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lunedì 16 luglio 2018

COSTITUZIONE, DEMOCRAZIA, STILE DI GOVERNO


LA FRAGILITÀ' 
DI CIO' CHE E' PREZIOSO


di Giuseppe Savagnone

Bisogna prendere atto che, nel periodo di tempo successivo alle elezioni del 4 marzo, lo scenario della vita politica italiana si è profondamente trasformato. Già durante le consultazioni per la formazione del nuovo governo è cominciato ad apparire chiaro che lo stile dei partiti usciti vincitori da quella consultazione non era omogeneo a quello delle forze politiche tradizionali. Ciò poteva creare stupore, in qualche caso irritazione, in chi era abituato ad altri toni e comportamenti, ma rientrava ancora in una legittima dinamica di trasformazione radicale, di cui si sentiva il bisogno e di cui i risultati elettorali erano espressione, giustificando l’idea di trovarci alle soglie di una “Terza Repubblica”.
Quello che invece è suonato fin dall’inizio ben più allarmante è stata la tendenza delle forze politiche egemoni a ignorare – volutamente o meno – le regole fissate dalla Costituzione, ulteriormente precisate da una prassi ormai consolidata e sempre, in passato, rispettata. L’episodio culminante – lo si ricorderà – è stata la scomposta reazione del segretario leghista e di quello pentastellato ai legittimi rilievi del presidente della Repubblica su un nome proposto nella lista dei ministri. Già la pretesa di ridurre il ruolo del massimo garante della democrazia repubblicana a una dimensione meramente notarile, scavalcando peraltro il premier incaricato, ridotto al rango di mero spettatore della controversia, era un chiaro campanello d’allarme.
Ma è stata solo un’avvisaglia di ciò che stava per accadere. Fin dalla sua nascita, il governo si è rivelato del tutto sbilanciato a favore della Lega, che pure aveva avuto solo il 17% dei voti, ma che si è basata, per la sua crescente influenza, sui sondaggi d’opinione che mostravano un crescente gradimento dell’opinione pubblica nei confronti delle sue scelte. Il ministro dell’interno ha subito parlato e si è comportato come se le sue personali opinioni dovessero dettare la linea politica del governo, in aperto contrasto col ruolo che la Costituzione e la prassi repubblicana assegnano ai membri del Consiglio dei ministri sia nella loro relazione con il presidente del Consiglio stesso, sia nei loro reciproci rapporti.
L’art. 95 della Carta costituzionale è chiaro: «Il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promovendo e coordinando l’attività dei ministri. I ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri». Nessun singolo ministro può sottrarsi a questa dimensione collegiale, la cui guida non spetta ai singoli membri, ma solo al presidente del Consiglio. È quest’ultimo a doversi pronunziare, in ultima istanza, sulle priorità politiche del Paese e sulle scelte necessarie per farvi fronte.
Basta osservare ciò che è accaduto in queste settimane per rendersi conto che questo dettato della Costituzione è stato palesemente violato. L’ordine del giorno è stato imposto unilateralmente da Salvini, che ha relegato il premier Conte e gli altri ministri al ruolo di attoniti comprimari, prendendo le sue posizioni nell’assoluto misconoscimento di ogni logica collegiale. Dove per “logica collegiale” non si può intendere che gli altri vengano messi davanti al fatto compiuto, ma che una linea politica venga discussa insieme prima di essere assunta dal singolo ministro.
La deriva autoritaria e monocratica che il nostro governo ha subìto in questo periodo di tempo è stata evidenziata anche dal continuo intervento del ministro dell’interno nei settori in cui sarebbero stati competenti (sempre sotto la direzione del premier) i suoi colleghi. Così, le prese di posizione verso l’Europa, che toccano al ministro degli esteri. Così la decisione di chiudere i porti, che compete al ministro delle infrastrutture. Così le proposte sulla riforma fiscale, che dipendono in realtà dal ministro dell’economia. Così, dopo lo sbarco di un gruppo di migranti da una nave irlandese, l’annunciata volontà di ritirarsi dalla missione militare internazionale a guida italiana, che rientra nella sfera del ministro della difesa. Così le anticipazioni sull’obbligatorietà dei vaccini, che ha suscitato la giusta protesta del ministro della salute.
In qualcuno di questi casi – come nell’ultimo – c’è stata una sommessa reazione degli aventi diritto, ma Salvini ha tenuto sempre a sottolineare che, alla fine, si farà come ha deciso lui. «Voglio andare fino in fondo». Perché, ha sempre tenuto a ribadire, si sente responsabile, per coerenza, nel fare quello che aveva promesso ai suoi elettori.
Il problema è che un governo deve rispondere non agli elettori di un suo componente (anche perché ci sono pure gli altri…), ma al Paese. Per questo forse Salvini ha detto, in qualche momento di euforia, di avere dietro le spalle la volontà di 60 milioni di italiani. Solo che allo stato attuale egli, secondo le regole della democrazia rappresentativa, ha il consenso, in realtà, del 17% di quelli che sono andati alle urne il 4 marzo. E la sua ribadita volontà di “andare fino in fondo” nei propri propositi, ha un senso solo in una logica che non è più quella dello Stato repubblicano, ma di una presunta (sulla base dei sondaggi) “volontà generale”, da cui il nostro attuale ministro dell’interno si sente incoronato a guida della Nazione.
Il vero problema, alla luce di questo quadro inquietante, non sono le politiche migratorie, ma il senso dello Stato democratico così come la Costituzione lo ha concepito e regolamentato. Sotto quest’ottica, i singoli temi hanno un’importanza relativa. Salvini potrebbe anche cambiare idea sui migranti, o sui vaccini. Il punto è che i suoi sostenitori gli attribuiscono il diritto di decidere per tutti. In uno dei commenti che ho letto sui social, a proposito dell’intervento congiunto del capo dello Stato e del presidente del Consiglio per consentire lo sbarco dei 66 migranti bloccato sulla nostra motovedetta nel porto di Trapani, si denunciava con indignazione l’“invasione di campo” da parte di Mattarella e di Conte, nelle pretese competenze del ministro dell’interno! È solo un esempio.
Non sappiamo se Salvini agisca per ignoranza o per disprezzo della Carta costituzionale. Quello che è certo è che sono gli italiani a non avere idea di ciò che essa comporta. Molti di loro non sembrano comprendere che le regole che essa pone non sono mere sottigliezze formali, intralci a una libera espressione della volontà del popolo, ma le condizioni, stabilite dalla comunità all’indomani della tragedia del fascismo, per garantire la democrazia dalle pericolose ricadute in una logica totalitaria. Oggi che viene misconosciuta e calpestata, noi prendiamo più acutamente coscienza di quanto questa “Carta” sia fragile, di fronte all’arroganza di chi si vuole imporre e alla incoscienza di chi la ritiene un inutile impaccio; ma anche di quanto sia preziosa e insostituibile. Per questo siamo tutti chiamati a difenderla. Prima che sia troppo tardi.



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