LA LEGGE
DELLA VIOLENZA
La soluzione ipotizzata dal
presidente Trump per rendere più sicure le scuole americane, dopo il massacro
di San Valentino – armare gli insegnanti, piuttosto che limitare la vendita
delle armi –, piacerà sicuramente a quanti, in Italia, sono da anni sostenitori
del diritto all’auto-difesa armata da parte dei cittadini. E non si tratta di
pochi esaltati. Gli orientamenti elettorali rivelati dai sondaggi dicono che
una parte consistente dell’opinione pubblica è ossessionata dall’idea della
sicurezza e intende sostenere chi, in politica, ne fa il proprio “cavallo di
battaglia”. Come la Lega. Da anni il partito di Salvini insiste perché venga
eliminato dalla nostra legislazione penale la clausola per cui l’autodifesa, in
caso di violazione del proprio domicilio o del proprio esercizio commerciale da
parte di un intruso, deve essere sempre proporzionata alla minaccia e all'offesa. In altri termini, per il diritto di sparare al ladro ed
eventualmente di ucciderlo, anche se non sta aggredendo fisicamente nessuno.
Così come da anni si batte a favore dell’istituzione di “associazioni di
volontariato per l’osservazione del territorio”, eufemismo per evitare il
termine “ronde”, che possano affiancare le forze dell’ordine nel garantire la
sicurezza.
Dove però, per comprendere il
senso che questo termine sta sempre più assumendo, bisogna leggere il
recentissimo rapporto 2018 sui diritti umani di Amnesty International, dove si
segnala che, rispetto al 2014, quando l’Italia era un paese «orgoglioso di salvare
le vite dei rifugiati, che considerava l’accoglienza un valore importante», il
clima è profondamente cambiato e, in nome della sicurezza, va ogni giorno di
più verso atteggiamenti di diffidenza e di ostilità nei confronti degli
stranieri. Non per nulla lo stesso governo Gentiloni, che pure, su questo tema,
è immensamente più moderato della Lega, annovera tra i suoi successi l’aver
risolto il problema degli sbarchi in modo civile non cambiando la legge
Bossi-Fini – che ha determinato o almeno incrementato, con le sue clausole
restrittive, il commercio di carne umana da parte degli scafisti – , bensì
avallando in realtà l’uso sistematico della violenza nei lager libici.
Peraltro,
l’idea di difendersi e di farsi giustizia da soli è ormai sempre più presente
in ambienti sia della destra che della sinistra, come dimostrano i recenti
episodi di violenza che scandiscono ormai quasi quotidianamente le cronache:
dagli spari contro gli inermi nigeriani di Macerata, agli scontri di Piacenza
in cui giovani dei centri sociali hanno pestato un carabiniere, al blitz di un
gruppo di attivisti di Forza Nuova negli studi televisivi de La7,
all’aggressione, a Palermo, del segretario provinciale di Forza Nuova da parte
di militanti dei centri sociali, al ferimento, a Perugia, di un militante di
Potere al popolo, fino alla sassaiola degli “antagonisti”, a Torino, contro
CasaPound…
Viene in mente ciò che ha
evidenziato, nei suoi studi sulla violenza, un noto antropologo, René Girard,
sottolineando che essa si basa su una perversa reciprocità, per cui i
contendenti si scontrano ciecamente, ribattendo, simmetricamente, colpo su
colpo, in una rivalità tragica che li fa diventare l’uno lo specchio
dell’altro, e omologandoli perfettamente come “fratelli nemici” destinati ad
uccidersi l’un l’altro. La storia ne riferisce alcuni esempi significativi, da
Caino e Abele, a Eteocle e Polinice, a Romolo e Remo.
Secondo
Girard questa – che egli chiama «la crisi delle differenze» – «getta gli uomini
in un perpetuo affrontarsi che li priva di ogni carattere distintivo, di ogni
‘identità’. Non si può neanche più parlare di avversari nel senso pieno del
termine, solo di ‘cose’ appena nominabili che cozzano tra di loro con stupida
caparbietà».
È la logica della faida, il cui
esito inevitabile è la distruzione della comunità ad opera delle opposte
violenze. È interessante notare come, da antropologo, Girard abbia individuato
nel messaggio evangelico la sola via d’uscita a questa logica suicida, per cui
le identità si inabissano in un «diluvio universale» che le annulla sia
moralmente che fisicamente. È la legge del “porgere l’altra guancia”, enunciata
da Cristo nel “discorso della Montagna”, che rompe la cattiva simmetria della
violenza, rifiutando di restituire il colpo ricevuto e interrompendo, così, la
serie ripetitiva degli atti violenti.
Quella
che solitamente viene considerata, anche da molti credenti, un’utopia ed è
citata come esempio della irrealizzabilità della proposta cristiana, diventa,
in questa prospettiva rigorosamente “laica”, il solo modo di “salvare” la
comunità civile. Ma anche la dignità delle persone, perché in questo modo,
invece di appiattirsi sul suo aggressore, la vittima si sottrae alla sua
imitazione e valorizza la propria identità: «Il vero soggetto umano può
emergere soltanto dalla regola del Regno; al di fuori di questa regola non c’è
altro che il mimetismo».
Colpisce che un personaggio non
ascrivibile alla tradizione cristiana, come Gandhi, abbia avvertito il fascino
di questa prospettiva e l’abbia fatta diventare una vera e propria “dottrina
della nonviolenza”. Che non esclude affatto i conflitti – essi sono non solo
inevitabili, ma fisiologici, a cominciare da quelli che ognuno ha con se
stesso, con i genitori e i figli, con il partner – , ma quella cattiva
simmetria per cui degenerano in violenza e distruzione reciproca. Il senso
della nonviolenza è di dare luogo a una asimmetria, a una non-reciprocità
nell’infliggersi il male, ma non per limitarsi a subirlo, bensì per
determinare, attraverso questa scelta provocatrice, una situazione nuova, che
impedisca alla violenza di perpetuarsi e che può dar luogo a una reciprocità
nel rispetto l’uno dell’altro e, forse, nell’amore.
Questo significa che, invece di
trasformare i professori in pistoleri, a immagine e somiglianza di quelli che
sparano ai loro allievi; invece di puntare su un’auto-difesa che omologa la
vittima al suo aggressore o addirittura la trasforma nel suo carnefice; invece
di identificare coloro che vengono a chiedere la nostra solidarietà in barbari
invasori, da cui difenderci lasciandoli affogare o delegando ai libici il
“lavoro sporco” di eliminarli; invece di tutto questo, si tratterebbe di
rinunziare a somigliare al nostro aggressore (o a chi attribuiamo questo ruolo
nella nostra immaginazione) e di fare ciò che la nostra vera identità ci
suggerisce, per provare a risolvere correttamente i problemi reali che ci
stanno davanti.
In
quest’ottica, nel caso delle scuole americane, la misura ovvia sarebbe di
disarmare gli aggressori, limitando il commercio delle armi, almeno di quelle
d’assalto; nel caso della sicurezza in Italia sarebbe di aiutare gli stranieri
ad integrarsi, uscendo dalla emarginazione in cui i nostri cattivi sistemi di
accoglienza li mantengono; nel caso della delinquenza comune, di combatterla
prosciugandone il retroterra di ignoranza, di povertà e di discriminazione
sociale.
Sono rimedi insufficienti? Per
saperlo bisognerebbe decidere di adottarli e valutarne poi gli effetti.
L’alternativa è di continuare sulla strada che abbiamo intrapreso e di cui
tutti ci lamentiamo, senza neppure renderci conto che la violenza la stiamo
creando noi.
Giuseppe
Savagnone
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