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domenica 25 febbraio 2018

ARMARE GLI INSEGNANTI? LA FOLLIA DI UNA PROPOSTA

LA LEGGE 
DELLA VIOLENZA
La soluzione ipotizzata dal presidente Trump per rendere più sicure le scuole americane, dopo il massacro di San Valentino – armare gli insegnanti, piuttosto che limitare la vendita delle armi –, piacerà sicuramente a quanti, in Italia, sono da anni sostenitori del diritto all’auto-difesa armata da parte dei cittadini. E non si tratta di pochi esaltati. Gli orientamenti elettorali rivelati dai sondaggi dicono che una parte consistente dell’opinione pubblica è ossessionata dall’idea della sicurezza e intende sostenere chi, in politica, ne fa il proprio “cavallo di battaglia”. Come la Lega. Da anni il partito di Salvini insiste perché venga eliminato dalla nostra legislazione penale la clausola per cui l’autodifesa, in caso di violazione del proprio domicilio o del proprio esercizio commerciale da parte di un intruso, deve essere sempre proporzionata alla minaccia e all'offesa. In altri termini, per il diritto di sparare al ladro ed eventualmente di ucciderlo, anche se non sta aggredendo fisicamente nessuno. Così come da anni si batte a favore dell’istituzione di “associazioni di volontariato per l’osservazione del territorio”, eufemismo per evitare il termine “ronde”, che possano affiancare le forze dell’ordine nel garantire la sicurezza.
Dove però, per comprendere il senso che questo termine sta sempre più assumendo, bisogna leggere il recentissimo rapporto 2018 sui diritti umani di Amnesty International, dove si segnala che, rispetto al 2014, quando l’Italia era un paese «orgoglioso di salvare le vite dei rifugiati, che considerava l’accoglienza un valore importante», il clima è profondamente cambiato e, in nome della sicurezza, va ogni giorno di più verso atteggiamenti di diffidenza e di ostilità nei confronti degli stranieri. Non per nulla lo stesso governo Gentiloni, che pure, su questo tema, è immensamente più moderato della Lega, annovera tra i suoi successi l’aver risolto il problema degli sbarchi in modo civile non cambiando la legge Bossi-Fini – che ha determinato o almeno incrementato, con le sue clausole restrittive, il commercio di carne umana da parte degli scafisti – , bensì avallando in realtà l’uso sistematico della violenza nei lager libici.
         Peraltro, l’idea di difendersi e di farsi giustizia da soli è ormai sempre più presente in ambienti sia della destra che della sinistra, come dimostrano i recenti episodi di violenza che scandiscono ormai quasi quotidianamente le cronache: dagli spari contro gli inermi nigeriani di Macerata, agli scontri di Piacenza in cui giovani dei centri sociali hanno pestato un carabiniere, al blitz di un gruppo di attivisti di Forza Nuova negli studi televisivi de La7, all’aggressione, a Palermo, del segretario provinciale di Forza Nuova da parte di militanti dei centri sociali, al ferimento, a Perugia, di un militante di Potere al popolo, fino alla sassaiola degli “antagonisti”, a Torino, contro CasaPound…
Viene in mente ciò che ha evidenziato, nei suoi studi sulla violenza, un noto antropologo, René Girard, sottolineando che essa si basa su una perversa reciprocità, per cui i contendenti si scontrano ciecamente, ribattendo, simmetricamente, colpo su colpo, in una rivalità tragica che li fa diventare l’uno lo specchio dell’altro, e omologandoli perfettamente come “fratelli nemici” destinati ad uccidersi l’un l’altro. La storia ne riferisce alcuni esempi significativi, da Caino e Abele, a Eteocle e Polinice, a Romolo e Remo.
Secondo Girard questa – che egli chiama «la crisi delle differenze» – «getta gli uomini in un perpetuo affrontarsi che li priva di ogni carattere distintivo, di ogni ‘identità’. Non si può neanche più parlare di avversari nel senso pieno del termine, solo di ‘cose’ appena nominabili che cozzano tra di loro con stupida caparbietà».
È la logica della faida, il cui esito inevitabile è la distruzione della comunità ad opera delle opposte violenze. È interessante notare come, da antropologo, Girard abbia individuato nel messaggio evangelico la sola via d’uscita a questa logica suicida, per cui le identità si inabissano in un «diluvio universale» che le annulla sia moralmente che fisicamente. È la legge del “porgere l’altra guancia”, enunciata da Cristo nel “discorso della Montagna”, che rompe la cattiva simmetria della violenza, rifiutando di restituire il colpo ricevuto e interrompendo, così, la serie ripetitiva degli atti violenti.
Quella che solitamente viene considerata, anche da molti credenti, un’utopia ed è citata come esempio della irrealizzabilità della proposta cristiana, diventa, in questa prospettiva rigorosamente “laica”, il solo modo di “salvare” la comunità civile. Ma anche la dignità delle persone, perché in questo modo, invece di appiattirsi sul suo aggressore, la vittima si sottrae alla sua imitazione e valorizza la propria identità: «Il vero soggetto umano può emergere soltanto dalla regola del Regno; al di fuori di questa regola non c’è altro che il mimetismo».
Colpisce che un personaggio non ascrivibile alla tradizione cristiana, come Gandhi, abbia avvertito il fascino di questa prospettiva e l’abbia fatta diventare una vera e propria “dottrina della nonviolenza”. Che non esclude affatto i conflitti – essi sono non solo inevitabili, ma fisiologici, a cominciare da quelli che ognuno ha con se stesso, con i genitori e i figli, con il partner – , ma quella cattiva simmetria per cui degenerano in violenza e distruzione reciproca. Il senso della nonviolenza è di dare luogo a una asimmetria, a una non-reciprocità nell’infliggersi il male, ma non per limitarsi a subirlo, bensì per determinare, attraverso questa scelta provocatrice, una situazione nuova, che impedisca alla violenza di perpetuarsi e che può dar luogo a una reciprocità nel rispetto l’uno dell’altro e, forse, nell’amore.
Questo significa che, invece di trasformare i professori in pistoleri, a immagine e somiglianza di quelli che sparano ai loro allievi; invece di puntare su un’auto-difesa che omologa la vittima al suo aggressore o addirittura la trasforma nel suo carnefice; invece di identificare coloro che vengono a chiedere la nostra solidarietà in barbari invasori, da cui difenderci lasciandoli affogare o delegando ai libici il “lavoro sporco” di eliminarli; invece di tutto questo, si tratterebbe di rinunziare a somigliare al nostro aggressore (o a chi attribuiamo questo ruolo nella nostra immaginazione) e di fare ciò che la nostra vera identità ci suggerisce, per provare a risolvere correttamente i problemi reali che ci stanno davanti.
       In quest’ottica, nel caso delle scuole americane, la misura ovvia sarebbe di disarmare gli aggressori, limitando il commercio delle armi, almeno di quelle d’assalto; nel caso della sicurezza in Italia sarebbe di aiutare gli stranieri ad integrarsi, uscendo dalla emarginazione in cui i nostri cattivi sistemi di accoglienza li mantengono; nel caso della delinquenza comune, di combatterla prosciugandone il retroterra di ignoranza, di povertà e di discriminazione sociale.
Sono rimedi insufficienti? Per saperlo bisognerebbe decidere di adottarli e valutarne poi gli effetti. L’alternativa è di continuare sulla strada che abbiamo intrapreso e di cui tutti ci lamentiamo, senza neppure renderci conto che la violenza la stiamo creando noi.

Giuseppe Savagnone

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