Pagine

mercoledì 22 febbraio 2017

EDUCARE: LA CURA e L'ATTESA

Educatori, 
compagni di cordata

di DANIELA POZZOLI

 Educare i giovani è «uno sport di squadra »: nel secondo giorno del XV Convegno nazionale di pastorale giovanile («La cura e l’attesa. Il buon educatore e la comunità cristiana»), in corso a Bologna fino a giovedì, la figura dell’educatore prende sempre più forma attraverso le parole dei relatori.
E il pubblico, formato da 700 incaricati di pastorale giovanile arrivati da tutta Italia, riempie i taccuni. Sono qui per ascoltare gli esperti, ma anche per scambiarsi esperienze e modi diversi di affrontare il proprio compito. Tra un piatto di pasta al forno alla bolognese e un dessert ipercalorico perché come ripete spesso l’«anima » di questo incontro, don Michele Falabretti, responsabile del Servizio nazionale di pastorale giovanile: «I convegni si fanno anche a tavola».
L’educatore è una persona che «impara a sua volta dai ragazzi», come sostiene il vescovo di Vigevano, Maurizio Gervasoni, che ha celebrato la Messa di apertura dei lavori di oggi, «è colui che oltre a portare la testimonianza della sua vita – ha spiegato – ascolta le persone e si prende cura degli altri, lasciandosi da questi anche istruire. Perché ogni testimone mi permette di allargare la mia esperienza di vita e di mettermi in gioco».
Questo adulto ha altre caratteristiche che lo contraddistinguono: sa parlare al plurale e non dice mai «i miei ragazzi», ma coinvolge anche altre figure; sa pronunciare dei «no» al momento giusto perché non teme di essere meno amato; è paziente e non pretende subito di vedere i risultati che purtroppo spesso non arrivano; è «regista», cioè accompagna i giovani, ne favorisce la crescita, li conduce dentro a una trama; è «medico» perché li ascolta, loro che sono come vasi d’argilla, e li tocca con un abbraccio o una pacca sulla spalla per far sentire la sua presenza; ma è anche la persona che li allena ad amare il sentiero.
Perché, come ha spiegato l’arcivescovo di Modena-Nonantola, Erio Castellucci, facendo riferimento al suo passato scout, solo facendosi compagni di vita è possibile essere adulti credibili. «Quando andavo in route di strada – ha ricordato – mi spendevo nel motivare il significato del sentiero. Davanti a un cammino, spesso ripido, dicevo ai ragazzi: 'Vedete quella meta? Non è la stessa cosa raggiungerla a piedi sudando e faticando o arrivarci in seggiovia belli riposati. Se ce la sudiamo la gusteremo di più, sarà nostra per sempre'. Non li ho mai convinti, questo è sicuro, ma sono certo che sia così». L’educatore insomma non è chi, stando seduto, indica il cammino, suggerisce come non finire fuori strada o come rialzarsi: «È piuttosto chi cammina a fianco dei ragazzi – riprende Castelucci –, tiene il loro passo, li incoraggia, raccontando la sua fatica perché è un atto educativo anche comunicare le proprie difficoltà, i propri fallimenti e dubbi. I ragazzi hanno bisogno di sentire che i loro educatori non sono dei supereroi, ma donne e uomini che credono nella meta, nel Vangelo di Gesù e, anche se facendo fatica, cercano di raggiungerla». (Su questo tema è intervenuta la pedagogista Chiara Scardicchio di cui diamo conto nell’intervista qui di fianco).
Chi educa si muove per conto dalla comunità cristiana e «la comunità che educa – riprende l’arcivescovo di Modena – è costituita da tutti i collaboratori pastorali: anche i volontari del Centro d’ascolto o gli animatori della liturgia. A questo livello occorre vincere una tentazione: l’apertura della caccia, dove la specie più ambita è quella dei giovani e dove tutti chiedono di arruolarli nelle loro fila. Ma la pastorale non può diventare una campagna di arruolamento, è piuttosto un gruppo di giovani che, attraverso un discernimento guidato, intreccerà la sua attività con i diversi ambiti della comunità.
L’Agesci, per fare un esempio, invita i ragazzi a fare servizio anche fuori dall’associazione per riportare poi nel gruppo scout la ricchezza delle esperienze vissute». Sarebbe molto facile adottare con i giovani, tira le somme Castellucci, «una pastorale degli scacchi: bianco o nero, giusto o sbagliato, regolare o irregolare. Ma è una pastorale statica che ha come unica preoccupazione collocare e classificare, mentre qui si tratta non di giudicare, ma di accompagnare nella vita».

La pedagogista.
«Porre domande e saper stimolare la ricerca»
Racconta di essere stata una «secchiona», ma di aver dovuto ripensare la propria esistenza per vivere nel migliore di modi una maternità difficile dopo la nascita della figlia Serena, affetta da autismo. Chiara Scardicchio, barese, pedagogista e ricercatrice all’università degli studi di Foggia, non si nasconde: «I libri e la cultura erano la mia coperta di linus, ma non servono a niente se non ci si interroga su chi siamo. E questo a volte avviene, come nel mio caso, all’interno di un percorso fatto di dolore, redenzione, bellezza che al momento ti spiazza ma poi ti fa risorgere». Scardicchio, mamma e pedagogista, non ha ricette da offrire alla platea di addetti ai lavori che la ascolta attenta nell’hotel bolognese che ospita il convegno nazionale di pastorale giovanile. Può solo testimoniare che il «buon educatore », tema dell’incontro, è una persona «in continua ricerca», onesta con se stessa e coraggiosa.
«L’educatore deve essere innanzitutto un adulto – spiega la ricercatrice che si occupa dal 1997 di progettazione e formazione negli ambienti dell’educazione e della cura –, mentre spesso, soprattutto in oratorio, si tratta di ragazzi troppo giovani. Deve avere competenze particolari, la prima è saper lavorare su se stesso con autenticità. Una persona che sappia guardare alla propria storia e alle proprie sofferenze e che nutra un desiderio appassionato di non smettere di cercare». In questo «mestiere» così difficile, per Scardicchio però il cuore non basta. «Cruciale per la crescita di un ragazzo – prosegue – è fargli domande senza però fornirgli risposte già pronte, perché significa sottovalutarlo. Invece un buon educatore-ricercatore è chi cammina al loro fianco, impara a osservare e soprattutto li sprona alla ricerca ».
Anche essere presi solo da obbiettivi pratici da realizzare è un errore. «Noi adulti – dice ancora – siamo credibili non quando siamo perfetti ma quando siamo in grado di vedere la nostra fragilità e di lavorare su di essa». Progettare dunque è il verbo. «Significa movimento, smottamento, innamoramento – conclude –. Innamorarsi della realtà coincide con il rischio e con la creazione. Col desiderio di ingravidare, col proprio slancio, il reale. È questo il senso della pedagogia fertile che fonda ogni progettazione».
Daniela Pozzoli

Da AVVENIRE, 22.02.2017


Nessun commento:

Posta un commento