Non ci sono più le mezze stagioni?
No, sono proprio le stagioni a non esserci più: nella nostra carne.
- di Alessandro D'Avenia
All’inizio le raccontava la terra, Omero infatti ne trova tre nel ritmo dei
campi: il periodo dei raccolti, quello del riposo e quello del risveglio.
Il ciclo vivente del terreno e di noi terreni: seminare, mietere,
riposare. Lavoro e attesa. Azione e riposo. Fu poi un altro greco nel I sec
a.C., l’astronomo Sosigene di Alessandria, a calcolare in modo preciso le
quattro stagioni che Giulio Cesare impose al mondo nel 46 a.C. con il
suo calendario. Infatti, la luce del Sole segna quattro giorni astronomici: i
due solstizi (il sole sta), cioè il giorno con più luce, all’inizio
dell’estate, e quello meno luminoso, all’inizio dell’inverno, e gli equinozi
(aequa nox: notte uguale al giorno), cioè i due giorni in cui luce e buio si
equivalgono (inizio della primavera e dell’autunno). Le tre stagioni si
basavano sugli effetti terreni, le quattro (nelle zone temperate) sulle cause
celesti. Comunque sia il tempo è scandito dal rapporto tra macro e
microcosmo, un nodo di leggi naturali e vita umana che dà il ritmo
all’esistenza. Un nodo che è stato sciolto dalla tecnologia, siamo poco legati
alla terra e al cielo: nei supermercati non ci sono stagioni e il nostro ritmo
circadiano (l’orologio biologico che regola le funzioni del corpo in base
alla luce) è in tilt (siamo sempre in jet-lag a prescindere dall’ora
legale...). Delle stagioni ci rimane solo un sentimento, un capolavoro di
Vivaldi o una pizza? A che prezzo?
Abbiamo perso il senso
del tempo ciclico e quindi il fatto che anche noi, come i campi, siamo fatti
per semina, raccolto e riposo. La nostra costante produzione ci esaurisce e
l’ansia quotidiana ce lo grida. Per cercare le cause, chiedo agli studenti
che cosa determina le stagioni e rispondono: la distanza dal Sole. È vero
il contrario: nel nostro emisfero l’estate cade proprio quando la Terra ne è
più lontana. Il ritmo delle stagioni dipende infatti dalla combinazione dell’inclinazione
dell’asse terrestre con l’orbita attorno al Sole: muta l’angolo di
incidenza dei raggi. Questa perdita della connessione con le leggi del cosmo
riduce la natura a emozione da foto e porta all’indifferenza verso la mirabile
logica del creato. Ci dovrebbe lasciare a bocca aperta che ci siano leggi
precise a regolare tutto perché questo significa che la vita, nella sua
incalcolabile varietà di fenomeni, si dà solo grazie a relazioni armoniche:
orbite, corolle, alveari, occhi... Il disordine e la bruttezza li dobbiamo alla
sospensione della logica della e nella vita. Infatti, l’arte (e quindi il
lavoro umano) imita la natura non perché la riproduce, altrimenti la fotocopia
sarebbe l’arte suprema, ma per fare «come» fa la natura: agire in vista della
vita, di una vita bella e buona. Quando Cristo deve spiegare come il Padre
cura gli uomini invita infatti a guardare i fiori selvatici: «Osservate
come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Ma io vi dico che
neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio
veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non
farà assai più per voi, gente di poca fede?» (Mt 6).
Abbiamo perso la fede,
prima che in Dio, nella realtà. La realtà è superata: crediamo più allo schermo
che alla finestra, alla luce artificiale che a quella naturale. Non era così
per Antoni Gaudí, architetto della Sagrada Familia a Barcellona, che al tramonto
del XIX secolo inventò strutture architettoniche mai viste «trovandole»
(inventare viene dal verbo latino per trovare) in natura, osservando alberi e
conchiglie. Mise le stagioni in un edificio: era un genio perché era
umile. Chi entra in quel tempio sente il legame tra il cosmo e la
propria vita. Lo stesso legame che aveva ispirato 5000 anni prima di Gaudí i
costruttori di Stonehenge, calendario astronomico e rituale in pietra: nei
solstizi il Sole sorge o tramonta in perfetto allineamento con le pietre
principali, illuminandolo come un tempio. Quei popoli dipendevano già dal nesso
tra cosmo e vita umana, per loro scienza, arte, religione, lavoro, festa erano
tutt’uno. E noi, nostalgici di questo nodo e dispersi in frammenti senza senso,
andiamo ad ammirare il «monumento», dal latino monere: far sapere, ricordare.
Che cosa? Che la vita ha una logica, è fatta per la luce.
Il Tempio della
Concordia ad Agrigento è famoso perché il Sole nascente illumina l’interno
della cella (l’ambiente più sacro, dove c’è il dio) nell’equinozio di
primavera. Anche a Chichén Itzá in Messico, sulla Piramide di Kukulkán (XI
sec) i Maya aspettavano l’arrivo del dio rappresentato dal serpente piumato
creato dalla luce sulla scalinata nei giorni equinoziali. Nel tempio principale
di Angkor Wat in Cambogia (XII sec) in quei giorni le torri all’alba
incorniciano il disco solare. A Machu Picchu in Perù (XV sec)
l’Intihuatana («pietra che lega il Sole») indicava agli Inca solstizi ed
equinozi. Nell’Isola di Pasqua i grandi Moai di pietra di Ahu Akivi
(XIII-XV sec) guardano il tramonto del Sole nell’equinozio di primavera e gli
danno le spalle all’alba in quello d’autunno, per segnare l’attesa del ritorno
della luce e di un nuovo ciclo. Nella cattedrale di Chartres in
Francia (XIII sec), a mezzogiorno del solstizio d’estate, un raggio di luce
attraversa un foro nella vetrata di Saint Apollinaire e illumina un chiodo nel
pavimento al centro di una mattonella storta, un simbolo del legame tra il Dio
creatore e ogni singola cosa, anche una punta di spillo («anche i capelli del
vostro capo sono contati» dice Cristo per ribadire la cura del Padre). A San
Miniato al Monte, a Firenze, all’alba dell’equinozio di primavera, la luce
illumina il segno del Cancro nello zodiaco marmoreo sul pavimento, a memoria
della nascita del Battista in quei giorni, patrono della città e testimone
supremo di Cristo.
Si potrebbe continuare ma
bastino questi «monumenti» a ricordare che, per culture lontane e così diverse,
«sacro» è lo spazio che lega il cosmo alla vita quotidiana: cielo e terra,
stella e campo, culto e coltura, divino e umano... In una cultura che dimentica
questa armonia l’uomo si illude di essere padrone della vita, di esserne lui la
legge, fino a rovinarla con effetti che oggi sono sconfortanti. Il poeta e
Nobel Josif Brodskij, nel suo libro su Venezia, narra che durante il
Medioevo, per avere un bel bambino, si invitava la donna incinta a guardare
solo cose belle: concepiamo e generiamo vita in base a ciò con cui siamo in
relazione (a Venezia lo si vede). Se ci accontentiamo delle piccole luci dei
nostri schermi (ri-)produrremo qualche bagliore artificiale, simulacri di vita.
Ma i grandi parti (concezioni) sono frutto dall’osservazione innamorata della
realtà, dalle mele di Newton ai girasoli di Van Gogh, perché la vita è un
nodo di cielo e terra, è data e affidata, ha una logica da custodire, osservare,
scoprire e compiere. La Terra è inclinata di circa 23° rispetto alla
perpendicolare del piano dell’orbita: senza questa «stortura» il giorno sarebbe
sempre uguale alla notte e non ci sarebbero stagioni. Nella nostra lingua
«inclinazione» indica anche ciò verso cui si è portati.
La Terra è portata per il
Cielo, noi per la luce, quella vera: venire alla luce e dare alla luce.
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