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di MARCO FERRANDO
Avvolti da una
spirale di conflittualità che sembra a tratti inarrestabile, nel
mondo ma anche intorno a noi, ci ritroviamo sempre più spesso senza
parole. Superata la sorpresa, l’indignazione, la
preoccupazione, pare che ci resti solo il silenzio. Una
tentazione forte, che è anche l’anticamera della resa. Una doppia resa.
Perché con il silenzio accettiamo che le cose facciano il loro
corso, perché così neghiamo alla parola il potere e
la responsabilità di levarsi contro questa stessa spirale. E se
non di fermarla, almeno di offrire un’alternativa. Il 2025 si chiude
nel solco di come era cominciato. Ma è proprio dentro a questo
solco sempre più profondo e più buio che ogni singola
scintilla può non solo fare un po’ di luce, ma anche
accendere qualcosa, rendersi portatrice di una
discontinuità, generare qualcosa di imprevisto. La parola è una
delle poche armi che ci restano, soprattutto se si tratta di una
parola disarmata e disarmante, espressione nei fatti diventata
il controcanto di questo Giubileo della Speranza.
Chiunque dispone della
parola, chiunque ne ha la responsabilità, a partire da ciò che dice e da come
lo dice. Le cause e gli effetti si moltiplicano poi se dalla dimensione
personale si sale fino alla comunicazione, alla comunicazione di massa,
all’ecosistema dell’informazione che vi ruota intorno e che vive le stesse
fatiche del mondo che dovrebbe raccontare. A quasi un anno di distanza, tornano
alla mente le parole di papa Francesco nel messaggio per la giornata delle
comunicazioni sociali il 24 gennaio scorso.
«Troppo spesso oggi la comunicazione non genera speranza, ma paura e disperazione, pregiudizio e rancore, fanatismo e addirittura odio – metteva in guardia Francesco –. Troppe volte semplifica la realtà per suscitare reazioni istintive, usa la parola come una lama, si serve persino di informazioni false o deformate ad arte per lanciare messaggi destinati a eccitare gli animi, a provocare, a ferire».
Parole profetiche,
se rivediamo il film di questo drammatico 2025. In cui la
comunicazione, e l’informazione, si sono ritrovate al tempo stesso
strumento e vittima della polarizzazione che sempre più
scandisce il mondo diseguale in cui viviamo. Il crescendo di
conflittualità a cui assistiamo ha nell’informazione un potente
alleato se ne fornisce i contenuti e si presta nei modi, ma
diventa uno dei pochi antidoti nel momento in cui sfugge a questa
dinamica. Non è un caso che l’informazione sia finita sempre più spesso
nel mirino: lo dimostrano i 67 giornalisti morti (per lo più
uccisi) nel corso dell’anno secondo i numeri di Reporters senza
Frontiere, lo dimostrano gli interessi (e relativi conflitti) che
circondano la proprietà dei media, settore in crisi ma capace di
scatenare ancora grandi appetiti, lo dimostrano le conferenze stampa
sempre meno frequenti e sempre più scandite da copioni cinematografici.
È il fascino, e il potere, della parola. Che può avere esiti deflagranti se chi
la pronuncia «ha il fuoco dentro» come Dorothy Day, la giornalista americana
evocata da papa Leone XIV a fine novembre, che l’ha eletta a modello della
speranza come «prendere posizione», nella sua vita passata a «scrivere e
servire», in uno sforzo che la vedeva «unire mente, cuore e mani». Perché dalla
parola all’azione il passo è breve, ed è in questa combinazione così umana che
si può restare vivi anche in mezzo a tante intelligenze artificiali, è così che
si può accendere la speranza mentre tutto parla di guerra, è così che si può
dire qualcosa di nuovo mentre tutto sembra già sentito. Ed è così che corriamo
il rischio di veder germogliare «all’improvviso» quella «pace selvatica» di cui
scriveva il poeta israeliano Yehuda Amichai, citato ancora dal papa nel
messaggio Urbi et Orbi.
La parola ha un potere
ineffabile e trasformativo. La parola ci fa prossimi di chi ci sta intorno, ci
apre, ci pone delle domande, rende utile e imprescindibile interessarci e
informarci. E gli algoritmi non potranno averla vinta finché ci saranno di mezzo
persone, con i loro valori, i loro gusti, le loro attenzioni. No, il silenzio
non può e non deve prevalere.
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