Lo scandalo di vedere
Dio come uno di noi
In quel
tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti,
ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste
cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come
quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di
Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue
sorelle, non stanno qui da noi?».
Ed era
per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è
disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E
lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi
malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù
percorreva i villaggi d'intorno, insegnando. [...].
Di seguito il commento di Enzo Bianchi.
Il brano
evangelico di questa domenica ci interroga soprattutto sul nostro
atteggiamento abituale, quotidiano: atteggiamento che in profondità non
spera nulla e dunque non attende nessuno; e soprattutto, atteggiamento
che non riesce a immaginare che dal quotidiano, dall’altro che ci è
familiare, da colui che conosciamo possa scaturire per noi una parola
veramente di Dio.
Non abbiamo
molta fiducia nell’altro, in particolare se lo conosciamo da vicino,
mentre siamo sempre pronti a credere allo “straordinario”, a qualcuno
che si imponga. Siamo talmente poco muniti di fede-fiducia, che
impediamo che avvengano miracoli perché, anche se questi avvengono, non
li vediamo, non li riconosciamo, e dunque questi restano eventi
insignificanti, segni che non raggiungono il loro fine.
Questo, in
profondità, il messaggio del vangelo odierno, una pagina che riguarda la
nostra fede, la nostra disponibilità a credere. Gesù era nato da una
famiglia ordinaria: un padre artigiano e una madre casalinga come tutte
le donne del tempo. La sua era una famiglia con fratelli e sorelle, cioè
parenti, cugini, una famiglia numerosa e legata da forti vincoli di
sangue, come accadeva in oriente.
Da piccolo,
come ogni ragazzo ebreo, Gesù ha aiutato il padre nei lavori, ha
giocato con Giacomo, Ioses, Giuda, Simone e con le sue sorelle, ha
condotto una vita molto quotidiana, senza che nulla lasciasse trasparire
la sua vocazione e la sua singolarità.
Poi a un
certo punto, non sappiamo quando, sono iniziati per lui quelli che
Robert Aron ha chiamato “gli anni oscuri di Gesù”, presso le rive del
Giordano e del mar Morto nel deserto di Giuda, dove vivevano gruppi e
comunità di credenti giudei in attesa del giorno del Signore, uomini
dediti alla lettura delle sante Scritture, alla veglia e alla preghiera.
Gesù a una
certa età raggiunse questi luoghi e qui divenne discepolo di Giovanni il
Battista (il quale lo definì “colui che viene dietro a me”: cf. Mc
1,7). Poi la chiamata di Dio e l’unzione dello Spirito santo lo spinsero
a essere un predicatore itinerante del Regno veniente, dando inizio al
suo ministero in Galilea, la terra in cui era stato allevato (cf. Mc
1,14-15).
E quando
ormai Gesù ha un gruppo di discepoli che vivono con lui (cf. Mc
3,13-19), passando di villaggio in villaggio per predicare, in giorno di
sabato entra nella sinagoga di Nazaret, “la sua patria”, la terra dei
suoi padri. Torna dopo molto tempo trascorso altrove, e gli abitanti del
villaggio lo ricordano come “figlio di” e “fratello di”.
Al momento
della lettura del brano della Torah (parashah) e dei profeti (haftarah),
Gesù, essendo un credente in alleanza con Dio, come ogni altro ebreo, e
avendo più di dodici anni, dunque in qualità di bar mitzwah, figlio del
comandamento, sale sull’ambone, legge le Scritture e commenta la
Parola. Non è sacerdote, non è un rabbi ufficialmente riconosciuto –
“ordinato”, diremmo noi – ma esercita questo diritto di leggere le
Scritture e tenere l’omelia.
A
differenza di Luca (cf. Lc 4,16-30), Marco non specifica né i testi
biblici proclamati né il contenuto del commento di Gesù, ma mette in
evidenza la reazione dell’assemblea liturgica che lo ha ascoltato.
D’altronde la sua fama lo ha preceduto: torna a Nazaret come un rabbi,
un “maestro” dai tratti profetici, capace di operare guarigioni, azioni
miracolose con le sue mani.
La prima
reazione è di stupore e ammirazione: è un bravo predicatore, ha
autorevolezza, la sua parola colpisce e appare ricca di sapienza. La
domanda che suscita è: “Da dove (póthen) gli vengono queste cose? E che
sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi operati dalle sue
mani?”.
Si
interrogano dunque sull’identità di Gesù, come già avvenuto nella
sinagoga di Cafarnao (cf. Mc 1,27), e la risposta potrebbe essere
un’adesione a Gesù nella fede, riconoscendo che in lui opera lo Spirito
santo (cf. Mc 1,10; 3,29-30); oppure un rigetto di Gesù, attribuendo al
demonio la sua forza nell’annunciare la Parola e nell’operare prodigi
(cf. Mc 3,22).
E in questo
stupore superficiale ecco emergere un’altra domanda: “Non è costui il
falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di
Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?”. Si tratta
in realtà di un interrogativo che contiene in sé una sfumatura
denigratoria. Gesù – si pensa – ha esercitato soltanto il mestiere di
falegname, dunque non è autorizzato a insegnare; inoltre è il figlio di
Maria, di lui si conosce il padre, che non viene nominato, e i suoi
familiari sono ben conosciuti, risiedono tuttora nel villaggio.
Dunque che
cosa pretende, che cosa vuole? Perché dovrebbe essere “altro”, o
qualcuno con una missione speciale? Sì, Gesù era un uomo come gli altri,
si presentava senza tratti straordinari, appariva fragile come ogni
essere umano. Così quotidiano, così dimesso, senza qualcosa che nella
sua forma umana proclamasse la sua gloria e la sua singolarità, senza un
“cerimoniale” fatto di persone che lo accompagnassero e lo rendessero
solenne e munito di potere nel suo apparire in mezzo agli altri.
No, troppo
umano! Ma se non c’è in lui nulla di “straordinario”, perché accogliere
il suo messaggio? Con ogni probabilità, Gesù non aveva neppure una
parola seducente, non si atteggiava in modo da essere ammirato o
venerato. Era troppo umano, e per questo “si scandalizzavano di lui”
(eskandalízonto en autô), cioè sentivano proprio in quello che vedevano,
in quella sua umanità così quotidiana, un ostacolo ad aver fede in lui e
nella sua parola.
Per questo
lo omologano a loro stessi, lo riducono alla loro statura e Gesù diventa
per loro un inciampo, uno scandalo che impedisce un incontro di
salvezza. Costoro sono fieri di conoscere Gesù umanamente, “secondo la
carne” (2Cor 5,16), ma in realtà impediscono a se stessi la sua vera
conoscenza.
Dunque quel
ritorno al villaggio natale è stato un fallimento. Gesù lo comprende e
osa proclamarlo ad alta voce: “Un profeta non è disprezzato se non nella
sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. Sì, questo è avvenuto:
proprio chi pretendeva di conoscerlo, in quanto concittadino, vicino o
familiare, giunge a non riconoscere la sua vera identità e finisce per
disprezzarlo.
Marco aveva
già annotato che all’inizio della sua predicazione i suoi familiari
erano venuti per prenderlo e portarlo via, dicendo che egli era pazzo,
fuori di sé (éxo: cf. Mc 3,21); ma ora è tutta la gente di Nazaret a
emettere questo giudizio negativo su di lui: il suo atteggiamento è
troppo umano, poco sacrale, poco rituale; non risponde ai canoni
previsti per discernere in lui un inviato di Dio, il Messia atteso.
Gesù allora
si mette a curare i malati là presenti, impone loro le sue mani e ne
guarisce solo qualcuno, ma è come se non avesse operato prodigi, perché
il miracolo avviene quando il testimone è disposto a passare
dall’incredulità alla fede. A Nazaret invece sono restati tutti
increduli, per questo Marco sentenzia: “non poteva compiere nessuna
azione di potenza ” (dýnamis). Gesù
è ridotto all’impotenza, non può agire nella sua forza, non può neanche
fare il bene, perché manca il requisito minimo, la fede in lui da parte
dei presenti.
Che torto
aveva Gesù? Rispetto a quei “suoi”, camminava troppo avanti agli altri,
teneva un passo troppo veloce, vedeva troppo lontano, aveva la
parrhesía, il coraggio di dire ciò che gli altri non dicevano, osava
pensare ciò che gli altri non pensavano, e tutto questo restando umano,
umanissimo, troppo umano!
In questo
episodio del vangelo marciano Gesù appare la sapienza misconosciuta; il
profeta non accolto proprio da coloro ai quali è inviato, disprezzato da
quanti gli sono più vicini; il guaritore che non può fare il bene
perché ciò gli è impedito dalla non accoglienza della sua azione che
dona salvezza.
Ecco ciò
che attende chiunque abbia ricevuto un dono da Dio, anche solo una
briciola di profezia: diventa insopportabile, e comunque domina la
convinzione che è meglio non fargli fiducia… Gesù “si stupisce della
loro mancanza di fede (apistía)”, e tuttavia resta saldo: continua con
fedeltà la sua missione in obbedienza a colui che lo ha inviato, andando
altrove, sempre predicando e operando il bene. Ma senza ricevere
fede-fiducia, Gesù non riesce né a convertire né a curare, e neppure a
fare il bene.
(tratto da www.monasterodibose.it)
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