In questi giorni, nelle diverse
regioni del nostro Paese, si apre il nuovo anno scolastico. Un’occasione per
chiedersi quale sia la funzione della scuola nella nostra società, in questo
momento storico *. Ma il tema è così complesso e ampio che non ritengo superfluo
dedicare ad esso anche la mia riflessione, sicuro di non dare luogo a
ripetizioni. È il mio contributo a docenti, alunni, famiglie, che in questi
giorni rimettono mano a un’impresa educativa che richiede, da parte di tutti,
non solo un impegno spesso faticoso e comunque assorbente, ma anche una
consapevolezza che deve sempre essere rinnovata nel confronto. È anche la mia
testimonianza di fronte alla società – dopo quarantuno anni di insegnamento nella
scuola statale –, della mia fiducia che solo l’educazione e la cultura, per
quanto sempre più svalutate nell’opinione comune, possono aprire una
prospettiva di soluzione ai problemi che incombono sul nostro Paese.
Di questo compito la scuola è la
prima depositaria. Fermo restando il compito primario della famiglia di educare
i propri figli, solo nell’istituzione scolastica questa educazione assume una
specifica dimensione culturale, essendo per definizione veicolata dalla
trasmissione dei saperi.
Ciò può avvenire però solo a certe
condizioni, che non sempre forse sono state rispettate. Solo così si spiega
come sia possibile la deriva che si manifesta in questi mesi sui social e su
alcuni giornali, segnando un evidente imbarbarimento dello stile della nostra
convivenza civile e del dibattito pubblico.
La prima di queste condizioni è che
la scuola chiarisca a se stessa e a chi la frequenta che il suo obiettivo
fondamentale non è l’ascolto delle lezioni (con relativi appunti) né lo studio
dei libri. Troppo spesso questo equivoco ha indotto e induce generazioni di
docenti e di alunni a puntare su un faticoso quanto sterile lavoro di
assimilazione, più o meno intelligente, di discorsi e di pagine scritte. Oggi
una variante di questa deformazione è il ricorso a internet e alle informazioni
contenute su Wikipedia. Ma la sostanza è la stessa.
Si deve a questo errore di
prospettiva se ragazzi e ragazze capaci di esporre correttamente il contenuto
dei manuali in uso per le diverse discipline scolastiche, non sono poi in grado
di utilizzare queste conoscenze per una lettura critica della realtà e della
società in cui sono quotidianamente immersi, lasciandosi irretire nell’onda
delle fake-news. Una scuola libresca rischia di essere un filtro, invece che un
varco aperto, rispetto al mondo reale. I libri, gli appunti, non devono essere
quadri da guardare per se stessi, immagazzinandone i particolari nella memoria
(quante volte nelle verifiche ci si aiuta col ricordo della collocazione di una
notizia nella pagina, in basso, sotto la figura…), ma finestre. Cosa è una
finestra? Al netto degli infissi, nient’altro che un buco nel muro, un vuoto,
un nulla. Nessuno guarda una finestra in se stessa. Si cerca con gli occhi,
attraverso di essa, ciò che sta fuori.
È il gusto dell’incontro con la
realtà che dovrebbe sempre animare lo studio dello studente ma, prima ancora,
la lezione del professore. Nessuna cosa dovrebbe essere insegnata o appresa
arrestandosi alle parole, dette o stampate – o allo schermo del tablet –: si
tratti di una pagina di letteratura, di una legge della fisica, di un fatto
storico, di una teoria filosofica, la domanda dovrebbe sempre essere: ma è
veramente così? Che cosa vuol dire questo “concretamente”, nella mia
esperienza? come potrei tradurlo nei termini della mia vita quotidiana?
Strettamente legata a questa prima
condizione è una seconda, che è il superamento della distanza tra la scuola e
la vita. Il dramma della nostra istituzione scolastica spesso è l’oscillazione
perversa tra cinque o sei ore di cultura senza vita, la mattina, e nove o dieci
ore di vita senza cultura il pomeriggio e la sera. Durante le prime, gli
studenti si aggirano – i migliori interessati e incuriositi, gli altri annoiati
e distratti – tra gli immensi e ammirevoli monumenti della cultura umana (la
Divina Commedia, la filosofia di Platone o di Hegel, le opere di Caravaggio, le
grandi leggi della fisica), senza minimamente collegarli a ciò che per loro è
importante nella vita. Poi, al suono dell’ultima campana, si riversano felici fuori
dalle aule per cominciare finalmente la loro “vera” giornata, fatta di
videogiochi, serie televisive, incontri di comitiva in cui chi per caso
menzionasse Dante o Hegel susciterebbe risa di derisione e bollato come
secchione. Perché quelle della mattina siano ore “della vita”, bisogna che il
discorso culturale sia impostato in modo da evidenziare questo nesso. Solo
allora il pomeriggio e la sera esso potrà trovare cittadinanza e diventare
fermento di inquietudine e di riflessione su ciò che accade nella vita privata
e in quella pubblica.
Una terza condizione è che la scuola
sia fedele al suo compito che non è solo di fornire conoscenze, ma di insegnare
a pensare, a partire da esse, per collegarle tra loro in una sintesi che, da un
lato, dia unità al mondo dello studente, dall’altro gli consenta di
appropriarsene vitalmente, facendolo diventare il “suo” mondo. La diversità
delle discipline scolastiche riproduce la frammentarietà dell’esperienza umana
di un giovane. La scuola ha il compito di insegnargli a trovare i nessi
profondi che, senza omologare questa molteplicità, restituisca ad entrambe un
significato unificante. Possono emergere così le contraddizioni, le falsità, i
compromessi.
Una quarta condizione è che la scuola
insegni a dialogare. Con questo termine intendo sia il momento dell’ascolto che
quello della parola. Non si può parlare se non si è capaci di ascoltare,
lasciando che la sua opinione rimetta in discussione le proprie certezze. Oggi
tutti, più che parlare, strillano, coprendo a vicenda l’uno la voce dell’altro.
Ma, proprio per questo, non dicono nulla. La scuola dovrebbe essere il luogo
dove si aprono spazi di silenzio. Anche i compiti non dovrebbero essere sempre
assegnati come un lavoro da svolgere. A volte sarebbe importante che il
docente, invece di essere assillato dalla corsa a completare i programmi,
dicesse ai suoi alunni: oggi non studiate troppe cose, vi lascio solo una
poesia o un teorema o un pensiero filosofico, o un fatto storico, su cui dovete
semplicemente fermarvi, in silenzio, a pensare. Impossibile? Io, quando
insegnavo, l’ho fatto, e la scuola non è crollata.
Una quinta condizione è
che la scuola parli di politica, “faccia” politica, insegnando ai ragazzi e
alle ragazze la responsabilità che ogni loro gesto, ogni loro parola, ogni loro
silenzio, ha sulla comunità. E spiegando che i princìpi della Costituzione su
cui si fonda la nostra convivenza democratica – che andranno ampiamente
spiegati – sono affidati a loro, alla traduzione che essi devono farne già
nella gestione degli organismi rappresentativi dei loro rispettivi istituti, e
poi nella loro vita di cittadini. Oggi più che mai questo è urgente. Una scuola
dove non si fa politica (che ovviamente non significa indottrinamento
ideologico) genera – lo sappiamo perché sta accadendo – generazioni di persone
che non capiscono nulla del funzionamento di una democrazia e che, invece di
porsi il problema del bene comune, sfogano con rabbia le loro frustrazioni
seguendo chi grida di più.
E allora, auguri! Auguri di un buon anno scolastico, amici studenti (con
le vostre famiglie), insegnanti, dirigenti e personale tutto della scuola!
*Come ha già fatto Maurizio Muraglia in un bell’articolo, pubblicato su «Tuttavia» poco tempo fa,
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