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venerdì 13 ottobre 2017

DISLESSIA - Alla scuola di Francesco Riva per imparare diversamente

Nella trasmissione dei saperi conta
 la capacità di immedesimarsi
 negli universi distinti dei singoli bambini

                                                                                                                  di COSIMO ARGENTINA

Nei decenni passati non ci si ponevano grandi interrogativi sui ragazzi che frequentavano la scuola. Tranne casi eclatanti di disabilità per il resto esistevano le classiche categorie: il lazzarone, non studia, non riesce a stare attento, studia ma non ci arriva, non ha metodo di studio, non capisce quello che legge, quando scrive è distratto e inverte lettere e cifre. Termini come discalculia, dislessia e disgrafia non erano contemplati dalla didattica e dal mondo tutto dell’insegnamento. C’erano solo i ragazzi difficili e quelli diligenti.
Francesco Riva ha messo per iscritto e ha portato in teatro la sua vita di dislessico. Con lo spettacolo Dislessia e con il romanzoIl pesce che scese dall’albero” (Sperling & Kupfer, pagine 167, euro 16) getta una luce non tanto sulla realtà della scuola ancora non del tutto preparata a mettere in campo energie a favore di alunni disagiati, quanto su come una disabilità può, grazie a menti illuminate, trasformarsi in una opportunità.
Il piccolo Francesco non riesce proprio a leggere come gli altri, ma una maestra attenta e creativa gli mostra la possibilità di studiare recitando e interpretando ciò che gli altri ripetono pedissequamente. L’allievo diventerà un attore e farà tesoro delle sue debolezze trasformandole in punti di forza.
Elemento essenziale nella vita scolastica di un ragazzo che parte per superare un percorso a handicap sono le figure che gli gravitano intorno. Nella scuola Francesco ne individua due tipologie. Chi ha a cuore l’alunno quale universo umano, spirituale e psicologico e chi vede nel gruppo classe una materia da amalgamare senza tentennamenti perché rispettare il programma viene prima di tutto.
Nella scuola, come nella vita, si incontrano personalità diverse, complesse, distanti l’una dall’altra e quindi si rende necessario trovare il bandolo della matassa affidandosi a chi offre più garanzie. Questa strategia però non è libera perché un allievo si ritrova ad avere a che fare con gli insegnanti che gli sono stati assegnati. Ci vuole anche un pizzico di fortuna. Trovare quello che prenda a cuore ciò che c’è dietro un minimo o ingente ritardo e procedere per tentativi fino a trovare soluzioni per la crescita dell’alunno e dell’uomo non è né semplice né scontato.
A volte la scuola si risolve con una serie di atti dovuti e formali. Il voto, gli scrutini, il debito a settembre, i recuperi, la lezione frontale, i compiti in classe, le interrogazioni. Ma esiste un sottotesto che è poi l’humus dei verbi insegnare e apprendere. Insegnare vuol dire mettere nelle mani di una persona gli strumenti per farcela.
Apprendere è far propri gli stimoli e le suggestioni che provengono da persone di comprovata esperienza. Dentro queste due parole esiste una cosmologia talmente spongiforme che per chi decide di fare il docente sarebbero necessari come prerequisiti una certa duttilità e sensibilità.
Conoscere i diritti reali, Pascoli o i logaritmi è solo una delle basi dell’insegnamento. È la trasmissione dei saperi e la capacità di immedesimarsi in universi così diversi che in realtà fa la differenza. E questo attiene all’uomo, non solo al professionista, e non si impara in corsi di aggiornamento né nelle scuole di specializzazione.


Da Avvenire

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