di Marco Impagliazzo
La Giornata internazionale dell’alfabetizzazione, istituita
nel 1965 dall’Unesco, ha come tema quest’anno «Alfabetizzazione e
pace». Si tratta di un’indicazione autorevole: vincere la sfida
dell’istruzione, fin nei suoi primi passi, è vantaggioso non solo per
chi è escluso da quella grande libertà che è poter leggere e scrivere,
ma per chiunque, anche in società più sviluppate come la nostra.
La strada per vincere le tensioni, sanare le contrapposizioni,
prevenire la violenza, mettere fine ai conflitti, passa anche per lo
sforzo di garantire a tutti l’istruzione. L’analfabetismo è una
condizione non residuale. Si calcola in 7-800 milioni, in special modo
donne e bambine, il numero di chi non sa leggere e scrivere: un decimo
della popolazione mondiale, cui è negato un diritto fondamentale, di cui
è lesa profondamente la dignità. Una ferita aperta, che significa più
arretratezza, emarginazione, povertà, caos; minore possibilità di
avviare quel circolo virtuoso fatto di sviluppo, partecipazione,
convivenza civile. Un caso particolare di questa fetta dell’umanità,
quasi un continente, che vive il dramma dell’analfabetismo riguarda le
decine di milioni di rifugiati che – al contrario di quanto una vulgata
nostrana tende a dire – sono accolti da Paesi in via di sviluppo (che
già fanno fatica a garantire l’istruzione ai propri cittadini). Un
recentissimo rapporto dell’agenzia Onu per i rifugiati, dal titolo
'Invertire la rotta', calcola quattro milioni di bambini sradicati dalla
guerra o da condizioni ambientali avverse che non frequentano la
scuola, una cifra accresciutasi di ben 500mila unità nel solo 2017.
«L’istruzione aiuta i bambini a guarire dalle loro ferite, ma è anche
la via per ricostruire i Paesi da cui fuggono», ha detto Filippo Grandi,
alto commissario Onu per i Rifugiati. Sono parole che fanno eco a
quelle della giovane pachistana Malala, premio Nobel per la Pace: «Un
bambino, un maestro, una penna e un libro possono fare la differenza e cambiare il mondo».
Riflettendo sul tema della giornata, viene da pensare a tutti coloro
che creano nel mondo scuole per bambini nei campi per rifugiati:
personalmente ne ho conosciute alcune in Congo e in Nord Uganda. Posso
dire che rappresentano la scommessa di ripartire dalla normalità della
scuola, dalla semplicità dell’alfabeto, dell’essere insieme, dell’avere
maestri buoni per porre i primi mattoni della casa del futuro, per
rifondare vite che sarebbero disperse nel caos. A quei minori, che hanno
presente il solo modello del miliziano armato di kalashnikov o del
matrimonio precoce, si offre una nuova figura di riferimento, il maestro
che apre la porta della conoscenza e delle regole del vivere insieme.
Nel videomessaggio di papa Francesco per le intenzioni di preghiera di
questo mese si dice: «L’Africa è un continente ricco, e la ricchezza
più grande, più preziosa, sono i giovani.
Preghiamo perché i giovani del continente abbiano accesso all’educazione e al lavoro nel proprio Paese».
Un’intera generazione deve credere che nessuno è escluso dal domani, e
che quel domani può essere nella terra in cui si è nati. Per un mondo di
bambini, adolescenti, donne, rifugiati e non, l’alfabetizzazione, la
scuola sono insieme la restituzione del presente e l’acquisizione di una
chiave per il futuro. Per ciascuno, però, c’è un alfabeto da
recuperare, l’abc di una stagione di rispetto, collaborazione, unità in
un mondo sempre più spaesato, frantumato, diviso. Abbiamo tutti bisogno
di imparare l’alfabeto della convivenza.
Non solo il bambino, o il rifugiato. Rispetto al «cambiamento d’epoca»
di cui parla il Papa, la domanda è: come lo gestiremo senza gli
strumenti per comprenderci?
Senza un minimo di basi comuni? È interesse di ogni società e cultura
che nelle periferie del pianeta – e ai margini del nostro centro,
relativamente ricco – si faccia strada un alfabeto della cultura, dei
valori, di una fraternità più larga.
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