La «rivoluzione normale»
del maestro ZAVALLONI
Il quotidiano Avvenire anticipa alcuni
passaggi della prefazione di Franco Lorenzoni al testo “A scuola dalla lumaca. Idee e
proposte per un’educazione fatta a mano” (Emi, pagine 176, euro 15,00; in
questi giorni in libreria), il nuovo volume di Gianfranco Zavalloni, compianto
educatore e disegnatore cesenate (1957-2012). Autore di un vero bestseller
dell’educazione, “La pedagogia della lumaca” (Emi, tre edizioni, ventimila
copie), Zavalloni, che fu insegnante nella scuola d’infanzia, dirigente
scolastico e scrittore, nei suoi scritti propone un modo diverso di fare
scuola, più attento alla dimensione corporea ed esperienziale degli alunni. Una
proposta che unisce il meglio della pedagogia del Novecento, ad esempio le idee
di don Lorenzo Milani, Alberto Manzi e Marco Lodi, coniugate con l’esperienza
scoutistica di Baden-Powell.
Insegnante nella scuola
d’infanzia e scrittore, mutuò molte idee da Baden-Powell e Alberto Manzi
Invitava i docenti a non dimenticare di quando erano bambini e proponeva un
modello educativo di tipo esperienziale: «Si impara con tutto il corpo». Scomparso
nel 2012 a 54 anni, la sua idea di scuola era un continuo rinnovamento come
sfida alle abitudini e ai miti imposti dai media
di FRANCO LORENZONI
«Gli insegnanti non
sono tuttologi, ma devono sapere dove sta di casa la cultura», sostiene
Gianfranco Zavalloni parafrasando un papa contadino. E lui, partendo dalla
campagna dove è nato, ha un’idea antropologica della cultura. Sa che è fatta di
cibo e di sapori, di paesaggi, di colture e di odori, di volti e di parole
ascoltate a viva voce e di risate e di giochi prima che di libri. Dunque ha una
mappa ben radicata in testa e cerca di continuo sentieri adatti che gli
permettano di giocare e mettersi in gioco con bambini e ragazzi. Con paziente
insistenza Zavalloni ci ricorda che per imparare bene a scuola dobbiamo usare
le mani e il corpo tutto intero e che leggere gli alberi e le stelle ci aiuta a
decifrare le parole e a dare sapore al sapere. Seguendo il suggerimento di
Tonino Guerra, ci invita a non dimenticare mai non solo la nostra infanzia, ma
«addirittura l’infanzia del mondo». Per compiere questo viaggio è necessario
tuttavia accorgersi e dare valore alle piccole e grandi trasformazioni e
trasfigurazioni di cui sono capaci i bambini quando giocano. È lì che si annida
quella cultura materiale a cui, da giovane, ha dedicato una ricerca che lo ha
portato tra le
montagne del Perù.
'Dagli Appennini alle Ande… e ritorno. Le tecnologie sociali'. Nel
titolo dato alla sua tesi c’è molto del suo destino che ritroviamo in queste
pagine ben selezionate, che compongono una sorta di autobiografia implicita.
C’è l’amore per il viaggio e la consapevolezza che ogni nuova scoperta è anche,
sempre, in certo modo un ritorno all’origine. C’è la curiosità verso altri
mondi e altri modi di vivere e una particolare attenzione verso la cultura
materiale e le tecnologie elementari alternative, che potrebbero aprire strade
nel cercare di contrastare i nefasti processi di distruzione del pianeta. C’è
il suo impegno per la trasformazione sociale e la cura dei luoghi, perché ogni
territorio che si abita va lasciato un po’ meglio di come lo si è trovato, come
sosteneva Baden-Powell, grande educatore e fondatore dello scoutismo,
ingiustamente snobbato dalla pedagogia accademica.
Il fatto curioso è che
fu partendo dallo studio dell’economia di sussistenza dei popoli nativi e dalla
lettura di Piccolo è bello di Ernst Friedrich Schumacher, che approdò all’educazione.
Scegliendo di fare il maestro di scuola dell’infanzia, la pratica del mestiere
offrì alla sua tensione ecologica e comunitaria un terreno concreto dove
sperimentare le sue intuizioni e contagiare chi gli stava vicino, con
l’entusiasmo e la vitalità prorompente di cui era capace. Possedeva anche una
casa in campagna, che trasformò in un centro di educazione ambientale. Basta
guardare i suoi disegni per capire come ogni sua idea si collegava a un’altra e
a un’altra ancora, in un vertiginoso vortice pieno di sorprendenti
capovolgimenti, il più azzardato dei quali per me sta nel fatto che, a un certo
punto della sua vita, da anarchico visionario qual era, s’azzardò a
sperimentarsi dirigente scolastico.
Il nuovo ruolo
tuttavia non lo trasforma. Ne esalta al contrario lo spirito trasgressivo di
cui ha tanto bisogno la scuola. Ecco allora che lo troviamo a rovistare cantine
e sgabuzzini delle scuole alla ricerca di materiali didattici in disuso, che
lui propone di tirar fuori e osservarli con l’affetto di cui è capace e farne
baratto, scoprendo che quei reperti del passato sono frammenti di storia
materiale della scuola. Scopre anche i diari di un maestro anomalo come
Federico Moroni, che fu anche pittore e fondò nel dopoguerra una scuola di
pittura per bambini. Propone dunque al collegio dei docenti della scuola che
dirige un mirabile e surreale pellegrinaggio per celebrarlo. Così l’anno
scolastico 2005-06 non si apre con i docenti rinchiusi in una stanza a
collezionare delibere, ma raggiungendo il paese di Montetiffi con una lunga
camminata a piedi. La proposta in fondo è semplice, eppure straordinariamente
trasgressiva.
Trasgressiva come
costruire una scuola con le proprie mani da soli senza attendere permessi, come
scelse di fare un gruppo di contadine e contadini a Villa Cella, nel reggiano,
nel 1945. E Zavalloni, in Per chi suona la campanella, la rubrica da cui sono
tratti gran parte dei testi qui raccolti, ripropone il racconto che ne fa Loris
Malaguzzi, che assistette a quell’impresa. Lo ripropone perché gli sta a cuore
la conclusione che ne trae l’educatore che portò nel mondo la ricchezza dei
cento linguaggi dei bambini, quando capì che «l’impossibile era una categoria
da rivedere».
La proposta del
camminare insieme non è solo una metafora dell’educare, dunque, ma atto
concreto, fatica condivisa, modo intelligente di giocare con le istituzioni
scovandone il lato umano perché, prima di tutto, un collegio dei docenti è un
gruppo di donne e uomini che possono condividere una giornata in collina e un
pasto in comune [...].
Alexander Langer, che
fu il più sensibile e lungimirante dei politici del nostro Paese, propose di
rovesciare il motto olimpico: «Non “più veloce, più alto, più forte”, ma “più
lento, più profondo, più dolce”. Con questo motto non si vinceranno battaglie
frontali, ma si avrà forse il fiato più lungo». Zavalloni, che di Langer era
estimatore, in queste pagine fa propria l’idea di rivoluzione di Alberto Manzi:
«La rivoluzione è una perpetua sfida alle incrostazioni dell’abitudine,
all’insolenza dell’autorità incontestata, alla compiacente idolizzazione di sé
e dei miti imposti dai mezzi di informazione. Per questo la rivoluzione deve
essere un evento normale, un continuo rinnovamento, un continuo riflettere e
fare, discutere e fare».
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