«Nel paese della coscienza ci sono molte dimore. È come un castellocon mura, torrioni e ponti levatoi. È come un'isola, o meglio, come un arcipelago». Così Pablo d'Ors definisce le vaste dimore del silenzio, condensando, in una sola frase, l'eredità di Teresa d'Avila e di Juan de la Cruz. Il silenzio abita il «castillo interior» dell'anima, nella sua hermonsura, bellezza limpia e pura di chiaro cristallo; ma fa vela, non meno, di isola in isola nell'arcipelago della mente e della memoria, tra «las ínsulas extrañas», i rii sonori, il soffio delle arie d'amore e le quiete notti del Cántico espiritual di Juan de la Cruz.
Questo solo esempio mostra la straordinaria capacità di "concentrazione" del saggio di Pablo d'Ors, studioso e scrittore, sacerdote che discende da una famiglia di artisti e di interpreti che hanno segnato il Novecento (basti pensare a Eugenio d'Ors); del silenzio infatti non si parla per diffusione, ma per ellissi, sintesi, nodi e trasparenti galassie: «In questo spazio puoi perderti senza angoscia. Fai un passo e ti trovi lontano, mille passi e continui ad essere vicino. Nel giardino dello stupore e della meraviglia», ove si passa – e la fedele e sensibile traduzione di Danilo Manera vi aderisce come figura di eco e di ombra – senza lasciar traccia.
Se il Tacet di padre Giovanni Pozzi (ora tradotto in francese con una meditata e intensa introduzione di François Dupuigrenet Desroussilles) segnala il "tempo" del silenzio, la Biografia del silenzio ci introduce nelle vie non segnate, di vento e di sabbia dei deserti, del cammino della vita; è un itinerario nel silenzio, non una captazione di segnali di silenzio; è una "trasfigurazione" di noi quando a riflettere la nostra maschera non siano altre maschere di scena, ma il vuoto che illumina: «Questo fondale misterioso è come uno scenario vuoto. Proprio perché è vuoto, si riesce a distinguere quel che vi entra. Meditare è rimuovere da quello scenario le marionette illusorie per poter scorgere quel che irrompe sul palcoscenico. E quel vuoto è la nostra identità più radicale, giacché non è altro che pura capacità di recepire e accogliere». L'immagine viene da Erasmo, ma è rovesciata: là (Elogio della follia) si attende il regista che ci porti via, qui la scena vuota è risorsa di un cammino senza più inciampi, nemici, sterpi dell'oggi: «Abitiamo in un altro paese, poco frequentato, e attraversiamo campi di battaglia senza venir feriti». Invisibili dunque, così anonimi di non essere più il target di nessuno, in guerra e in pace solo con noi, poiché – chiosa l'autore – «L'acqua sta nella sete». Occorre dunque entrare «nel proprio pozzo», che vuol dire non più arrampicarsi per il compimento (che sarà sempre rinviato o, ottenuto, delusivo), ma discendere «nella radice della disillusione», diroccando noi stessi «quei muri che non dovrebbero trovarsi lì, non dovremmo averli innalzati».
Una serena saggezza orientale rallenta il battito dell'uomo occidentale bisognoso di "spiegazioni": il libro non dispiega, ma "ripiega", compone, avvolge, medica, passa una garza lieve sul senso ferito, alita appena: «È come se fossimo nati per stare seduti in silenzio; o come se fossimo nati per accompagnare la nostra respirazione, o per ripetere incessantemente e lentamente una giaculatoria, nella speranza di arrivare un giorno a dissolverci in essa». È la voce sommessa dei Racconti di un pellegrino russo che aleggia impercettibile, in un cammino che visita, di tenda in tenda, i Maestri del silenzio, senza chiamarli, senza apostrofarli, ma passando accanto alle loro orme di deserto, come sulle vie di Charles de Foucauld: «Il silenzio crea una certa assuefazione. Ha una prima fase, primissima, di fascinazione. Ci diciamo: "Che pace! Come si sta bene!" Oppure: "Infine il silenzio!" Ma bastano pochi minuti, o nel migliore dei casi ore, perché questa gradevole sensazione si dissipi e il silenzio mostri la sua faccia più arida: il deserto».
La Biografia del silenzio non è infatti un "cammino di consolazione" (come spesso tendono a essere gli elogi del silenzio), e neppure di desolazione, per convincerci ad abbandonare il "noi stessi" che è in noi. È piuttosto un esercizio di raccoglimento, un ritrarci nella parte di noi che più ci riunisca a noi stessi, anche «qualcosa di molto fisico e di molto sobrio», tenacemente fermo come il biblico (e leopardiano) passer solitarius: «vigilavi et factus sum sicut passer solitarius in tecto» (Salmo CI, 8).
Ma non si tratta di stoica solitudine, impassibile al mondo; al contrario «quasi tutti i frutti della meditazione si percepiscono fuori della meditazione»: non più perdite, disillusioni, cose opache perché non ben viste, ma lo sguardo che si posa e riposa in ciò che gli appare nella sua perfetta gratuità – che è pure la nostra nell'essere al mondo – mentr'essa già gli viene incontro: «un essere umano – infatti – è tanto più nobile quanto maggiore è la sua capacità di ospitalità e di accoglienza». Si cammina dunque verso la terra di noi promessa, cercata per tanto tempo, trovata nel solo luogo dal quale non si fa più viaggio: «Essere quel che si è: ecco la principale sfida» e il miglior premio, come scolpiva il Dante del Paradiso, in quell'«etterno piacere, al cui disio / ciascuna cosa qual ell'è diventa» (Paradiso, XX, 77-78).
Leggi: Carlo Ossola - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/Yb1QrE
Pablo d'Ors, Biografia del silenzio, ed. Vita e Pensiero, € 10
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