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venerdì 7 settembre 2018

PERCHE' LA SCUOLA SIA FEDELE A SE STESSA. IL CLIMA PUBBLICO E IL NUOVO ANNO SCOLASTICO.

       
 di Giuseppe Savagnone
     
In questi giorni, nelle diverse regioni del nostro Paese, si apre il nuovo anno scolastico. Un’occasione per chiedersi quale sia la funzione della scuola nella nostra società, in questo momento storico *. Ma il tema è così complesso e ampio che non ritengo superfluo dedicare ad esso anche la mia riflessione, sicuro di non dare luogo a ripetizioni. È il mio contributo a docenti, alunni, famiglie, che in questi giorni rimettono mano a un’impresa educativa che richiede, da parte di tutti, non solo un impegno spesso faticoso e comunque assorbente, ma anche una consapevolezza che deve sempre essere rinnovata nel confronto. È anche la mia testimonianza di fronte alla società – dopo quarantuno anni di insegnamento nella scuola statale –, della mia fiducia che solo l’educazione e la cultura, per quanto sempre più svalutate nell’opinione comune, possono aprire una prospettiva di soluzione ai problemi che incombono sul nostro Paese.
Di questo compito la scuola è la prima depositaria. Fermo restando il compito primario della famiglia di educare i propri figli, solo nell’istituzione scolastica questa educazione assume una specifica dimensione culturale, essendo per definizione veicolata dalla trasmissione dei saperi.
Ciò può avvenire però solo a certe condizioni, che non sempre forse sono state rispettate. Solo così si spiega come sia possibile la deriva che si manifesta in questi mesi sui social e su alcuni giornali, segnando un evidente imbarbarimento dello stile della nostra convivenza civile e del dibattito pubblico.
La prima di queste condizioni è che la scuola chiarisca a se stessa e a chi la frequenta che il suo obiettivo fondamentale non è l’ascolto delle lezioni (con relativi appunti) né lo studio dei libri. Troppo spesso questo equivoco ha indotto e induce generazioni di docenti e di alunni a puntare su un faticoso quanto sterile lavoro di assimilazione, più o meno intelligente, di discorsi e di pagine scritte. Oggi una variante di questa deformazione è il ricorso a internet e alle informazioni contenute su Wikipedia. Ma la sostanza è la stessa.
Si deve a questo errore di prospettiva se ragazzi e ragazze capaci di esporre correttamente il contenuto dei manuali in uso per le diverse discipline scolastiche, non sono poi in grado di utilizzare queste conoscenze per una lettura critica della realtà e della società in cui sono quotidianamente immersi, lasciandosi irretire nell’onda delle fake-news. Una scuola libresca rischia di essere un filtro, invece che un varco aperto, rispetto al mondo reale. I libri, gli appunti, non devono essere quadri da guardare per se stessi, immagazzinandone i particolari nella memoria (quante volte nelle verifiche ci si aiuta col ricordo della collocazione di una notizia nella pagina, in basso, sotto la figura…), ma finestre. Cosa è una finestra? Al netto degli infissi, nient’altro che un buco nel muro, un vuoto, un nulla. Nessuno guarda una finestra in se stessa. Si cerca con gli occhi, attraverso di essa, ciò che sta fuori.
È il gusto dell’incontro con la realtà che dovrebbe sempre animare lo studio dello studente ma, prima ancora, la lezione del professore. Nessuna cosa dovrebbe essere insegnata o appresa arrestandosi alle parole, dette o stampate – o allo schermo del tablet –: si tratti di una pagina di letteratura, di una legge della fisica, di un fatto storico, di una teoria filosofica, la domanda dovrebbe sempre essere: ma è veramente così? Che cosa vuol dire questo “concretamente”, nella mia esperienza? come potrei tradurlo nei termini della mia vita quotidiana?
Strettamente legata a questa prima condizione è una seconda, che è il superamento della distanza tra la scuola e la vita. Il dramma della nostra istituzione scolastica spesso è l’oscillazione perversa tra cinque o sei ore di cultura senza vita, la mattina, e nove o dieci ore di vita senza cultura il pomeriggio e la sera. Durante le prime, gli studenti si aggirano – i migliori interessati e incuriositi, gli altri annoiati e distratti – tra gli immensi e ammirevoli monumenti della cultura umana (la Divina Commedia, la filosofia di Platone o di Hegel, le opere di Caravaggio, le grandi leggi della fisica), senza minimamente collegarli a ciò che per loro è importante nella vita. Poi, al suono dell’ultima campana, si riversano felici fuori dalle aule per cominciare finalmente la loro “vera” giornata, fatta di videogiochi, serie televisive, incontri di comitiva in cui chi per caso menzionasse Dante o Hegel susciterebbe risa di derisione e bollato come secchione. Perché quelle della mattina siano ore “della vita”, bisogna che il discorso culturale sia impostato in modo da evidenziare questo nesso. Solo allora il pomeriggio e la sera esso potrà trovare cittadinanza e diventare fermento di inquietudine e di riflessione su ciò che accade nella vita privata e in quella pubblica.
Una terza condizione è che la scuola sia fedele al suo compito che non è solo di fornire conoscenze, ma di insegnare a pensare, a partire da esse, per collegarle tra loro in una sintesi che, da un lato, dia unità al mondo dello studente, dall’altro gli consenta di appropriarsene vitalmente, facendolo diventare il “suo” mondo. La diversità delle discipline scolastiche riproduce la frammentarietà dell’esperienza umana di un giovane. La scuola ha il compito di insegnargli a trovare i nessi profondi che, senza omologare questa molteplicità, restituisca ad entrambe un significato unificante. Possono emergere così le contraddizioni, le falsità, i compromessi.
Una quarta condizione è che la scuola insegni a dialogare. Con questo termine intendo sia il momento dell’ascolto che quello della parola. Non si può parlare se non si è capaci di ascoltare, lasciando che la sua opinione rimetta in discussione le proprie certezze. Oggi tutti, più che parlare, strillano, coprendo a vicenda l’uno la voce dell’altro. Ma, proprio per questo, non dicono nulla. La scuola dovrebbe essere il luogo dove si aprono spazi di silenzio. Anche i compiti non dovrebbero essere sempre assegnati come un lavoro da svolgere. A volte sarebbe importante che il docente, invece di essere assillato dalla corsa a completare i programmi, dicesse ai suoi alunni: oggi non studiate troppe cose, vi lascio solo una poesia o un teorema o un pensiero filosofico, o un fatto storico, su cui dovete semplicemente fermarvi, in silenzio, a pensare. Impossibile? Io, quando insegnavo, l’ho fatto, e la scuola non è crollata.
            Una quinta condizione è che la scuola parli di politica, “faccia” politica, insegnando ai ragazzi e alle ragazze la responsabilità che ogni loro gesto, ogni loro parola, ogni loro silenzio, ha sulla comunità. E spiegando che i princìpi della Costituzione su cui si fonda la nostra convivenza democratica – che andranno ampiamente spiegati – sono affidati a loro, alla traduzione che essi devono farne già nella gestione degli organismi rappresentativi dei loro rispettivi istituti, e poi nella loro vita di cittadini. Oggi più che mai questo è urgente. Una scuola dove non si fa politica (che ovviamente non significa indottrinamento ideologico) genera – lo sappiamo perché sta accadendo – generazioni di persone che non capiscono nulla del funzionamento di una democrazia e che, invece di porsi il problema del bene comune, sfogano con rabbia le loro frustrazioni seguendo chi grida di più.
       E allora, auguri! Auguri di un buon anno scolastico, amici studenti (con le vostre famiglie), insegnanti, dirigenti e personale tutto della scuola!

*Come ha già fatto Maurizio Muraglia in un bell’articolo, pubblicato su «Tuttavia» poco tempo fa, 



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