Nella trasmissione dei saperi
conta
la capacità di immedesimarsi
negli universi distinti dei singoli bambini
di COSIMO ARGENTINA
Nei decenni passati
non ci si ponevano grandi interrogativi sui ragazzi che frequentavano la
scuola. Tranne casi eclatanti di disabilità per il resto esistevano le
classiche categorie: il lazzarone, non studia, non riesce a stare attento,
studia ma non ci arriva, non ha metodo di studio, non capisce quello che legge,
quando scrive è distratto e inverte lettere e cifre. Termini come discalculia,
dislessia e disgrafia non erano contemplati dalla didattica e dal mondo tutto
dell’insegnamento. C’erano solo i ragazzi difficili e quelli diligenti.
Francesco Riva ha
messo per iscritto e ha portato in teatro la sua vita di dislessico. Con lo
spettacolo Dislessia e con il romanzo “Il
pesce che scese dall’albero” (Sperling & Kupfer, pagine
167, euro 16) getta una luce non tanto sulla realtà della scuola ancora non del
tutto preparata a mettere in campo energie a favore di alunni disagiati, quanto
su come una disabilità può, grazie a menti illuminate, trasformarsi in una
opportunità.
Il piccolo Francesco
non riesce proprio a leggere come gli altri, ma una maestra attenta e creativa
gli mostra la possibilità di studiare recitando e interpretando ciò che gli
altri ripetono pedissequamente. L’allievo diventerà un attore e farà tesoro
delle sue debolezze trasformandole in punti di forza.
Elemento essenziale
nella vita scolastica di un ragazzo che parte per superare un percorso a
handicap sono le figure che gli gravitano intorno. Nella scuola Francesco ne
individua due tipologie. Chi ha a cuore l’alunno quale universo umano,
spirituale e psicologico e chi vede nel gruppo classe una materia da amalgamare
senza tentennamenti perché rispettare il programma viene prima di tutto.
Nella scuola, come
nella vita, si incontrano personalità diverse, complesse, distanti l’una
dall’altra e quindi si rende necessario trovare il bandolo della matassa
affidandosi a chi offre più garanzie. Questa strategia però non è libera perché
un allievo si ritrova ad avere a che fare con gli insegnanti che gli sono stati
assegnati. Ci vuole anche un pizzico di fortuna. Trovare quello che prenda a
cuore ciò che c’è dietro un minimo o ingente ritardo e procedere per tentativi fino
a trovare soluzioni per la crescita dell’alunno e dell’uomo non è né semplice
né scontato.
A volte la scuola si
risolve con una serie di atti dovuti e formali. Il voto, gli scrutini, il
debito a settembre, i recuperi, la lezione frontale, i compiti in classe, le
interrogazioni. Ma esiste un sottotesto che è poi l’humus dei verbi insegnare e
apprendere. Insegnare vuol dire mettere nelle mani di una persona gli strumenti
per farcela.
Apprendere è far
propri gli stimoli e le suggestioni che provengono da persone di comprovata
esperienza. Dentro queste due parole esiste una cosmologia talmente spongiforme
che per chi decide di fare il docente sarebbero necessari come prerequisiti una
certa duttilità e sensibilità.
Conoscere i diritti
reali, Pascoli o i logaritmi è solo una delle basi dell’insegnamento. È la
trasmissione dei saperi e la capacità di immedesimarsi in universi così diversi
che in realtà fa la differenza. E questo attiene all’uomo, non solo al
professionista, e non si impara in corsi di aggiornamento né nelle scuole di
specializzazione.
Da Avvenire
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