«Oddio, oddio, oddio, Dio
santo... ». La voce registrata in un video di un uomo che vedeva
crollare davanti a sé il Ponte Morandi sale a ogni sillaba di tono,
inorridita e incredula. Non è possibile – pare di sentire i pensieri
dell’uomo – deve essere un incubo. Non può, un colosso di cemento armato
e acciaio come quello, spezzarsi come un pezzo di gesso su una lavagna e
lasciare due monconi sospesi sul vuoto, e, sotto, macerie immani, su
cui i soccorritori si arrampicano, affannate febbrili formiche.
Genova, l’apocalisse sull’autostrada, almeno ventisei morti alle undici e trentasette di una vigilia di Ferragosto.
A pochi giorni dalla terribile esplosione di un’autocisterna sulla A14,
nei pressi di Bologna, dal divampare violentissimo e improvviso di
fiamme che solo per una grazia non hanno mietuto molte vittime.
L’apocalisse su strade familiari, che tante volte abbiamo percorso con
il solo fastidio del traffico intenso, o della coda alla cassa
all’autogrill; e non si tratta, poi, di attentati, ma di un attimo
appena di distrazione di un autista, forse, a Bologna, o, a Genova,
dell’incredibile cedimento di un pilastro di cemento armato che era lì,
apparentemente indistruttibile, da decenni.
Allora in noi che stiamo a guardare può sorgere interiormente un oscuro
spavento. Perché ogni giorno progettiamo, disponiamo, parliamo come
fossimo i sicuri padroni della nostra vita. Ma in un momento simili
eventi – così vicini, così tragici – ci contraddicono duramente.
Forse in verità noi non ci apparteniamo. Come non ci appartengono i
nostri figli, su cui vegliamo, che in ogni modo vorremmo proteggere.
Nulla è nostro davvero.
In questi giorni d’estate proprio quei figli sono in viaggio tra
autostrade e ferrovie. Li salutano i genitori alla partenza, e quasi
sempre c’è nel cuore delle madri un angolo segreto di trepidazione. I
padri, che sono uomini, ne sorridono. Ma forse nella natura femminile
c’è un’intuizione vera, nel saperci in fondo fragili e inermi – e
garantiti, in realtà, di niente.
Ritorneremo, fra pochi giorni, dalle vacanze. E magari nel
superare un’autocisterna carica di infiammabili una ruga sottile ci
incresperà la fronte; e magari dall’alto di un viadotto vertiginoso
sull’Appennino ci torneranno negli occhi le immagini di Genova, e noi a
scacciarle, rapidi, ad alzare lesti il volume di una radio che discorre
di rassicuranti banalità. Nella lingua che molti di noi sono abituati a
parlare: vacanze, soldi, star, tv, pallone. Quasi non volendo sentire
altro.
L’incidente di
Bologna, la strage di Genova sono come una lama aguzza nel nostro quieto
vivere, proprio perché così prossime, domestiche, eppure imprevedibili.
Evocano il timore di un caso maligno che ci stia a spiare e faccia
scattare la sua tagliola; mentre quel camion bianco sul Ponte Morandi si
è fermato a trenta centimetri dal baratro, intatto, chissà perché.
Riscoprirsi cristiani davanti alle immagini di Genova devastata – e al
commovente spettacolo dei soccorritori tesi a cogliere ogni fiato di
voce delle vittime dalle macerie – è anche fermarsi e ricordarsi che non
siamo in un labirinto cieco, ma dentro un disegno, anche se spesso quel
disegno ci risulta profondamente misterioso, o addirittura
intollerabile.
Riscoprirsi cristiani davanti a una sciagura come questa è anche far
memoria ogni mattina che questa vita ci è stata data, non è nostra, e la
renderemo. Una consapevolezza ferma e in pace che non sempre cancella,
ma doma almeno la paura dell’imprevedibile, del Caso, delle Parche che
secondo gli antichi capricciosamente traevano il filo della umana
esistenza.
Ricordo
un’anziana albergatrice sarda – ormai quasi solo i vecchi sanno parlare
in un certo modo – che al mio saluto, a settembre: «Arrivederci all’anno
prossimo», rispose con un sorriso mite: «Se Dio vuole, ci rivedremo». Se Dio vuole.
Occorre fidarsi di un Dio che ci conosce, uno per uno. E non dar retta a
chi invece ci millanta padroni e signori del nostro destino. Perché, in
realtà, non siamo padroni di niente.
da " www.avvenire.it "
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