La
terza età ci coglie sempre impreparati.
E attiviamo molte difese, spesso
disfunzionali.
Invece questo tratto di vita può essere un periodo di crescita,
nella relazione con l'altro.
-
di Mariolina Ceriotti Migliarese
Pensare all’attesa ci porta a interrogarci anche
sull’invecchiamento, fase della vita in cui il tempo prende un modo diverso di
avanzare, perché ci avvicina all’ignoto. Qual è il momento in cui diventiamo
vecchi? È difficile rispondere a questa domanda. La vecchiaia ci coglie sempre
un po’ all’improvviso; non ci accorgiamo di invecchiare, ma ci accorgiamo
piuttosto di essere diventati vecchi: di essere entrati in una dimensione in
cui il senso del tempo si modifica, il passato si schiaccia su se stesso e il
futuro si accorcia. Come ha scritto recentemente il Cardinale Scola, la vecchiaia «…mi è venuta addosso con
un’accelerazione improvvisa e per molti aspetti inaspettata». Forse un primo
segnale è il presentarsi inconsueto e insistente di pensieri di confronto con i
nostri genitori: cosa facevano alla nostra età, fino a che età sono vissuti,
quanti anni ci mancano per raggiungere o superare quel traguardo, come stavano
di salute alla nostra età. E poi ci sono (anche per chi sta bene) i piccoli e
inevitabili segnali di scricchiolamento del corpo: segnali a cui non facevamo
particolarmente caso e che ora invece attivano in noi un’ ansia nuova e
fastidiosa, che ci accompagna come un sottofondo sgradevole.
Anche
se la vecchiaia fa parte delle età della vita, non è facile pensarla davvero
come le altre età: pensarla cioè come un tempo di sviluppo, con un proprio
specifico “compito evolutivo” secondo il linguaggio dello psicanalista E. Erikson. Che compito evolutivo, e dunque migliorativo,
può esserci in una fase della vita in cui tutto ci parla di perdita e di
involuzione? Mentre tutte le tappe precedenti promettevano vita, l’approdo
certo della vecchiaia è la morte, e la morte è un pensiero che sbarra la strada
e che angoscia, perché si affaccia su qualcosa che non è pensabile.
L’inquietudine della fragilità ci coglie impreparati, e la cultura in cui siamo
immersi non ci aiuta a misurarci con l’idea della nostra finitezza, ma ci
spinge piuttosto a mettere in atto strategie difensive che tengano lontano le
vere domande, che sono domande di senso.
Una
prima difesa consiste nel proiettare sul mondo esterno l’aspettativa (o la
pretesa) di soluzioni risolutive, come ad esempio la magia di un sistema sanitario così perfetto da sconfiggere ogni
malattia e annullare la morte. La morte così non appare più come un evento
ineluttabile che non possiamo controllare, ma piuttosto come l’effetto del
fallimento di un sistema ancora imperfetto, e che possiamo perciò perfezionare.
Si muore per colpa di qualcuno o di qualcosa, e non semplicemente per la nostra
mortalità.
Un’altra
difesa traspare dal moltiplicarsi delle proposte assicurative, che dovrebbero rassicurarci e
diminuire l’angoscia attraverso la protezione contro ogni genere di evento
avverso. C’è poi il tentativo di anestetizzare le paure con la negazione:
l’anestetico proposto è da un lato l’iperattività, il non rallentare mai nemmeno
quando si invecchia; ma lo sono anche le innumerevoli forme di dipendenza che ci vengono proposte, accompagnate
dall’idea che per sopportare la vecchiaia l’unica soluzione sia immergersi in
una sorta di costante intrattenimento. Ancora più estrema appare poi la nuova
difesa che oggi ci viene suggerita tra le righe, e cioè quella di buttarsi
attivamente contro ciò che ci fa paura anticipandolo: difesa disperata che mi
sembra almeno in parte spiegare una delle dinamiche inconsce del movimento a
favore dell’eutanasia, che è il tentativo illusorio di prendere un controllo attivo
su ciò a cui non è in alcun modo possibile sfuggire. L’esperienza ci insegna
che tutte queste difese sono in realtà fortemente disfunzionali e inefficaci,
perché l’inquietudine dilaga e la paura non scompare affatto. Non solo, ma
l’uso massiccio di queste difese impedisce di riconoscere e utilizzare le
difese realistiche, funzionali e adeguate di cui potremmo invece disporre
davanti alla nostra vulnerabilità e alle nostre paure.
Per
l’essere umano di qualsiasi età la vera protezione dall’angoscia passa infatti
dalla relazione con altri esseri umani; la difesa dal limite e dalla fragilità
richiede che siamo capaci di soccorrerci e sostenerci l’un l’altro con il
reciproco affetto: una solidarietà concreta e calda che può realizzarsi solo
rimettendo al centro del nostro vivere insieme l’affidamento reciproco e la
reciproca responsabilità. In questo mondo così sfiduciato, l’anno giubilare ci invita a fermarci per riflettere
anche su questo: è possibile rileggere la vecchiaia (che accompagna verso la
morte) non solo nella paura, ma anche sotto il segno della Speranza? Nessuno di noi può conoscere in anticipo come
sarà per lui il tempo della vecchiaia: un tempo lungo o breve, di salute o di
malattia, di dipendenza importante dagli altri o di relativa indipendenza. E
nessuno di noi può capire davvero in profondità la lotta personale di ogni
singola persona che ci precede invecchiando. Possiamo osservare chi è più
avanti di noi in questo cammino, per cercare di imparare da chi ci precede
“invecchiando bene”, senza però giudicare chi ci sembra in difficoltà, chi
“invecchia male”. Sappiamo che dovremo lasciar andare le cose cui siamo
attaccati: la bellezza, la salute, le attività che ci permettevano di
controllare almeno un po’ la realtà intorno a noi. A volte dovremo rinunciare
anche a controllare la nostra realtà interna, perché potremo perdere almeno in
parte la lucidità e la memoria. Nessuno di noi può credere di essere davvero
preparato a questo.
Più
che in ogni altra età della vita, nella vecchiaia il compito di ciascuno si fa
del tutto personale: ognuno dovrà esplorare la “sua” vecchiaia, che sarà del
tutto unica e in continuità con la sua storia così come è stata. Non c’è “la
vecchiaia” e non c’è un modo solo per affrontarla: c’è o ci sarà la “mia”
vecchiaia, e dovrò trovare il mio modo per viverla. Si può partire solo da ciò
che siamo, senza infingimenti: la nostra storia, le nostre relazioni, le nostre
risorse, i nostri limiti, i nostri errori. Ciò che siamo oggi è il punto di
partenza, il “dato” da cui partire. Non si tratta di contare gli errori del
passato, o di coltivare inutili rimpianti: questa nuova età ci pone di fronte
una sfida tutta da vivere, giorno dopo giorno, e dobbiamo domandarci non solo
come stare nel presente, ma anche come andare verso il futuro. Dobbiamo
iniziare a chiederci cosa è davvero essenziale, per cui vale la pena investire
le risorse che ci restano; possiamo chiederci cosa in noi può ancora crescere,
dove possiamo ancora cambiare (nel carattere, negli atteggiamenti, nella
pazienza, nella capacità di affidarci) e cosa abbiamo trascurato di importante.
La crescita nell’anziano è possibile, ma si muove in direzione della
profondità, fino a intuire che l’anima umana può espandersi fino a voler uscire
da un corpo divenuto ormai troppo stretto per contenerla.
L’eternità
che ci viene promessa e verso cui coltivare la Speranza non è un tempo. Può
capirlo chi ha perso una persona molto cara e ha sperimentato come questo
incide sulla sua percezione del tempo. Dopo un lutto importante il tempo sembra sdoppiarsi, e accanto
al tempo cronologico (che continua inesorabilmente a
scorrere allontanando la persona che amiamo) iniziamo a percepire una
dimensione più sotterranea, che riesce a mantenere vicino a noi chi se ne è
andato, in un costante presente. Non si tratta solo di una dimensione psicologica;
se guardiamo più da vicino e più profondamente questa esperienza singolare,
iniziamo anche a comprendere cosa significa che l’eternità è un presente senza
fine: possiamo percepire che chi ci ha lasciato rimane vicino a noi, al di là
del tempo che scorre, nella dimensione senza tempo dell’eternità.
E’ quello il
luogo dove stiamo andando, e dove ci troveremo di nuovo: il luogo dove ci
accompagna la Speranza, e dove potremo contenere tanto più Amore quanto più
saremo diventati capaci di contenerlo, magari utilizzando bene proprio l’ultimo
tratto della nostra vita, in apparenza così faticoso e inutile.
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