migliori, godere di più, sottovalutare lo spreco, cogliere l’attimo. E guardare indietro per non stare peggio, anziché guardare avanti per stare meglio. Così la vita media forse si è allungata, ma il consumo è degenerato in consumismo. Ora per fortuna abbiamo capito che occorre reimpostare il nostro rapporto con la terra, con l’aria e con l’acqua. In una parola, con ciò che i credenti chiamano “creato”, e tutti gli altri “natura”. Molti non si adeguano, per diffusa ignoranza mista ad assenza di educazione: malattia incurabile, purtroppo. Ma c’è nella maggioranza una nuova consapevolezza verso un mondo che dobbiamo conservare per allontanarne il più possibile la fine, attraverso un diverso rapporto con noi stessi e con ciò che ci circonda. La parola chiave è una sola: rispetto. Che è un valore straordinario e inevitabile. Rispetto per le cose, rispetto per le idee giuste, per i comportamenti che ci consentono di “durare”, unico sistema per cambiare il paradigma che per anni ci ha guidato e che era “sfruttare”.
Togliere, limare, diminuire. Non solo a tavola, purtroppo: sono questi i verbi del presente.
Che fanno bene, perché probabilmente aiutano a vivere meglio. Ma che presuppongono di rimettere qualcosa “dentro” per compensare il vuoto cosmico che lasciano e che ci circonda. Senza grassi, certo, ma la nostra è anche la civiltà senza sentimenti, senza tempo, senza cortesia, senza confidenza, senza vita. Eliminiamo, razionalizziamo, “ottimizziamo” come dicono quelli che sanno fare i bilanci. E il conto finale è più magro, in tutti i sensi. Mancano i contenuti, ma anche semplicemente i “con” e tutti i sentimenti limitrofi. I confini allargati, i congiuntivi giusti, i consigli utili, le conseguenze positive, i contatti costruttivi, i concetti intelligenti.


da www.avvenire.it


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