di Massimo Recalcati
Ho con il territorio di Ancona
un rapporto personale di grande affetto che dura negli anni. Corinaldo è un
piccolo e bellissimo borgo marchigiano oggi sommerso dal dolore. Potrei leggere
la drammatica vicenda che ci ha tutti turbati come la conferma tragica delle mie
tesi sulla crisi diffusa del discorso educativo, sull’evaporazione del padre,
sulla lunga notte di Itaca che ci circonda, sulla diffusione di un godimento
nocivo alla vita.
Osservo invece con un certo sconcerto che quella maledetta
discoteca ci fotografa: spietatamente, crudelmente, traumaticamente. Nessuno di
noi è salvo. La caccia al colpevole, l’attribuzione delle responsabilità per
l’accaduto — pure, sottolineo, giusta e necessaria —, i giudizi di condanna nei
confronti di quei genitori e dei loro ragazzi sembrano aver innanzitutto
dimenticato che questo tempo è ancora il tempo del dolore. Alcuni ragazzi sono
gravi, le loro famiglie col fiato sospeso, il corpo straziato dei morti giace
senza sepoltura.
Eppure non c’è il silenzio necessario a ogni lutto, ma un
livore accusatorio che impressiona. Non tra i ragazzi, ma tra gli adulti.
Genitori e cosiddetti immancabili esperti, dalle tribune dei media e dei social,
spiegano come dovrebbero comportarsi i veri genitori, quelli seriamente
responsabili del proprio ruolo educativo. Altri commentatori accusano invece
l’artista di inneggiare, nelle sue canzoni, allo sballo e alla dissipazione,
accanendosi con le autorità che non avrebbero adempiuto ai loro ruoli nel
garantire la sicurezza della struttura. In questo modo il rispetto per il lavoro
doloroso del lutto di famiglie spezzate dal dolore e dalla perdita viene
brutalmente calpestato.
Non c’è senso della comunità, condivisione, solidarietà,
presenza, ma, come avviene tristemente e non casualmente anche nella nostra vita
politica, l’attribuzione proiettiva e feroce della colpa che è sempre
dell’altro. Non ci accorgiamo di essere come quelli che gettano spray urticante
negli occhi dei vicini per accaparrarci un po’ di spazio o un oggetto di valore?
È evidente che una seria riflessione sul tema dell’educazione si deve fare, ma
non ora, non adesso, non in questi termini trascurando i tempi psichici che
l’elaborazione simbolica di ogni lutto esige. Trascurando il dramma della
bambina di 11 anni che ha chiesto a sua madre di essere accompagnata al concerto
prima di vederla morta. Chi ha cura dei suoi pensieri? Chi, prima di giudicare
pubblicamente sua madre, pensa, anche solo per un attimo, a come sta questa
bambina, a quali sensi di colpa possono tormentarla?
Lo sappiamo: la ragione
ultima, quella più decisiva, all’origine della tragedia è, oltre alla presenza,
sempre minoritaria, di una microcriminalità giovanile, la spinta al profitto che
ha generato il fenomeno fatale e determinante del sovraffollamento dei locali.
Ma noi siamo davvero indenni da questa spinta? Noi adulti diamo testimonianza di
quanto, per esempio, la lettura e la cultura, l’amore e la solidarietà, valgano
più dell’accesso a un guadagno facile o dell’inganno del prossimo? Sappiamo dare
testimonianza ai nostri figli che la Legge del mercato non è la sola Legge
possibile per l’umano? Siamo in grado di farlo?
L’educazione è una cosa seria:
non è l’apprendimento di regole esterne, né si può ridurre al sentimento del
loro rispetto. Il grande compito del processo educativo è quello di rendere
possibile l’incorporazione del senso umano della Legge che è irriducibile a ogni
regola. Il corteo paternalista delle voci che richiamano il rispetto delle
regole e dell’autorità sembra purtroppo manifestarsi come “pensiero unico”.
Una
lunga tradizione disciplinare (pre-Sessantotto) gli dà vigore: meglio
prendersela con la cattiva musica che suscita cattivi modelli che con il modello
di vita che noi stessi proponiamo. Infatti: quale modello di vita siamo stati e
siamo in grado di offrire ai nostri figli? Gli consegniamo in eredità un mondo
senza prospettive, senza lavoro, un corpo morto e vorremmo che loro fossero la
manifestazione grata, vitale e positiva del desiderio.
Quando, chiediamoci, i
limiti che oggi gli adulti responsabili invocano, acquistano davvero senso? In
un tempo come il nostro che discredita continuamente i limiti essi possono
esistere solo se gli adulti per primi ne danno testimonianza credibile facendoli
esistere innanzitutto nella loro stessa vita. Questo è l’essenziale. Essenziale
non è il giudizio di condanna; essenziale è sempre da quale pulpito viene la
predica.
Fonte; La Repubblica, 11 dicembre 2018
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