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mercoledì 29 novembre 2017

DIGITALE. UNA RIVOLUZIONE DA CAPIRE E GOVERNARE

Ci manipolano, radicalizzano le idee, ma portano benefici e potenzialità enormi Bisogna essere attrezzati e tradurle in vantaggi per noi e le prossime generazioni Parla Floridi, filosofo dell’informazione a Oxford

di SILVIA CAMISASCA

          «Tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, durante l’amministrazione Clinton, si fece l’errore, non facile da evitare, di trattare le tecnologie digitali alla stregua di utility, beni di servizio come gas o acqua, lasciandole sviluppare senza codici di regolamentazione, non considerando il fatto che mondo digitale e social media creano un ambiente in cui gli individui trascorrono il loro tempo».             Lo spiega Luciano Floridi, direttore di ricerca e docente di filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford, disciplina di cui è ritenuto fondatore. Nel mondo analogico di radio, tv o giornali, questo non avviene: non si vive 'in tv' o 'sulla radio', ma si naviga 'in rete', si chatta 'on line', a causa della formidabile capacità, propria del digitale, di aprire uno spazio in cui le persone si muovono liberamente. Spazio che nel testo La Quarta Rivoluzione (Cortina Editore, pp. 304, euro 24) Floridi definisce «infosfera».
         Un libro che ben chiarisce che la fase in corso non ci vede né connessi, né off line, ma, siamo in quella zona in cui, per dirla con Floridi, il fiume si getta nel mare e, dunque, «non ha senso chiedersi se l’acqua sia dolce o salata, siamo semplicemente in zone salmastre» conclude il filosofo.
      E di filosofia, di fronte alle sfide etiche, talvolta destabilizzanti, che vorticose innovazioni tecnologiche impongono, c’è un gran bisogno.
       Col paradigma di intelligenza artificiale la fantascienza è sempre di più forza sociale con eserciti di robot che svolgono alcune funzioni molto meglio dell’uomo: leggono le lastre con maggior dettaglio di un radiologo e intervengono con mano più ferma di un chirurgo, esattamente come sono sistemi artificiali a pilotare aerei e a raccogliere istantanee da Marte. La meccanizzazione dell’azione comporta il divorzio - non il matrimonio, come spesso si ritiene - tra intelligenza e azione. Certo da tali progressi tecnologici si trarranno enormi benefici, ma il rischio di rimanere travolti dall’oceano di dati prodotti dall’Ict e dalle infinite nuove opportunità è molto alto. Ancora una volta di fronte all’ondata digitale siamo a un bivio, in cui non è esclusa la possibilità di prendere la via sbagliata, cedendo alla tentazione di credersi al centro dell’universo e non mettendo a servizio dell’umanità questa nuova risorsa.
         Professore, in che senso il rapporto con i nuovi mezzi richiede una grande consapevolezza del cambiamento che portano con sé?
«Il concetto di comunicazione, dalla nascita della scrittura, è legato alle funzioni di registrazione e diffusione di informazioni, ma i sistemi digitali, assolvono anche una terza funzione, 'elaborano' cioè manipolano, automaticamente e autonomamente, gli oggetti che trattano. Inoltre, approcciando i media digitali, l’utente non è più passivo, ma interagisce con essi: si pensi banalmente ai movimenti che compiamo con un cursore. Rielaborazione e interazione, non presenti in epoca analogica e, invece, caratterizzanti l’infosfera digitale, comportano un terzo elemento di novità: il contatto (o contrasto) con agenti non necessariamente umani. In altre parole, molto spesso, la controparte della nostra interfaccia è rappresentata da un software che, altrettanto spesso, è più abile nell’esprimere preferenze e interessi nostri. È come se l’agente artificiale giocasse d’anticipo, selezionando e ordinando gli elementi nel momento in cui, ad esempio, ese- guiamo ricerche in rete».
         Qui si apre la spinosa questione di quanto e come le tecnologie digitali 'pilotino' e condizionino menti e utenti. In che misura è vero?
«È un passaggio delicato: sarebbe più semplice se i social media 'manipolassero' banalmente le persone, invece, l’operazione è più sottile, perché è tesa ad 'agevolare' il nostro lavoro riferendosi alle tracce lasciate nel virtuale dal nostro comportamento passato».
          Si può dire, dunque, che ci condizionano indirettamente, nel momento in cui assecondano i nostri gusti per condurci ancora a loro?
«È proprio così: per offrire un servizio migliore e, presumibilmente, gradito, 'alimentano' le nostre posizioni. Non sfugge, a questo punto, la potenza del digitale di 'radicalizzare' e polarizzare le coscienze, mostrando sempre più loro ciò che già rientra nei propri orizzonti. Nel mondo analogico, ciò avviene più difficilmente: ad esempio, un appassionato di calcio, su un quotidiano trova, oltre alle pagine di stretto interesse sportivo, anche servizi di economia, politica o scienza e, anche scegliendo di trascurarli, di fronte a una proposta che contempla l’eterogeneità, accetta e convive con la diversità, dà per scontato tollerare le passioni degli altri».
        L’individuo, quindi, nella rete finisce sempre più per arroccarsi sulle proprie posizioni, chiudendosi in una sfera personale e ponendo se stesso al centro dell’universo?
«Diciamo che lo sconfinato mondo digitale apre e chiude contemporaneamente le menti e, rispetto all’approccio analogico, richiede molta più consapevolezza e preparazione. Risorse e potenzialità sono enormi, ma bisogna essere ben 'attrezzati' per tradurle in vantaggi, per noi e le prossime generazioni ».
             In un tale mare magnum che ne è dell’etica?
«I principi normalmente chiamati in causa in relazione ai 'danni collaterali' del vivere virtuale sono quelli di privacy e tolleranza e, del resto, le motivazioni sono sotto gli occhi di tutti, come è chiaro che in merito a tali questioni si discute da secoli, ben prima dell’avvento di internet: basta pensare a Locke! Lo scossone etico, secondo me, avviene su un altro piano, perché in rete, non solo ci confrontiamo con agenti 'altri' rispetto all’umano, ma questi gettano una luce diversa su noi stessi: in altre parole, se un robot guida o disegna meglio di noi, siamo 'detronizzati' nel nostro primato, spodestati dalla nostra centralità».
             Anche questo, in verità, non è la prima volta che si verifica.
«Appunto. Già tre volte, con Copernico, Darwin e Freud, nella storia dell’umanità l’uomo ha perso la centralità dell’universo: sono state tre rivoluzioni dalle quali l’individuo è uscito ricollocato in una posizione marginale. Ora, è in corso la quarta rivoluzione, dalla quale emerge un uomo non più al centro della gestione dell’informazione e della comunicazione».
        È la 'Quarta Rivoluzione' che dà il titolo al libro, in cui tutti noi non siamo protagonisti dell’infosfera, pur vivendoci e 'vivendola'?
«Esattamente. È come se organizzassimo una cena, in cui, però, non siamo i festeggiati. Del resto, il soggetto nell’etica classica, è sempre l’Io, mentre l’ottica che andrebbe a ridefinire la posizione contemporanea è quella di un’etica di cura e servizio verso l’altro, in cui all’Io sostituisco, non tanto l’altro, ma la relazione che si salda tra me e ciò che è fuori di me. Questo è già avvenuto in altri campi, ad esempio, la scuola, l’ambiente o la medicina. Cosa significa medicina di servizio, se non che al centro dell’attenzione non è il medico o il chirurgo che opera, ma la cura e la salute del paziente?».
          L’imporsi di una nuova etica non potrebbe, in ultimo, aiutarci?
«Certo, soprattutto, perché ci siamo adagiati sul 'meccanismo' newtoniano di causa-effetto: il processo digitale, invece, procede secondo un rimando di 'link', prevede appunto uno schema reticolare, di nodi e intrecci».
          Di relazioni?
«Esatto: immaginiamo tante strade che si intersecano in una rotonda (l’uomo) dove si incontrano e saldano le relazioni e i rapporti tra gli individui. Come nel caso del matrimonio, al centro non è l’uno o l’altro, ma la relazione, così si estende a tutte le forme che si possano sperimentare nel vissuto. Al centro dell’agire politico non è lo Stato, il partito o il sindaco, ma il tessuto civico tra le varie componenti. E lo stesso nel business o nell’informazione. L’uomo, quindi, è il risultato (un incrocio) di tante relazioni e vari rapporti».
             Nell’ampia zona di acqua dolce-salata, in cui siamo contemporaneamente off e on line.
«Ha detto bene 'ampia zona', perché l’area dell’infosfera è sempre più grande: questo è bene ricordarlo a chi ritiene di poter fare a meno delle tecnologie digitali. Ovviamente è possibile, ma gli 'esclusi' subiranno così un doppio danno: non solo più deboli, perché sprovvisti degli strumenti necessari all’accesso digitale, ma, non godendone i vantaggi, la propria dimensione sarà sempre più determinata, 'decisa' da chi sperimenta e vive il virtuale, usufruendo già anche delle relative opportunità. Questo l’Italia lo dovrebbe tenere presente, considerando che è fanalino di coda, a livello europeo, per apertura alla 'mentalità' digitale: vale per i pagamenti on line come per gli acquisti in rete, per i big data come per i servizi bancari».
           «A cavallo delle rivoluzioni qualcuno paga sempre le spese delle trasformazioni. Occorrerebbe che tutta la società si facesse carico dei costi dell’Intelligenza artificiale?
«Giusto. La profondità e radicalità dei mutamenti impedisce all’attuale generazione di stare al passo degli eventi e a rimanere indietro saranno molti. Non è giusto che chi è escluso oggi, in termini di perdita di ruolo, lavoro e reddito, debba pagare tutte le conseguenze di un beneficio per tutta una civiltà: un beneficio che ha un costo, di cui tutta la società deve farsi carico.


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