LA FRAGILITÀ'
DI CIO' CHE E' PREZIOSO
DI CIO' CHE E' PREZIOSO
di Giuseppe Savagnone
Bisogna prendere atto
che, nel periodo di tempo successivo alle elezioni del 4 marzo, lo scenario
della vita politica italiana si è profondamente trasformato. Già durante le
consultazioni per la formazione del nuovo governo è cominciato ad apparire
chiaro che lo stile dei partiti usciti vincitori da quella consultazione non
era omogeneo a quello delle forze politiche tradizionali. Ciò poteva creare
stupore, in qualche caso irritazione, in chi era abituato ad altri toni e
comportamenti, ma rientrava ancora in una legittima dinamica di trasformazione
radicale, di cui si sentiva il bisogno e di cui i risultati elettorali erano
espressione, giustificando l’idea di trovarci alle soglie di una “Terza
Repubblica”.
Quello che invece è
suonato fin dall’inizio ben più allarmante è stata la tendenza delle forze
politiche egemoni a ignorare – volutamente o meno – le regole fissate dalla
Costituzione, ulteriormente precisate da una prassi ormai consolidata e sempre,
in passato, rispettata. L’episodio culminante – lo si ricorderà – è stata la
scomposta reazione del segretario leghista e di quello pentastellato ai
legittimi rilievi del presidente della Repubblica su un nome proposto nella
lista dei ministri. Già la pretesa di ridurre il ruolo del massimo garante
della democrazia repubblicana a una dimensione meramente notarile, scavalcando
peraltro il premier incaricato, ridotto al rango di mero spettatore della
controversia, era un chiaro campanello d’allarme.
Ma è stata solo
un’avvisaglia di ciò che stava per accadere. Fin dalla sua nascita, il governo
si è rivelato del tutto sbilanciato a favore della Lega, che pure aveva avuto
solo il 17% dei voti, ma che si è basata, per la sua crescente influenza, sui
sondaggi d’opinione che mostravano un crescente gradimento dell’opinione
pubblica nei confronti delle sue scelte. Il ministro dell’interno ha subito
parlato e si è comportato come se le sue personali opinioni dovessero dettare
la linea politica del governo, in aperto contrasto col ruolo che la
Costituzione e la prassi repubblicana assegnano ai membri del Consiglio dei
ministri sia nella loro relazione con il presidente del Consiglio stesso, sia
nei loro reciproci rapporti.
L’art. 95 della Carta
costituzionale è chiaro: «Il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la
politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di
indirizzo politico ed amministrativo, promovendo e coordinando l’attività dei
ministri. I ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio
dei ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri». Nessun singolo
ministro può sottrarsi a questa dimensione collegiale, la cui guida non spetta
ai singoli membri, ma solo al presidente del Consiglio. È quest’ultimo a
doversi pronunziare, in ultima istanza, sulle priorità politiche del Paese e
sulle scelte necessarie per farvi fronte.
Basta osservare ciò
che è accaduto in queste settimane per rendersi conto che questo dettato della
Costituzione è stato palesemente violato. L’ordine del giorno è stato imposto
unilateralmente da Salvini, che ha relegato il premier Conte e gli altri
ministri al ruolo di attoniti comprimari, prendendo le sue posizioni
nell’assoluto misconoscimento di ogni logica collegiale. Dove per “logica
collegiale” non si può intendere che gli altri vengano messi davanti al fatto
compiuto, ma che una linea politica venga discussa insieme prima di essere
assunta dal singolo ministro.
La deriva autoritaria
e monocratica che il nostro governo ha subìto in questo periodo di tempo è
stata evidenziata anche dal continuo intervento del ministro dell’interno nei
settori in cui sarebbero stati competenti (sempre sotto la direzione del premier)
i suoi colleghi. Così, le prese di posizione verso l’Europa, che toccano al
ministro degli esteri. Così la decisione di chiudere i porti, che compete al
ministro delle infrastrutture. Così le proposte sulla riforma fiscale, che
dipendono in realtà dal ministro dell’economia. Così, dopo lo sbarco di un
gruppo di migranti da una nave irlandese, l’annunciata volontà di ritirarsi
dalla missione militare internazionale a guida italiana, che rientra nella
sfera del ministro della difesa. Così le anticipazioni sull’obbligatorietà dei
vaccini, che ha suscitato la giusta protesta del ministro della salute.
In qualcuno di questi
casi – come nell’ultimo – c’è stata una sommessa reazione degli aventi diritto,
ma Salvini ha tenuto sempre a sottolineare che, alla fine, si farà come ha
deciso lui. «Voglio andare fino in fondo». Perché, ha sempre tenuto a ribadire,
si sente responsabile, per coerenza, nel fare quello che aveva promesso ai suoi
elettori.
Il problema è che un
governo deve rispondere non agli elettori di un suo componente (anche perché ci
sono pure gli altri…), ma al Paese. Per questo forse Salvini ha detto, in
qualche momento di euforia, di avere dietro le spalle la volontà di 60 milioni
di italiani. Solo che allo stato attuale egli, secondo le regole della democrazia
rappresentativa, ha il consenso, in realtà, del 17% di quelli che sono andati
alle urne il 4 marzo. E la sua ribadita volontà di “andare fino in fondo” nei
propri propositi, ha un senso solo in una logica che non è più quella dello
Stato repubblicano, ma di una presunta (sulla base dei sondaggi) “volontà
generale”, da cui il nostro attuale ministro dell’interno si sente incoronato a
guida della Nazione.
Il vero problema, alla
luce di questo quadro inquietante, non sono le politiche migratorie, ma il
senso dello Stato democratico così come la Costituzione lo ha concepito e
regolamentato. Sotto quest’ottica, i singoli temi hanno un’importanza relativa.
Salvini potrebbe anche cambiare idea sui migranti, o sui vaccini. Il punto è
che i suoi sostenitori gli attribuiscono il diritto di decidere per tutti. In
uno dei commenti che ho letto sui social, a proposito dell’intervento congiunto
del capo dello Stato e del presidente del Consiglio per consentire lo sbarco
dei 66 migranti bloccato sulla nostra motovedetta nel porto di Trapani, si
denunciava con indignazione l’“invasione di campo” da parte di Mattarella e di
Conte, nelle pretese competenze del ministro dell’interno! È solo un esempio.
Non sappiamo se
Salvini agisca per ignoranza o per disprezzo della Carta costituzionale. Quello
che è certo è che sono gli italiani a non avere idea di ciò che essa comporta.
Molti di loro non sembrano comprendere che le regole che essa pone non sono
mere sottigliezze formali, intralci a una libera espressione della volontà del
popolo, ma le condizioni, stabilite dalla comunità all’indomani della tragedia
del fascismo, per garantire la democrazia dalle pericolose ricadute in una
logica totalitaria. Oggi che viene misconosciuta e calpestata, noi prendiamo
più acutamente coscienza di quanto questa “Carta” sia fragile, di fronte
all’arroganza di chi si vuole imporre e alla incoscienza di chi la ritiene un
inutile impaccio; ma anche di quanto sia preziosa e insostituibile. Per questo
siamo tutti chiamati a difenderla. Prima che sia troppo tardi.
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