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sabato 23 febbraio 2019

PORGI L'ALTRA GUANCIA

Siamo uomini d’onore  o uomini d’amore?

Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso.
Dal Vangelo secondo Luca Lc 6, 27-38
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non richiederle indietro.
E come volete gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro.
Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gl’ingrati e i malvagi.
Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso .
Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio”.

Commento di don Ivan Licinio

E va bene diciamocelo: Gesù qui ha esagerato! Non è umanamente possibile mettere in pratica quello che oggi ci chiede e, forse, non è neanche giusto. Perché mai dovrei offrire l’altra guancia a chi mi percuote invece di difendermi? E perché non dovrei chiedere indietro le cose che mi sono state prese? Figuriamoci poi quando dice di amare i miei nemici: se ho subito un torto o qualcuno è stato cattivo con me, perché dovrei amarlo? No Gesù, mi dispiace, ma quello che proponi oggi vale solo per i santi e non per un semplice cristiano come me. Io ho un mio onore da difendere…

Queste potrebbero essere le prime impressioni dopo aver letto la pagina evangelica di oggi e che hanno a che fare con la nostra quotidianità spicciola che non sempre combacia con quanto ci viene chiesto da Gesù. Inoltre, potrebbe sembrare che il cristiano che esce fuori da questo ritratto evangelico odierno sia un tipo passivo, che subisce, distaccato dalle cose materiali e tutto proteso verso realtà ascetiche e mistiche. Nulla di più falso. A leggere bene quello che Gesù ci dice oggi, scopriamo, invece, che ci viene chiesto di interrompere il circuito del male usando il rimedio di sempre: l’amore.
Prendiamo ad esempio il famoso invito ad offrire l’altra guancia. Ai tempi di Gesù, uno schiavo veniva colpito in volto dal suo padrone con il dorso della mano, perché quest’ultimo non avesse a sporcarsi le mani. La guancia colpita era dunque la guancia destra, tranne nel caso in cui il padrone non fosse mancino. «Porgere l’altra guancia», cioè la sinistra, a quel tempo significava costringere il padrone a colpire con il palmo della mano e, quindi, a “sporcarsi” le mani, cosa che un pio israelita benestante non avrebbe mai fatto. Il voltare il viso dall’altra parte era un modo per impedire all’aggressore di colpire ancora, per interrompere il sistema, per costringere il potente a fermarsi. Allora porgere l’altra guancia non significa affatto assumere un atteggiamento arrendevole e di sottomissione, non significa passività di fronte all’offesa, piuttosto è la ribellione al male e l’impegno ad interrompere il circolo vizioso della violenza. “Occhio per occhio” vuol dire rispondere alla violenza con la violenza, cosa che tante volte risulta più semplice e soddisfacente. “Porgere l’altra guancia”, invece, è un invito a metterci la faccia, a sporcarsi le mani non come il padrone dello schiavo, ma con gesti inaspettati di amore in risposta alla violenza. Diceva don Milani: «A che serve avere le mani pulite se poi ce le teniamo in tasca?» Troppe volte, però, più che porgere l’altra guancia, voltiamo la faccia dall’altra parte di fronte alle ingiustizie, ai poveri, a coloro che chiedono il nostro aiuto. Il cristiano dell’altra guancia non è quello che subisce, ma quello che interviene. Ripagare un torto con la stessa moneta non è mai giustizia perché la vera giustizia educa all’amore non alla violenza.
Gesù ci chiede, allora, di vivere sempre nell’amore. Nessuno di noi è al riparo dalla tentazione dell’odio ma solo se sapremo vivere ogni giorno nell’amore troveremo la forza di resistere. Gesù non solo contrappone l’amore all’odio, ma esige che l’amore dei suoi discepoli si concretizzi proprio su coloro che li odiano; sarebbe ridicolo, per Gesù, amare solo quelli che ci amano: non ne avremmo alcun merito, ma soprattutto il nostro amore non sarebbe segno distintivo della nostra esclusiva ed inequivocabile appartenenza a Cristo: «Anche i peccatori fanno lo stesso». Gesù ci fa intravedere, allora, uno stile di vita in cui l’amore è talmente preso sul serio che ci innalza fino a Dio e alla sua perfezione. Nella logica evangelica non si dà altra perfezione, se non quella di un amore fraterno che rivela la nostra identità filiale nei confronti di Dio. «Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso». Non c’è altro traguardo verso il quale tendere, se non quello di un amore che sa perdonare perché ha sperimentato il dono del perdono. Non c’è altro comandamento da osservare, se non quello di tendere all’imitazione di Dio, che resta misericordioso per gli ingrati e i peccatori.
Infine l’ultima batosta: «Date e vi sarà dato […] perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio». Questo versetto dovremmo ricordarlo più spesso, dovremmo scrivercelo sulle pareti del cuore, dovremmo impegnarci a viverlo con tutte le nostre forze. Così riconoscerebbero che più che uomini d’onore, accartocciati su noi stessi, siamo uomini di Dio cioè, come avrebbe detto Luciano De Crescenzo, uomini d’Amore.

TUTELA DEI MINORI - LA CEI APPROVA IL REGOLAMENTO E LE INDICAZIONI

 Oltre alle informazioni generali sul Servizio, che è chiamato a offrire alla CEI, alle Chiese particolari, agli Istituti di Vita Consacrata e alle Società di Vita Apostolica, alle Associazioni e alle altre realtà ecclesiali un supporto – si legge sul sito della Chiesa Cattolica - per quanto attiene alla tutela dei minori e degli adulti vulnerabili, nel sito sono a disposizione il Regolamento e le Indicazioni alle diocesi, come pure una raccolta di documenti, notizie e segnalazioni stampa, compresi i link agli approfondimenti che i media della CEI dedicano a questo tema.
“Ciò che mi ha turbato maggiormente nei colloqui con le vittime è il modo insidioso con cui gli aggressori si avvicinano a questi adolescenti innocenti, ha detto il card. Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e Presidente della CEI, dopo aver incontrato due vittime:  “essi propongono il tutto come se fosse un cammino spirituale che io ti aiuto a fare, finché la vittima non cade pienamente nella trappola. Questo lascia ancora più amareggiate le vittime perché poi quando arrivano a una consapevolezza e a una piena coscienza di quello che è avvenuto si rendono conto anche di tutta la malizia con cui è stato teso il tranello. Questo aggiunge rabbia a rabbia”. Ecco perché occorre – per il porporato - decisamente cambiare rotta e avere un’attenzione sempre più grande per questi drammi.
Chi sa deve parlare. Bisogna collaborare fin dove è possibile, fino in fondo, con l’autorità giudiziaria. Ma soprattutto si richiede un grande discernimento nei confronti di coloro  che si avvicinano al seminario o agli istituti religiosi servendosi dell’apporto di tutte le scienze umane. Non si può rischiare oltre – aggiunge il presidente della CEI -. E’ il limite che abbiamo raggiunto: non si può rischiare. Allora, meno sacerdoti, meno religiosi ma essere più tranquilli che coloro cui noi affideremo le anime, soprattutto gli  innocenti, garantiscano l’annuncio del vangelo e non il resto”.
Il vescovi italiani hanno voluto fortemente il Servizio nazionale per la tutela dei minori che hanno affidato all’arcivescovo di Ravenna-Cervia, mons. Lorenzo Ghizzoni che parlando dell’incontro in corso in Vaticano ha detto che per i pastori della chiesa universale, condividere il dolore di chi ha subito abusi diventa uno dei passi fondamentali per arrivare ad aiutare veramente e comprendere fino in fondo il dramma delle violenze. “La partecipazione alla sofferenza aiuta chi deve prendere decisioni a mettere in campo strumenti utili per evitare che la tragedia si possa ripetere”.
Tra i primi compiti affidati al Servizio – composto dal Presidente e da un Comitato di Presidenza - la promozione e l’accompagnamento delle attività di prevenzione e formazione a livello territoriale. A tale scopo, è stato chiesto a ogni Conferenza Episcopale Regionale di incaricare un vescovo: a quest’ultimo spetta “di accompagnare la costituzione dei servizi regionali e interdiocesano, a partire dalla sollecitazione ai Vescovi del territorio per l’individuazione di validi referenti diocesani”.  Anche a livello regionale la costituzione di un servizio per la tutela dei minori e a livello diocesano si provvederà alla nomina di un referente. Tra le prime regioni la Toscana che nel suo primo appuntamento assembleare della Conferenza  Episcopale Regionale ha deciso di istituire il servizio regionale.
“Finalità del Servizio – si legge nel comunicato  della Cet - l’offerta di un supporto alle Chiese particolari, agli Istituti di vita consacrata e Società di vita apostolica, alle associazioni e alle aggregazioni ecclesiali”. I vescovi hanno anche dedicato spazio agli interventi da mettere in atto per rafforzare la collaborazione tra le diocesi nella formazione del clero, “per rendere l’impegno formativo sempre più rispondente ai tempi di oggi e alle mutate condizioni sociali e culturali”.
In Calabria i vescovi nella loro ultima sessione hanno voluto riservare una “accurata” riflessione ai “delicta graviora”, tema che “inquieta la Chiesa” e che, con “attenzione e responsabilità”, è stato esaminato nelle sue varie sfaccettature problematiche, ribadendo, si legge nel comunicato finale pubblicato sul sito della Conferenza Episcopale Calabra “la vigilanza e l’attenzione con cui esso va curato nella sua fase preventiva/educativa e nelle singole situazioni dolorose che dovessero emergere”.
Per questo hanno affidato al presidente, l’arcivescovo di Catanzaro-Squillace, mons. Vincenzo Bertolone, il compito di avviare una commissione di valutazione così come chiedono le disposizioni della CEI. In particolare Bertolone ha sottolineato l’urgenza della questione “pedofilia”, esortando “il popolo di Dio alla conversione personale e comunitaria, affinché la sofferenza delle vittime degli abusi perpetrati da laici e chierici sia di monito per tutti e per tutta la Chiesa” invitando la comunità ecclesiale ad unirsi nella preghiera, ma anche a “rifuggire dalle strade che portano all’omertà”, esortando “tutti alla presa di coscienza” e assicurando che la Chiesa calabrese, attraverso i suoi Pastori, è “impegnata ad eliminare anche al proprio interno ogni atteggiamento di omertà che, spesso, diviene da sé forza di tanti abusi”.
I vescovi calabri hanno anche deliberato l’istituzione del Servizio Regionale per la Tutela dei Minori, nominando come Vescovo delegato ad interim il presidente della Cec.  La stessa procedura avverrà nelle prossime settimane nelle altre regioni ecclesiatiche.

In allegato entrambi i testi: Regolamento e Indicazioni




FOLIGNO E DINTORNI. UN EPISODIO CHE FA RIFLETTERE

CIÒ CHE I PICCOLI 
CI INSEGNANO
La scuola, di fronte allo sfacelo etico contemporaneo, alla mancanza di valori e gerarchie, alla decadenza dei canoni, alla scomparsa delle opere e degli stili, dovrebbe diventare una postazione di resistenza dove custodire la sapienza, mantenere le promesse e diffondere lo spirito critico.
Il maestro, in una scuola elementare di Foligno, ordina a un bambino nero di mettersi davanti alla finestra, spalle alla classe, poi dice ai suoi compagni: 'Guardate quant'è brutto'. Si giustifica così: 'Ho voluto fare un esperimento sociale'.
Stentiamo a crederlo. Ma un’interrogazione parlamentare e un’indagine conoscitiva avviata dal Miur dopo che i piccoli allievi avevano raccontato in famiglia l’accaduto ci spinge a riflettere, ancora una volta, sui rigurgiti razzisti presenti ormai in tutta Europa e in particolar modo, sebbene sia doloroso ammetterlo, nel nostro Paese. Le ripetute offese rivolte ai genitori adottivi del giovane senegalese di Melegnano, in provincia di Milano, hanno suscitato sconcerto. Così come ha fatto impressione l’aggressione fisica nei confronti di un dodicenne egiziano da parte dei suoi compagni di classe a Roma.
Cosa sta succedendo in Italia? Consiglio la lettura di un libro, 'Il Terzo Reich dei sogni', in cui l’autrice, Charlotte Beradt, analizzando i sogni di molti cittadini tedeschi negli anni dell’avvento del nazismo, confermava in sostanza una celebre intuizione di Carl Gustav Jung, secondo il quale Adolf Hitler aveva conquistato l’inconscio del suo popolo.
Questo vale per i totalitarismi, certo, ma anche nelle fiorenti democrazie avanzate occidentali, complice la presenza pervasiva dei social, dobbiamo purtroppo constatare che le peggiori intolleranze, stupidità e protervie possono essere introiettate nella coscienza collettiva a una velocità impressionante, rispetto alla quale il vecchio pettegolezzo, che un tempo passava di bocca in bocca senza venire nemmeno verificato, era ben poca cosa.
È questa la ragione per cui la scuola, di fronte allo sfacelo etico contemporaneo, alla mancanza di valori e gerarchie, alla decadenza dei canoni, alla scomparsa delle opere e degli stili, dovrebbe diventare una postazione di resistenza dove custodire la sapienza, mantenere le promesse e diffondere lo spirito critico.
Se invece proprio in classe, addirittura alle elementari, nel punto in cui la pianta umana conosce il suo momento più bello e rigoglioso, chi dovrebbe innaffiarla la inaridisce, chi è chiamato a formare i caratteri li mortifica, allora davvero rischiamo di perdere la fiducia necessaria.
Per fortuna non sempre è così.
Prendiamo Foligno: sono andato diverse volte nelle scuole della città umbra e ricordo ragazzi fantastici, docenti appassionati, molte associazioni tese a costruire legami. Poi basta un caso come quest’ultimo – che si può solo sperare di vedere infine solidamente smentito – per gettare fango nel mucchio.
Ormai accade quasi ogni giorno: dal famoso giocatore di calcio vilipeso dal pubblico alla sconosciuta nigeriana che non viene fatta salire sull’autobus. 
Personalmente, avendo a che fare con gli immigrati, ne sento tante: come se certi insulti sul treno, in aula, o nei posti di lavoro, fossero diventati la norma, non più percepiti alla maniera di un reato. Anzi, chi interviene a difesa del malcapitato di turno, viene a sua volta ricoperto d’improperi. Perché è stato così facile scivolare nel fondo oscuro della nostra natura, quella meno rassicurante, dove ci illudevamo non saremmo più precipitati? 
Guardiamoci intorno: le parole dei politici appaiono vuote, tutte gergali, prive di vera tensione morale; le principali agenzie educative sembrano in crisi; gli adulti credibili sono confinati nella solitudine. Se non c’è argine alla tracotanza degli invasati, ciò dipende anche da un vuoto culturale più profondo. Abbiamo affidato il timone delle dottrine ai conduttori televisivi; la lettura agli smartphone; le citazioni a Wikipedia; le interpretazioni a Facebook; la fatica del conoscere ai talk show; la potenza dei nostri giovani agli sprovveduti. Eppure educare non è una mera competenza. Io lo so chi domani insegnerà a noi le responsabilità oggi disattese dagli adulti: saranno gli stessi bambini indignati che hanno raccontato ai genitori la bizzarra trovata di quello strano maestro. Magari non tutti. Ne basterà uno solo per restituirci la speranza.


venerdì 22 febbraio 2019

RAGAZZI FUORI: MAFIA, GENITORI, FIGLI, SCUOLA, SOCIETA'

La ‘ndrangheta, i ragazzi e il loro futuro. 

Come restituire ai figli dei boss una vita libera e armoniosa? 

Intervista al Presidente del Tribunale dei minori di Reggio Calabria, Roberto Di Bella.

Intervista a cura di Vincenzo Sanfilippo

Roberto Di Bella è il Presidente del Tribunale per i minori di Reggio Calabria. Ha adottato, in diverse circostanze, misure di sospensione della responsabilità genitoriale per allontanare i figli dai boss della ‘ndrangheta. Vive, da allora, sotto scorta e il suo operato apre un forte dibattito. 
Ci sono “ponti” che legano un’istanza etica come quella della nonviolenza e l’operare di un magistrato che lavora con minorenni, ponendosi il problema della loro libertà. Le mafie sono violente anche perché, nel plasmare le personalità dei minori, annullano per loro la possibilità di una vita libera e armoniosa. L’essersi imbattuto con questo dato, lo ha condotto alle pratiche di allontanamento di alcuni minori dalle famiglie mafiose... 
Io svolgo il ruolo di giudice minorile dal 1993. Ho lavorato quasi ininterrottamente presso il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria. Questa lunga esperienza mi ha consentito un’osservazione privilegiata. Dal 1993 abbiamo trattato più di 100 procedimenti per reati di criminalità organizzata, più di 50 per omicidio o tentato omicidio, reati commessi da minorenni appartenenti alle famiglie di ‘ndrangheta che adesso, da adulti, si trovano sottoposti al regime del 41 bis, o sono latitanti, o sono stati uccisi nel corso delle faide locali. Abbiamo giudicato minori coinvolti in sequestri di persona, che hanno trattato partite di droga o esercitato il racket o sono stati coinvolti nelle faide; in un caso abbiamo giudicato un minore autore di sei omicidi. Oggi ci troviamo a giudicare i figli di coloro che erano processati negli anni Novanta, tutti appartenenti alle stesse famiglie: stessi cognomi, stessi reati. La cultura di ‘ndrangheta si eredita dalle famiglie. Le famiglie di ‘ndrangheta mantengono il potere con l’indottrinamento malavitoso sistematico dei figli minori. Da qui l’esigenza di modificare l’orientamento giurisprudenziale, per censurare il modello educativo mafioso che mette a repentaglio il corretto sviluppo psicofisico dei minori. Dal 2012 stiamo adottando procedimenti civili di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale e, nei casi più gravi, l’allontanamento dei minori dal nucleo familiare. Procedimenti che vengono adottati “caso per caso”, mai in via preventiva: non si allontana il minore perché la famiglia è mafiosa. Queste misure vogliono assicurare adeguate tutele per una regolare crescita psico-fisica e nel contempo offrire chance di orizzonti culturali e  affettivi diversi da quelli del contesto di provenienza. 
In sostanza, attraverso l’ausilio di operatori sociali e volontari come quelli di Libera, cerchiamo di far vedere a questi ragazzi che esiste un mondo diverso in cui la violenza e l’omicidio non sono lo strumento ordinario di risoluzione dei conflitti, dove vi è parità di diritti tra uomini e donne, dove le scelte, anche quelle più intime, come i matrimoni, non devono essere imposti dalle famiglie per suggellare sodalizi malavitosi, ma dai dettami dei sentimenti. Cerchiamo di far capire che il carcere non è una medaglia da appuntare sul petto e da esibire ai capi, ma un luogo da evitare a tutti i costi, un cimitero vivente. Spesso la possibilità di scegliere alternative alla ‘ndrangheta non si contempla, perché non si sa che esiste un’alternativa. Pensiamo a un ragazzo proveniente da un piccolo paese della Calabria, nella cui famiglia ci sono soggetti malavitosi, dove il nonno è stato ucciso, il padre è in carcere, i fratelli sono latitanti… In casi come questo la cultura di ‘ndrangheta non è percepita come disvalore ed è intrinseca alla cultura familiare. 
Quando si parla di prevenzione si fa riferimento alle strutture di intelligence, dimenticando l’importanza della rete sociale. Nella faida di San Luca, sfociata nella strage di Duisburg, alcune famiglie non mandarono più i figli a scuola per paura di ritorsioni e queste vistose assenze non furono segnalate dagli istituti scolastici. 
È vero, le famiglie contrapposte non mandarono i figli a scuola per un lungo periodo di tempo per il timore di ritorsioni. Lo abbiamo saputo, nel corso del processo alcuni anni dopo. Noi interveniamo su situazioni che sono già patologiche. La prevenzione primaria spetta alla scuola e le agenzie alternative alla famiglia. Se nel mezzogiorno d’Italia esiste una cultura diffusa del malaffare, se oggi ci sono le stesse organizzazioni criminali da quasi un secolo… tutto ciò vuol dire che la scuola ha fallito. La scuola è il primo momento di contatto del minore con la società e primo momento di assunzione di responsabilità del bambino: nella scuola ci si confronta con la realtà esterna alla famiglia. A scuola vanno tutti: il figlio del poliziotto e il figlio del boss. La nostra Costituzione o la Convenzione Onu sui diritti del fanciullo, del 1989, affermano che la scuola ha compiti precisi, come quello di educare il fanciullo al rispetto dei diritti fondamentali di libertà dell’individuo. L’educazione scolastica deve tendere a far diventare il fanciullo un membro utile della società e a sviluppare il suo senso di responsabilità. Se questo non accade vuol dire che anche la scuola ha delle responsabilità. Anche le politiche sociali sui territori sono inadeguate. Qui a Reggio, su 98 comuni la metà non ha servizio sociale. Fino a qualche tempo fa non esisteva nessun centro di educazione culturale; di recente Save the Children ha istituito un “Punto luce”. Bisogna recuperare culturalmente questi territori di frontiera. La sconfitta della povertà educativa dovrebbe diventare una priorità di tutti gli amministratori pubblici. Intervenendo sul versante culturale, si prosciuga il bacino su cui si riproduce il modello mafioso. .....

Continua: RAGAZZI FUORI

mercoledì 20 febbraio 2019

AI BAMBINI REGALIAMO UNO STRUMENTO: IMPARERANNO AD AMARE IL BELLO

Come possiamo insegnare ai bambini ad amare e a ricercare la bellezza? Come possiamo insegnare loro il valore dell’impegno? Una risposta c’è, ed è la musica. Gli psicologi hanno studiato a lungo i benefici che la musica apporta a chi la suona e a chi la ascolta. Dall’effetto Mozart allo sviluppo delle intelligenze multiple, è indubbio che la musica faccia bene a grandi e bambini.
Mai come oggi la nostra società ha bisogno di musica (così come delle arti): viviamo nell’era del consumo e della dipendenza dal denaro, ma siamo diventati incapaci di riconoscere il bello. Ogni giorno compiamo le nostre scelte guidati (per non dire manovrati) dal marketing e da chi ha interesse a spingerci dall’una o dall’altra parte. Tuttavia, una svolta è possibile: è la cultura della bellezza autentica. Ciascuno di noi, dentro di sé, ha la sensibilità necessaria a riconoscere la bellezza, a produrre qualcosa di unico e meraviglioso. La musica, come l’arte, è lo scintilla necessaria a far emergere questa consapevolezza.
In apparenza si tratta di qualcosa di piccolo, ma è questa la rivoluzione educativa che ci serve: spostare l’attenzione dai prodotti (il denaro e gli oggetti che vi si possono acquistare) ai processi (il lavoro, l’arte e l’uso che facciamo del nostro tempo). Attraverso la musica, questo passaggio è facile, naturale.
Purtroppo, viviamo in un paese che non supporta lo studio della musica, a partire dalla scuola dell’infanzia e proseguendo per tutto il ciclo di studi (dentro e fuori la scuola). 
Così, la responsabilità di avvicinare i bambini a questa meravigliosa pratica ricade sui genitori, con conseguenze economiche notevoli.


martedì 19 febbraio 2019

COSTRUIRE L'UNIONE EUROPEA, DOVERE DI OGNI CITTADINO

APPELLO DEI VESCOVI EUROPEI


di Sarah Numico

La Commissione degli episcopati della Comunità europea  (COMECE) diffonde un testo che guarda alle elezioni del 23-26 maggio. Il sostegno della Chiesa alla "casa comune", anche se "non è perfetta". La persona al centro della politica. Le riforme necessarie e alcuni  temi-chiave: famiglia, migrazioni, sviluppo, diritti.
Un invito, forte, convinto e deciso, a sostenere il processo di integrazione europea anche attraverso l’importante momento elettorale del 23-26 maggio. Con un messaggio della Comece, la Commissione degli episcopati della Comunità europea, i cristiani sono interpellati per la costruzione di un bene comune che vada al di là degli interessi particolari e nazionali. “Rivolgiamo un appello a tutti i cittadini, giovani e anziani, perché votino e si impegnino durante il periodo pre-elettorale e alle elezioni europee”. Il messaggio arriva a 100 giorni dal voto per il rinnovo del Parlamento europeo ed è intitolato “Ricostruire comunità in Europa” (“Rebuilding community in Europe”).
Evitare lo sguardo ripiegato. Il voto dei cittadini, chiamati alla “responsabilità” politica, scrive la Comece, presieduta da mons. Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo, “condizionerà decisioni politiche che avranno conseguenze tangibili sulla nostra vita quotidiana per i prossimi cinque anni”. È da “più di duemila anni” che la Chiesa cattolica “partecipa alla costruzione europea”, in particolare “con la sua Dottrina sociale”. E quindi, i vescovi si rivolgono proprio ai cittadini europei in questa fase che precede le elezioni per il rinnovo del Parlamento: se “l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha aperto un ampio ventaglio di nuove possibilità”, dieci anni fa, oggi sembra dominare un “atteggiamento meno ottimistico”. Si impongono dunque necessarie “scelte politiche” che portino a “una rinnovata fratellanza” e “rilancino il progetto europeo”. Fondamentale è che “i credenti e tutte le persone di buona volontà” vadano a votare, “senza cadere nella tentazione di uno sguardo ripiegato” e che “esercitino i loro diritti guardando alla costruzione dell’Europa”.
“Non è perfetta…”. Manifestando le proprie opinioni politiche, ogni persona potrà “orientare l’Unione” – che “non è perfetta” – là dove vogliono che vada. Oggi serve “una nuova narrativa di speranza che coinvolga i cittadini in progetti percepiti come più inclusivi e al servizio del bene comune”, indicano i vescovi. Occorre però innanzitutto l’espressione del voto, perché “ogni voto conta” nello scegliere persone che da maggio in poi “rappresenteranno le nostre opinioni politiche”. E occorrerà che, dopo le elezioni, i cittadini “in modo democratico monitorino e accompagnino il processo politico”.
Campagna elettorale. Guardando al futuro prossimo dell’Ue i vescovi affermano che i cittadini e le istituzioni Ue avranno bisogno di “spirito di responsabilità” per “lavorare insieme per un comune destino”, “superando divisioni, disinformazione e strumentalizzazione politica”. Il riferimento dei vescovi Comece nel loro documento è alla campagna elettorale, che dovrà concentrarsi sulle “politiche Ue” e su come i candidati “sapranno elaborarle e concretizzarle”. L’auspicio è che si “presentino le differenti visioni” evitando “sterili contrasti”.
La questione migratoria. Qualità necessarie per “coloro che vorranno assumersi un mandato a livello Ue” sono “integrità, competenza, leadership e impegno per il bene comune”. I vescovi indicano inoltre alcuni temi che stanno loro particolarmente a cuore: “l’economia sociale”, politiche per ridurre la povertà, basate sul principio per cui “ciò che funziona per i meno fortunati, funziona per tutti”, insieme a “un rinnovato sforzo per trovare soluzioni efficaci e condivise su migrazioni, asilo e integrazione”. A questo riguardo due le sottolineature: l’integrazione “non riguarda solo le persone che entrano nell’Ue”, ma “anche i cittadini Ue che si spostano in un Paese diverso dal loro”, quindi la questione di fondo è “come accogliersi meglio gli uni gli altri in Europa?”. In secondo luogo, i temi della migrazione e dell’asilo non sono a sé stanti, ma sono legati ai temi della “solidarietà, a una prospettiva centrata sulla persona, a politiche economiche e demografiche efficaci”.

Ambiente, pace, diritti. “Votare in queste elezioni significa anche assumersi la responsabilità per il ruolo unico dell’Europa a livello globale. Il bene comune è più grande dell’Europa”, si legge nel messaggio Comece. “Ad esempio, l’attenzione per l’ambiente e lo sviluppo sostenibile – scrivono i vescovi europei – non possono essere limitati ai confini dell’Ue e i risultati elettorali avranno un impatto sulle decisioni che riguardano l’intera umanità”. Una “Unione forte sulla scena internazionale è anche necessaria per la promozione e la protezione dei diritti umani in tutti i settori e per un solido contributo dell’Ue come attore multilaterale per la pace e la giustizia economica”. Dopo aver citato un intervento di Papa Francesco sul futuro dell’Europa, il documento prosegue così: “Le elezioni potrebbero essere solo un primo passo, ma il più necessario”. “Chiediamo a tutti i cittadini, giovani e meno giovani, di votare e impegnarsi” in vista del voto. Il documento conclude: “Il voto non è solo un diritto e un dovere, ma un’opportunità per plasmare concretamente la costruzione europea”.

da AVVENIRE


sabato 16 febbraio 2019

LE BEATITUDINI CARTA DI IDENTITÀ' E PROGRAMMA DI VITA PER OGNI CRISTIANO

Papa Francesco: «”Come si fa per diventare un buon cristiano?”, qui troviamo la risposta di Gesù che ci indica cose “tanto controcorrente” rispetto a quello che abitualmente “si fa nel mondo”»

Dal Vangelo secondo Luca: 
In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne. 
Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:
«Beati voi, poveri,
perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi, che ora avete fame,
perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete,
perché riderete.
Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.
Ma guai a voi, ricchi,
perché avete già ricevuto la vostra consolazione.
Guai a voi, che ora siete sazi,
perché avrete fame.
Guai a voi, che ora ridete,
perché sarete nel dolore e piangerete.
Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti».

Papa Francesco ha detto che le Beatitudini sono «la carta d’identità del cristiano». Commentando il Vangelo, il Pontefice ha chiesto: «”Come si fa per diventare un buon cristiano?”, qui troviamo la risposta di Gesù che ci indica cose “tanto controcorrente” rispetto a quello che abitualmente “si fa nel mondo”. Beati i poveri in spirito. “Le ricchezze non ti assicurano niente. Di più: quando il cuore è ricco, è tanto soddisfatto di se stesso, che non ha posto per la Parola di Dio».
LA CONSOLAZIONE DI GESU’. Il Mondo ci propone alcune gioie: «La felicità, il divertimento», ma «ignora, guarda da un’altra parte, quando ci sono problemi di malattia, problemi di dolore nella famiglia. Il mondo non vuole piangere, preferisce ignorare le situazioni dolorose, coprirle. Soltanto la persona che vede le cose come sono, e piange nel suo cuore, è felice e sarà consolata. La consolazione di Gesù, non quella del mondo. Beati i miti in questo mondo che dall’inizio è un mondo di guerre, un mondo dove dappertutto si litiga, dove dappertutto c’è l’odio. E Gesù dice: niente guerre, niente odio, pace, mitezza».
LE BEATITUDINI. La mitezza, oggi, ha proseguito Francesco, è intesa come «stoltezza». Invece è il contrario perché  «con questa mitezza avrai in eredità la Terra». Beati dunque quelli «che lottano per la giustizia, perché ci sia giustizia nel mondo. È tanto facile entrare nelle cricche della corruzione, quella politica quotidiana del do ut des. Tutto è affari. E quante ingiustizie. Quanta gente che soffre per queste ingiustizie». Ma Gesù dice: «Sono beati quelli che lottano contro queste ingiustizie». Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. I misericordiosi sono «quelli che perdonano, che capiscono gli errori degli altri, perché tutti noi siamo un esercito di perdonati! Tutti noi siamo stati perdonati. E per questo è beato quello che va per questa strada del perdono. Beati i puri di cuore, che hanno un cuore semplice, puro, senza sporcizie, un cuore che sa amare con quella purità tanto bella. Beati gli operatori di pace. Ma, è tanto comune da noi essere operatori di guerre o almeno operatori di malintesi! Quando io sento una cosa da questo e vado da quello e la dico e anche faccio una seconda edizione un po’ allargata e la riporto… Il mondo delle chiacchiere. Questa gente che chiacchiera, non fa pace, sono nemici della pace. Non sono beati».
PROGRAMMA DI VITA. Questo delle Beatitudini, ha detto Bergoglio, «è il programma di vita che ci propone Gesù. Se noi volessimo qualcosa di più, Gesù ci dà anche altre indicazioni, un protocollo sul quale noi saremo giudicati», che è contenuto nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo: «Sono stato affamato e mi hai dato da mangiare, ero assetato e mi hai dato da bere, ero ammalato e mi hai visitato, ero in carcere e sei venuto a trovarmi». Così «si può vivere la vita cristiana a livello di santità. Poche parole, semplici parole, ma pratiche a tutti, perché il cristianesimo è una religione pratica: non è per pensarla, è per praticarla, per farla. Oggi, se voi avete un po’ di tempo a casa, prendete il Vangelo, il Vangelo di Matteo, capitolo quinto, all’inizio ci sono queste Beatitudini; capitolo 25, ci sono le altre. E vi farà bene leggerlo una volta, due volte, tre volte. Ma leggere questo, che è il programma di santità. Che il Signore ci dia la grazia di capire questo suo messaggio».



I BAMBINI CI GUARDANO. Un maestro racconta.

Lorenzoni e la scuola 
che insegna la realtà
Fra il romanzo, il saggio e l’inchiesta, un libro che si muove sulla falsariga di classici della letteratura scolastica come Lodi, Mosca e Bernardini: un maestro racconta l’esperienza sul campo in una classe della provincia italiana con bambini provenienti da varie culture. Lezioni costruite su fatti concreti collegati a grandi personaggi della storia e dell’attualità per ridare alle nuove generazioni il gusto di fare domande
È necessario raccontare i bambini e i ragazzi di oggi, non con il taglio di chi fa ipotesi su di loro, ma attraverso lo sguardo e le riflessioni di chi con loro ha vissuto quotidianamente, li ha coinvolti in progetti che allargano le prospettive delle discipline, ha ascoltato e trascritto le loro parole, facendole diventare parte di un lungo racconto che è ben più di una cronaca, ma si trasforma in un romanzo- saggio corale dove si alternano innumerevoli voci. Sono quelle del maestro che racconta le esperienze degli ultimi cinque anni di scuola, seguendo un ordine non di sola natura diaristica, ma che offre partenze, rimandi, momenti di racconto di esperienze significative, punti di arrivo di un percorso costruito insieme alla propria classe, in un momento storico in cui diventa sempre più complesso creare delle relazioni.
È ciò che racconta Franco Lorenzoni, in questo libro, tanto intenso, quanto profondo dal punto di vista civile, di quelli che non si leggevano, per novità e ricchezza di contenuti, dai tempi delle esperienze di Mario Lodi o di Albino Bernardini ( Un anno a Pietralata), 'classici' di una letteratura- verità, fondata sull’umano, degli anni Settanta. In un succedersi di esperienze, di pensieri e di dialoghi Lorenzoni propone il senso di un viaggio compiuto in una classe elementare della scuola di Giove, il piccolo paese umbro che si affaccia sulla valle del Tevere.
Lorenzoni scrive che «per noi maestri e maestre elementari la crescente disomogeneità che abita le nostre classi, non solo riguardo alle provenienze geografiche dei bambini, costituisce la principale sfida, per affrontare la quale non finiamo mai di allenarci ». Così è necessario che l’avventura pedagogica, «per far spazio a un futuro diverso e migliore », ha bisogno di navigare necessariamente controvento, cambiando le prospettive, facendo sì che i ragazzi rappresentino la verità da cui partire per giungere alla conoscenza, per farsi un’immagine del mondo che non sia stigmatizzata su concetti stereotipati o su luoghi comuni, ma che si avvalga dell’arte dell’incontro come strumento di crescita e di costruzione di una futura e possibile forma di nuova moralità.
E ancora ritroviamo il senso di questa esperienza e la profondità del libro che la racconta in queste riflessioni: «La geografia che oggi abita le nostre classi ci offre una possibilità inedita di riflettere e di ricercare intorno allo stato delle condizioni umane nelle diverse latitudini del pianeta che abitiamo. Quando riusciamo a prenderci tempo e sostare a lungo attorno a domande cruciali, memorie di lingue diverse e molteplici storie possono intrecciarsi e ravvivare lo studio, aiutandoci a comprendere meglio ciò che si muove nel mondo » .
Lorenzoni crea situazioni che attingono al passato, le fa riconoscere ai ragazzi e al contempo ne riporta la lezione nel presente. Fa diventare persone vive il primo storico, Erodoto, chiama in causa la lezione di Gandhi e al contempo ne confronta gli esiti di ricerca con i giocattoli africani che vengono portati in classe dai ragazzi, analizzando la realtà della Somalia, di cui indaga la situazione socio-culturale attraverso la lettura di articoli che aiutano a capire cosa sia lo Stato: «Studiando alcuni articoli della nostra Costituzione e ragionando sulla separazione dei poteri, il confronto con la situazione politica in Somalia ci ha fatto capire quanto sia difficile e duro vivere in un Paese senza Stato».
Molti sono i grandi temi trattati e stupisce, nella lettura delle produzioni infantili riportate, il grado di autenticità e di bellezza cui possono giungere i bambini quando affrontano parole per temi non convenzionali, come la relazione tra guerra e pace, violenza e non violenza, maschile e femminile. E ancor più numerosi sono gli incontri fatti in questo viaggio, oltre ai già ricordati Erodoto e Gandhi, Pericle, Socrate, Aristofane, Ipazia, Martin Luther King, ma anche Malala e Leyman Gbowee, l’attivista africana, premio Nobel per la pace, che aveva guidato una rivolta delle donne contro gli uomini, che costringevano i bambini a combattere in una guerra civile in Liberia. Anche se resta nella mente un’altra figura, quella di Aylan, il piccolo bambino curdo morto affogato e fotografato sul bagnasciuga dell’isola di Kos. È un’immagine che emerge all’inizio della terza elementare, mentre tutti i ragazzi della classe condividono le memorie dell’estate, momenti felici e altri comici, ma anche questa figura drammatica che interroga sul perché dell’emigrare; ne nasce un lungo percorso di riflessione che arriva fino a Giotto e a una scritta che comparirà in grande sulle pareti della classe: « Il mar Mediterraneo è la spaccatura di Giotto » , indicazione nata da un incrocio di riflessioni, a partire da La cacciata dei demoni da Arezzo.
Si tratta di un viaggio che non smette di stupire, che racconta e interroga, che riafferma il bisogno di una pedagogia non solo a scuola per ritornare a far pensare i bambini, per costruire le coscienze di un futuro che non si vorrebbe vada perduto. La scuola, così come è stata vissuta da Lorenzoni, è come l’arte: «Non offre spiegazioni, ma dona immagini capaci di moltiplicare le nostre domande. Esattamente ciò di cui abbiamo bisogno a scuola, se vogliamo educare bambine e bambini a diffidare di ogni facile semplificazione».
Franco Lorenzoni, I bambini ci guardano, Sellerio, 2019, pagg. 334, €  14




EDUCAZIONE. GARANTIRE A TUTTI PARI OPPORTUNITÀ'. Documento delle Associazioni professionali.

FONADDS

Forum delle Associazioni professionale dei Docenti e dei Dirigenti
Istituito con Decreto Ministeriale prot. n. 189 del 2 marzo 2018

Onorevole   Ministro,  come  Lei  sa  bene  l’art.34  della  nostra  Costituzione garantisce  a  tutti  i  cittadini  il  diritto  all’istruzione  e  affida  alla  Repubblica  il dovere  di  rendere  effettivo  questo  diritto.  Perché  questo  sia  realizzabile  lo Stato,  nell’art.  3,  si  assume  il   compito  di   rimuovere  gli  ostacoli  di  ordine economico  e  sociale,  che,  limitando  di  fatto  la  libertà  e  l'eguaglianza  dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana... La Repubblica e  il  suo  Ministero  in  particolare  devono  assumersene  concretamente l’impegno.
In nome di questi principi, onorevole Ministro, le chiediamo di dare a tutti gli studenti  della  Repubblica  le  stesse  opportunità  logistiche  e  organizzative come  i  servizi  educativi  per  l'infanzia,  come  il  tempo  pieno  e  il  tempo prolungato,  che  offrono  maggiori   e  migliori  opportunità  di  studio personalizzato  e  approfondito  soprattutto  a  chi  vive  in  situazioni  deprivate culturalmente…  I  dati  relativi  alla  dispersione  scolastica  e  ai  risultati  di apprendimento,  come  si  sa,  vanno,  infatti,  messi  in  correlazione  con  le condizioni  di  svantaggio  culturale  e  di  deprivazione  economico-sociale  del territorio  cui  fanno  riferimento.  In  quei  luoghi  i  docenti  lavorano,  inoltre,  in situazioni difficili sotto molti aspetti sociali e culturali.
Tutto  questo  Lei,  essendo  stato  un  insegnante,  siamo  sicuri  che  lo  sappia,  e ora che è Ministro ha l’opportunità, oltre che il dovere, di tradurlo in azione di governo.  Lei  sostiene  che  le  sue  parole  “Ci  vuole  più  impegno,  più  lavoro  e sacrificio  al  Sud  per  recuperare  il  gap  con  il  Nord,  non  più  fondi.  Vi  dovete impegnare  forte,  è  questo  che  ci  vuole”  siano  state  male  interpretate.  Le crediamo.
Insegnanti e alunni preparati e impreparati si trovano a tutte le latitudini del nostro Paese, ma le condizioni socio economiche influiscono enormemente e se  veramente  crede  in  ciò  che  ha  aggiunto  a  quelle  parole  “vogliamo  far sentire  la  nostra  presenza,  essere  vicini  ai  territori,  in  tutta  Italia,  al  Nord come  al  Sud.  Senza  distinzioni  .  Faccia  in  modo,  onorevole  Ministro,  che anche i giovani del Sud possano avere le stesse opportunità di quelli del Nord pretendendo  come  Ministro  della  Repubblica  che,  oltre  al  suo  dicastero, “tutte le istituzioni del territorio facciano la loro parte” eliminando o almeno riducendo al massimo le mille difficoltà che ostacolano il successo scolastico degli studenti dei territori più sofferenti.
Da  parte  nostra,  come  Forum  delle  associazioni  professionali  della  scuola, siamo  pronti  a  sostenerla  in  questo  impegno  e  a  collaborare,  attraverso  le nostre sezioni diffuse sul territorio nazionale, per dare a tutti i nostri cittadini uguali diritti e opportunità.


ADI – AIMC – ANDIS – APEF – Proteo Fare Sapere – CIDI - DIESSE — DISAL – FNISM – IRASE – IRSEF/IRFED - LEGAMBIENTE scuola e formazione – MCE - UCIIM


UN ACCORDO PER LE AUTONOMIE. CUI PRODEST?

  - di Giuseppe Savagnone *

L’accordo per le autonomie
La notizia di questi giorni che il governo sta per approvare un accordo che trasferisce a tre regioni del Nord – Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna – una serie di funzioni (con relativi budget finanziari), finora riservate allo Stato, può essere letta a vari livelli.
Uno è quello del metodo, per la verità ben poco democratico – e per nulla “populista” – che si è seguito. Dopo aver gridato a gran voce contro gli “inciuci” della “casta”, consumati sulle teste degli italiani, i partiti al governo si trovano oggi a discutere a porte chiuse una scelta che non potrà non avere una portata storica per il nostro Paese e conseguenze rilevantissime per la vita concreta delle persone.
Se, infatti, le tre regioni italiane più ricche potranno gestire i servizi fondamentali, avranno anche il diritto di trattenere all’interno dei loro confini quel surplus che deriva dal loro gettito fiscale e che attualmente viene redistribuito dallo Stato in modo da venire incontro ai bisogni delle altre regioni, in particolare di quelle meridionali, i cui bilanci sono invece in deficit. Non è un’ipotesi, ma una certezza, la previsione di un serio contraccolpo sulle economie già precarie di queste regioni.
La fine di un modello unitario statale: l’istruzione
Ma, dicevo, non è un problema solo economico. Trasferendo alle regioni che ne stanno facendo richiesta l’autonomia in ambiti decisivi come, per fare un esempio, l’istruzione, lo Stato italiano rinuncerà ad avere un modello unitario di scuola.
Potrà diventare diverso studiare in Lombardia o in Veneto e in Calabria o in Sicilia, come lo è oggi tra studiare in Italia e in Germania (potrà essere diversa anche l’offerta formativa).
Ma lo sarà anche insegnare: si parla già di stipendi più alti per i professori che lavoreranno al Nord e quelli del Sud. E, naturalmente, toccherà alle rispettive regioni stabilire le regole per l’assunzione, ivi inclusa la provenienza regionale dei candidati.
Del resto le motivazioni non mancheranno: fa parte dell’armamentario culturale della Lega il luogo comune che i “terroni” sono degli scansafatiche e dei parassiti.
Proprio a proposito di scuola, il ministro leghista dell’Istruzione Marco Bussetti, alla domanda di un cronista su come le scuole meridionali possano recuperare il gap con quelle del Nord, ha risposto che «ci vuole l’impegno del Sud, vi dovete impegnare forte».
E, all’insistenza del cronista che gli chiedeva se fosse previsto un piano di aiuti economici, si è visibilmente irrigidito: «Più fondi? No, più impegno: lavoro, sacrificio, impegno, lavoro e sacrificio».
Insomma, come titolava, «Libero» (vicino alla Lega), anche per i meridionali, dopo che per i migranti, «la pacchia è finita».
Il rischio della discrezionalità e delle discriminazioni
Ma a tutti i livelli, non solo a quello scolastico, bisogna spettarsi una ricaduta analoga del nuovo regime dell’autonomia. Ormai è prevedibile che nei bandi di concorso, nelle ammissioni a tutti i servizi, compresi quelli sanitari, possano scattare meccanismi di discriminazione che vanificherebbero la comune cittadinanza italiana, dando la precedenza a quella regionale.
Dopo il «Prima gli italiani», scatta (come ampiamente previsto dai pochi, inascoltati, che hanno fin dall’inizio diffidato delle promesse elettoralistiche di Salvini al Sud) la seconda fase: «Prima il Nord».
Roba di fronte a cui la riforma costituzionale proposta da Renzi e su cui si sono spesi fiumi di discorsi, sui giornali, in televisione, sui social, diventa ben poca cosa.
Mappa delle persone a rischio povertà nelle varie regioni, pubblicata dall’istituto tedesco BBSR
Il mancato ascolto dell’opinione pubblica
 Se c’era, dunque, una questione su cui sarebbe stato necessario un vastissimo coinvolgimento dell’opinione pubblica era proprio questa.
Invece, già il governo Gentiloni (che ha avviato la procedura) sia questo (che la sta portando a compimento) sono stati talmente riservati che solo all’ultimo momento si è cominciato a parlarne sui mezzi di comunicazione.
Si dirà che l’accordo deve ancora essere definito e che poi sarà necessaria l’approvazione del Parlamento. Ma chi ricorda che in Senato l’ultima legge di bilancio è stata approvata dai senatori senza che neppure avessero il tempo di eleggerla, e che alla Camera i deputati hanno dovuto votare senza avere quello discuterla, non può certo sentirsi rassicurato sulla possibilità di un vero confronto pubblico.
E, in ogni caso, la decisone resterà nelle mani di gruppi parlamentari di maggioranza che hanno dimostrato inequivocabilmente di dipendere totalmente dalla volontà dei loro leader, e dunque del governo di ci essi sono i (vice)premier.
Autonomia suona meglio di secessione
Un altro livello di lettura è quello riguarda il significato politico. Quella che si sta verificando ha potuto essere definita, da un serio economista studioso dei problemi Nord-Sud, Gianfranco Viesti, la «secessione dei ricchi».
La realizzazione, cioè, del programma che la Lega Nord aveva invano perseguito con Bossi partendo dalla periferia e attaccando “Roma ladrona”, questa volta attuato da Salvini a partire proprio dal centro dello Stato. Ha aiutato anche cambiare il nome: “autonomia” suona meglio di “secessione”…
L’utilità delle autonomie per lo sviluppo della nazione
Da parte del governo, a dire il vero, arrivano le più ampie rassicurazioni. Conte al termine della riunione di governo che ha trattato l’argomento, dopo aver sottolineato che «sull’autonomia c’è assoluta unanimità e pieno consenso», ha promesso che sarà lui il «garante della coesione nazionale; non sarà un percorso che arricchirà alcune regioni e ne impoverirà altre».
Senza i miliardi che per ora lo Stato eroga, attingendo alle entrate fiscali del Nord e reinvestendole al Sud, i meridionali saranno, secondo loro, molto più felici.
Perché anche loro, si fa notare, potranno chiedere la stessa autonomia che oggi viene data alla Lombardia, al Veneto e all’Emilia Romagna. «Mi auguro che questo percorso venga raccolto dalle regioni del sud», ha detto Salvini in conferenza stampa.
Già. Forse il nostro ministro degli Interni non ricordava che questa autonomia già la Sicilia ce l’ha fin dal dopoguerra e che essa non ha portato, finora, particolare felicità, anzi ha favorito corruzione, mafia e degrado economico.
Finora si era contato sull’aiuto dello Stato per cercare di vincere queste derive. Ora che ogni regione prende la sua strada, per la parte sana della popolazione si delinea un futuro sempre più problematico.
La Chiesa e il rapporto nord-sud
Un’ultima lettura può essere quella che guarda alla visione della Chiesa italiana, che si è molto occupata del rapporto tra Nord e Sud.
Già nel documento della CEI del 1989, Chiesa italiana e Mezzogiorno: sviluppo nella solidarietà, si era voluto riflettere «sulla “questione meridionale” come problema di tutto il Paese» (n.1) e si era notato che «la questione meridionale implica sostanzialmente l’esistenza di una crisi che è di tutto il Paese e non solo del Mezzogiorno» (n.8).
In continuità con questa impostazione, nel nuovo documento Per un Paese solidale, pubblicato poco più di dieci anni dopo, i vescovi osservano che oggi «affrontare la questione meridionale diventa un modo per dire una parola incisiva sull’Italia di oggi» (n.1).
I vescovi denunziavano senza mezzi termini una deriva culturale che «ha fatto crescere l’egoismo, individuale e corporativo, un po’ in tutta l’Italia, con il rischio di tagliare fuori il Mezzogiorno dai canali della ridistribuzione delle risorse, trasformandolo in un collettore di voti per disegni politico-economici estranei al suo sviluppo» (n.5).
Non si tratta, però, di scaricare i meridionali delle loro responsabilità. Già nel documento del 1989 ciò si diceva chiaramente: «Sono necessari, e doverosi, l’aiuto e la solidarietà dell’intera Nazione, ma in primo luogo sono i meridionali i responsabili di ciò che il Sud sarà nel futuro» (n.15).
Citando Giovanni Paolo II, il documento del 2010 dice la stessa cosa: «Spetta “alle genti del Sud essere le protagoniste del proprio riscatto, ma questo non dispensa dal dovere della solidarietà l’intera nazione”» (n.2).
Oltre l’assistenzialismo
Basta, dunque, col vittimismo e con l’assistenzialismo. L’aiuto che il Paese può e deve dare il Sud è di stimolarlo a trovare in se stesso le energie e le risorse per uscire dal degrado.
Ma questo, se da un lato esclude che si continui come si è fatto finora, richiede una più stretta e autentica collaborazione tra le regioni italiane: «Proprio per non perpetuare un approccio assistenzialistico alle difficoltà del Meridione, occorre promuovere la necessaria solidarietà nazionale» (n.8).
Mi sembra il contrario di ciò che si sta facendo. Invece di studiare progetti di intervento e di cooperazione tra Nord e Sud alternativi all’ “approccio assistenzialistico”, si abbandona il Meridione al suo destino. Accompagnando il gesto con parole di vago conforto, come si usa ai funerali.

*Direttore Ufficio Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo. Scrittore ed Editorialista.
            www.tuttavia.eu