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UN TESORO NASCOSTO

Gesù nel tesoro nascosto ci dà la certezza della felicità

Vangelo della domenica: 
“In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.
 Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì».

Un contadino e un mercante trovano tesori. Accade a uno che, per caso, senza averlo programmato, tra rovi e sassi, su un campo non suo, resta folgorato dalla scoperta e dalla gioia. Accade a uno che invece, da intenditore appassionato e determinato, gira il mondo dietro il suo sogno.
Due modalità che sembrano contraddirsi, ma il Vangelo è liberante: l'incontro con Dio non sopporta statistiche, è possibile a tutti trovarlo o essere trovati da lui, sorpresi da una luce sulla via di Damasco, oppure da un Dio innamorato di normalità, che passa, come dice Teresa d'Avila, "fra le pentole della cucina", che è nel tuo campo di ogni giorno, là dove vivi e lavori e ami, come un contadino paziente.
Tesoro e perla: nomi bellissimi che Gesù sceglie per dire la rivoluzione felice portata nella vita dal Vangelo. La fede è una forza vitale che ti cambia la vita. E la fa danzare.
«Trovato il tesoro, l'uomo pieno di gioia va, vende tutti i suoi averi e compra quel campo». La gioia è il primo tesoro che il tesoro regala, è il movente che fa camminare, correre, volare: per cui vendere tutti gli averi non porta con sé nessun sentore di rinuncia (Gesù non chiede mai sacrifici quando parla del Regno), sembra piuttosto lo straripare di un futuro nuovo, di una gioiosa speranza.
Niente di quello di prima viene buttato via. Il contadino e il mercante vendono tutto, ma per guadagnare tutto. Lasciano molto, ma per avere di più. Non perdono niente, lo investono. Così sono i cristiani: scelgono e scegliendo bene guadagnano. Non sono più buoni degli altri, ma più ricchi: hanno investito in un tesoro di speranza, di luce, di cuore.
I discepoli non hanno tutte le soluzioni in tasca, ma cercano. Lo stesso credere è un verbo dinamico, bisogna sempre muoversi, sempre cercare, proiettarsi, pescare; lavorare il campo, scoprire sempre, camminare sempre, tirar fuori dal tesoro cose nuove e cose antiche.
 Mi piace accostare a queste parabole un episodio accaduto a uno studente di teologia, all'esame di pastorale. L'ultima domanda del professore lo spiazza: «come spiegheresti a un bambino di sei anni perché tu vai dietro a Cristo e al Vangelo?». Lo studente cerca risposte nell'alta teologia, usa paroloni, cita documenti, ma capisce che si sta incartando. Alla fine il professore fa: «digli così: lo faccio per essere felice!». È la promessa ultima delle due parabole del tesoro e della perla, che fanno fiorire la vita.
Anche in giorni disillusi come i nostri, il Vangelo osa annunciare tesori. Osa dire che l'esito della storia sarà buono, comunque buono, nonostante tutto buono. Perché Qualcuno prepara tesori per noi, semina perle nel mare dell'esistenza.


(Letture: Primo Libro dei Re 3, 5.7-12; Salmo 118; Romani 8, 28-30; Matteo 13, 44-52)

mercoledì 26 luglio 2017

LA CERA SI DONA, AL SERVIZIO DEGLI ALTRI

In una chiesa, accanto ad un cero acceso, ho trovato un foglio con questa preghiera: “Una candela da sola non prega; ma tu, Signore, fa che questa candela che io accendo, sia luce che mi illumini nelle mie difficoltà e nelle mie decisioni; sia fuoco che bruci in me tutto l’orgoglio e l’egoismo; sia fiamma che riscaldi il mio cuore e mi insegni ad amare.
Signore, io non posso restare molto tempo in chiesa; ma nel lasciar ardere questa candela, è un po’ di me stesso che voglio donarti e aiutami a prolungare la mia preghiera nelle attività di questo giorno”.
Perché proprio la candela? Forse perché composta di cera e di luce. È una fiammella guizzante che sembra mormorare qualcosa. È lingua lucente, grazie alla cera che si lascia consumare. Un cero vale per quanta fiamma, consumandosi, suscita e ravviva.
Tu, cera, non invidiare la leggerezza e la mobilità della fiamma che tende verso l’alto. Il tuo peso è necessario alla fiamma; solo con te può abitare nella casa di coloro che hanno bisogno della tua luce. Anche Gesù, fiamma di Dio, ha avuto bisogno di abitare la pesantezza della cera umana per illuminare ogni uomo che abita in questo mondo.
La linguetta vibrante di quella fiammella sembra dire a tutti quelli che sostano davanti al tabernacolo: Non lamentarti quando ti senti cera pesante, opaca ed inerte. Puoi accenderti e riaccenderti ad ogni scintilla di Dio. Sposa ogni scintilla e illuminerai tutta la chiesa.
Non risparmiare la cera: ti spegneresti. Ruberesti la luce di cui hanno diritto coloro che ti girano attorno. Accetta gioioso il processo di annientamento e inizierà in tè a brillare una fiamma che non si spegnerà.
Ti sembrerà di scomparire; ma invece vivrai nelle mille candele che da te si sono accese e vivrai per sempre nell’incendio che la tua fiammella ha scatenato nel mondo. È vero che tu ti consumi, ma è più esatto dire che mentre ti consumi per amore generi la luce; ti consumi per essere Colui per il quale ti doni.
Forse per questi ed altri motivi trova senso la candela accesa davanti ad un altare.
Ciao da P. Andrea
Per richiedere copie dei libretti di padre Andrea Panont e per ogni approfondimento si può cliccare qui.

Ada www.zenit.org

AIMC: SENTINELLE E COSTRUTTORI DI PONTI

     
                                       
 di Giuseppe Desideri

All’indomani dell’ultima Conferenza nazionale del quadriennio, importante tappa di riflessione per il percorso precongressuale, sembra giusto sottolineare la preoccupazione comune a chiunque abbia a cuore il bene associativo di come porsi, quali soci dell’Aimc, di fronte alla complessità sociale e culturale dell’oggi e del prospettato futuro che si ripercuote, inevitabilmente, sulla scuola e sulla professione.
Come orientarsi in tale complessità, come interpretare il ruolo di appartenenti a un’associazione professionale di identità cattolica?
Due mission sono emerse dall’ampiezza e ricchezza della riflessione. Due mission traducibili in immagini ben definite che, non a caso, sono direttamente riconducibili a due inviti pressanti rivolti dal Santo padre ai laici: essere “sentinelle” e “costruttori di ponti”.
In che senso? Dobbiamo essere con le antenne ben vigili nell’oggi, quindi essere attenti osservatori delle cose che succedono, perché mentre noi facciamo le analisi il contesto cambia e, quindi, dobbiamo fare una nuova analisi, entrano in gioco variabili diverse (lo stiamo vedendo: i decreti hanno aperto alcune variabili, altre situazioni creano altre variabili, si verificano tutta una serie di fattori che interagiscono e rendono complesso anche il solo interpretare il nesso di causalità).
Viviamo pienamente il cosiddetto effetto “butterfly”: un provvedimento, un’azione provoca un’onda lunga di processi che produce effetti che dal micro vanno al macrosistemico.
Prendiamo l’esempio della nuova previsione di gestione del segmento “zero-sei” introdotto dal Decreto susseguente la Legge 107/2015. La previsione normativa, che introduce una specifica qualificazione professionale per gli educatori dello 0-3, ha come onda lunga di inferenza il dibattito sul ruolo unico docente che, soprattutto negli ultimi tempi, l’Associazione sta tentando di ri-alimentare tra varie e notevoli resistenze.
Viviamo su diversi e diversificati versanti situazioni in cui dobbiamo ridefinire continuamente la rotta (mentre stiamo guidando l’automobile ci “spostano” l’autostrada) e dobbiamo essere bravi a contestualizzare in progress. È un vero e proprio “cantiere” per costruire ponti. Una pluralità di ponti verso mondi a noi prossimi, ma anche più distanti.
Ponti verso: la famiglia che sicuramente è universo complesso con cui vogliamo e dobbiamo confrontarci. Vediamo i lati deboli della famiglia, ma se ci decentriamo e ne assumiamo i parametri di lettura, vestendo i panni di genitori, riusciamo a vedere i lati deboli e le criticità della scuola, della funzione docente, della professionalità docente.
In mezzo c’è un altro soggetto verso cui tendere un ponte: è l’alunno, lo studente che è nativo digitale, portatore di problematiche varie, bambino o adolescente dell’oggi. Come essere contemporanei a loro con la proposta formativa, con i mezzi educativi, con la significatività dell’apprendimento?
Cambiano i versanti, cambiano le dimensioni e, come Associazione, non possiamo che tendere ponti verso le altre associazioni, le organizzazioni sindacali, i nuovi movimenti e gruppi organizzati e semiorganizzati di colleghi e futuri colleghi. Con tutti abbiamo fili che ci uniscono e altri elementi identitari che, logicamente, ci distinguono, ma sull’attenzione allo studente, alla professione oggi esistono meno distanze di una volta.
Oltre a questo, il ponte verso l’Accademia. Nella nostra lunga storia abbiamo vissuto varie stagioni di rapporti con il mondo dell’università. Oggi stiamo cercando di valorizzare le diverse specificità del sapere accademico e di quello professionale in una sinergia che porti, per esempio in quella iniziale, a promuovere una formazione equilibrata e completa del futuro professionista di scuola.
 Altro ponte è quello verso i territori, nel senso che la specificità dell’AIMC, le quattro dimensioni storiche dell’AIMC sono sempre state quelle dell’essere docenti, essere soci in un corpo associato, essere laici impegnati, essere cittadini.
Per costruire ponti la cosa fondamentale sono le fondamenta. I pilastri di partenza quali sono? Sono i nostri tratti identitari, la nostra laicità impegnata, forte, consapevole che parte logicamente dal Magistero della Chiesa, analizza, studia, riflette, supporta e dà anche basi per la riflessività.
Sempre sui nostri tratti identitari, che sono le fondamenta da cui partiamo per gettare ponti logicamente verso gli altri, c’è il socio, dell’essere un corpo associato e, quindi, il rapporto fra centro e periferia, fra territorialità e nazionalità, fra partecipazione e rappresentatività, che è un problema oggi generalizzato.
Si tratta di attuare una riflessività seria, superando idee e interessi personali, andando verso il bene comune e cercare la strada migliore per la nostra Associazione oggi e per il futuro.
Sarà vero cantiere di democrazia associativa se saremo impegnati in maniera forte e consapevole a tutti i livelli, perché solamente nel collegamento tra territorio e nazionalità riusciamo ad avere il quadro della nostra associazione che è l’Associazione Italiana Maestri Cattolici.
La nostra attenzione, il nostro sforzo devono essere quello di avere coraggio, che significa non dare niente per definito, coraggio delle idee, creatività, coraggio di pensare che, forse, l’idea dell’altro può essere anche migliore della mia o che, probabilmente, l’idea dell’altro unita a una parte della mia idea può essere un’idea diversa dalle due e migliore.

Attenzione, però: le idee hanno bisogno del piano di fattibilità perché se no restano belle idee, ma non cambiano, solo sull’idea non si cambia, il mondo cambia quando un’idea si realizza.

    da il Maestro nn. 5-6/2017

lunedì 24 luglio 2017

DOVE STA IL BENE? DOVE STA IL MALE?

“Il bene e il male non si possono identificare con territori definiti o determinati gruppi umani.” Lo ha affermato papa Francesco nel corso della sua catechesi prima dell’Angelus di domenica 23 luglio 2017.
Non ci sono i buoni da un lato e i cattivi dall’altro, ha detto il Pontefice, ma occorre comprendere che “la linea di confine tra il bene e il male passa nel cuore di ogni persona”.
“In questo mondo — ha spiegato Francesco — il bene e il male sono talmente intrecciati, che è impossibile separarli ed estirpare tutto il male”. Quindi l’unica cosa da fare è compiere “il difficile esercizio del discernimento fra il bene e il male”.
Jorge Bergoglio ha invitato i battezzati a “prendere le distanze dal maligno e dalle sue seduzioni”, ben sapendo che “siamo tutti peccatori”, “abbiamo sempre bisogno di essere perdonati dai nostri peccati”.
“Guardare sempre e soltanto il male che sta fuori di noi, significa non voler riconoscere il peccato che c’è anche in noi”, ha avvertito Francesco, che ha dichiarato di “preferire una Chiesa che è lievito nella pasta, che non teme di sporcarsi le mani lavando i panni dei suoi figli, piuttosto che una Chiesa di ‘puri’, che pretende di giudicare prima del tempo chi sta nel Regno di Dio e chi no”.

Da: www.zenit.org 
Di seguito il testo completo della catechesi di papa Francesco

martedì 18 luglio 2017

PAOLO BORSELLINO: UN MAESTRO DI VITA

                     La lezione semplice di Borsellino: 

                                fare il proprio dovere

Nel libro di Alessandra Turrisi, “L’uomo giusto”,
 il ritratto inedito del giudice ucciso a Palermo dalla mafia, il 19 luglio 1992 
Il racconto delle persone a lui più care:
 «Non fu un eroe, ma un esempio per tutti»

              «Chissà se il buon Dio perdonerà Palermo », canta, come una preghiera, Carmen Consoli in un brano dedicato all’Esercito silente di una Palermo «baciata da sole e mare», che fa i conti con «antichi rancori e ferite aperte » e che ogni giorno lotta per il riscatto: rispetto al passato insanguinato e al presente di chi non vuole che la città cambi. Contro chi crede che basti decapitare una statua di Giovanni Falcone davanti alla scuola a lui intitolata allo Zen o bruciare la foto simbolo in cui Falcone e Borsellino sono insieme sorridenti, per cancellare la sfida nuova di Palermo, quella di «Giovanni e Paolo, ancora vivi» e il loro esempio di «compiere il proprio dovere», fino in fondo. È il messaggio che emerge con forza, ma con un tono mite, senza sensazionalismi, dal libro di Alessandra Turrisi, Paolo Borsellino, l’uomo giusto (San Paolo, pagine 120, euro 15,00), in cui la giornalista, collaboratrice di Avvenire, ripercorre la figura esemplare del magistrato siciliano ucciso dalla mafia – il 19 luglio 1992, nella strage di via D’Amelio – attraverso le voci delle sue amicizie più intime, i racconti di chi lo ha conosciuto più da vicino, che in maniera semplice e profonda scavano nella memoria dei giorni trascorsi con Paolo. 
        C’è il ricordo appassionato di Diego Cavaliero (oggi giudice alla Corte d’Appello di Salerno), uditore giudiziario quando Borsellino era procuratore a Marsala, con cui costruirà una salda amicizia durata tutta la vita: il 12 luglio del 1992 Borsellino era da lui in Campania per fare da padrino di battesimo al figlio Massimo: «Ma non è Paolo quello che ho di fronte, è completamente diverso ».              C’è il cardiologo Pietro Di Pasquale che ripercorre minuto per minuto quella domenica surreale. C’è il barbiere Paolino Biondo, da cui andava ogni quindici giorni: «Paulì, me li tagli i capelli?». C’è don Cesare Rattoballi, parroco dell’Annunciazione del Signore, che raccoglie le sue ultime confessioni: «Ora tocca a me». C’è la sua famiglia – la moglie Agnese, i figli Lucia, Fiammetta e Manfredi – ma sempre sullo sfondo. Ci sono i superstiti, i “miracolati” di chi doveva essere lì e per fortuna non c’era.
               Quello che ci offre la Turrisi è un affresco inedito ed emozionante non di un eroe, ma di un uomo con un «sorriso di accoglienza» e una «risata contagiosa», severo ma «giusto », di grande fede, che «quando va in Chiesa, entra in ginocchio ed esce in ginocchio», «un padre, con tutte le sue debolezze, un figlio fino alla fine vicino alla madre». Un magistrato che «ha voluto compiere fino in fondo il proprio dovere», senza compromessi, ecco. «Accettando il rischio», qualunque siano – è lui che parla – «le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio. E vorrei dire, anche di come lo faccio». Senza lasciarsi «condizionare dalla sensazione o dalla certezza che tutto questo può costarci caro». Parole pronunciate venti giorni dopo l’uccisione di Falcone, quando sapeva bene che il prossimo sarebbe stato lui. Il suo testamento morale, divenuto patrimonio di tutti, è in quel discorso al termine della marcia organizzata dall’Agesci in ricordo dell’amico Giovanni, nella chiesa di San Domenico, il 20 giugno 1992: «La lotta alla mafia non doveva essere soltanto un’opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolgesse tutti, specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità».           
            Come? «Facendo il nostro dovere, rispettando le leggi. Rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro); dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo!».
           Il 19 luglio 1992, alle 16.58, una Fiat 126 imbottita di tritolo, viene fatta esplodere in via D’Amelio. Non c’è scampo per il giudice Borsellino e per cinque agenti di scorta, i suoi “angeli custodi”. «Quel pomeriggio – scrive Turrisi – un cazzotto nello stomaco colpisce i palermitani e non solo». Ma Palermo non sarà più la stessa. Dopo 25 anni «Paolo e Giovanni sono ancora vivi». E chissà se il «buon Dio perdonerà Palermo».
Giuseppe Matarazzo
Da Avvenire

sabato 8 luglio 2017

VENITE A ME, VOI CHE SIETE AFFATICATI ED OPPRESSI ..... Il Vangelo della domenica

     In quel tempo Gesù disse:
«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero». (Matteo 11,25-30)
       “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra”. Si apre con una benedizione (berakàh) – chiamata a volte inno di giubilo – pronunciata da Gesù il vangelo di questa XIV domenica del Tempo Ordinario A. Una benedizione che, espressa con greco il termine exomologoumai, al tempo stesso è una confessione, un ringraziamento, un rendimento di lode e un riconoscimento; benedizioni di questo tipo scandiscono la giornata dell’ebreo.

Il brano inoltre è ricco di parole che …..