sulle macerie di Gaza?
Una
imponente manifestazione e le sue ragioni
I
più anziani assicurano che da decenni non si assisteva a una mobilitazione
popolare come quella del 22 settembre, in seguito allo sciopero generale
indetto dell’Unione sindacati di base (USB) per Gaza.
I
giornali governativi hanno cercato invano di minimizzare la portata della
manifestazione, parlando addirittura di un flop. A smentire questi tentativi di
disinformazione ci sono – alla portata di tutti, su internet – le foto e i
video dei cortei che in più di 80 città italiane hanno coinvolto un numero di
persone strabocchevole, mai visto ultimamente. I numeri ufficiali, come sempre
in questi casi, variano molto. Ma sicuramente si è trattato di centinaia di
migliaia di partecipanti.
Al
di là dell’aspetto quantitativo, ha colpito gli osservatori quello qualitativo.
C’erano le persone più diverse: hanno sfilato per ore l’uno accanto all’altro
operai, professionisti, madri di famiglia coi bambini in passeggino,
anziani e anziane, ragazzi e ragazze di tutte le età. Un popolo.
Il
destinatario della protesta, ovviamente, non erano Netanyahu e Hamas, i diretti
responsabili, ma il nostro governo, che in tutto questo tempo ha sempre
limitato unilateralmente la sua condanna ai terroristi islamici, per il
massacro del 7 ottobre e la detenzione degli ostaggi, rifiutando invece di
prendere posizione nei confronti della carneficina, di proporzioni enormemente
superiori, che da quasi due anni Israele sta perpetrando.
La nostra premier continua a ripetere che nessuno Stato ha fatto tanto per Gaza quanto il nostro.
Ma i fatti parlano diversamente.
L’Italia
si è rifiutata di votare ben tre risoluzioni dell’Assemblea dell’ONU –
rispettivamente il 27 ottobre 2023, il 13 dicembre dello stesso anno, il 15
settembre 2024 – volte a chiedere il cessate il fuoco e a fermare il massacro
di civili. E, sempre in nome dell’esigenza di «non isolare Israele», ha
addirittura accolto per due volte a Roma, con tutti gli onori, il presidente
israeliano Herzog, proprio in questi giorni riconosciuto colpevole dalla
Commissione indipendente dell’ONU del crimine di «genocidio».
Solo
alla fine di agosto Meloni, davanti all’insorgere dell’opinione pubblica
internazionale, ha ammesso che la reazione israeliana «è andata oltre il
principio di proporzionalità, mietendo troppe vittime innocenti». Ma alle
parole – peraltro molto blande – non hanno fatto seguito, da parte dell’Italia,
né la sospensione delle forniture di armi, né quella del sostegno economico
allo Stato ebraico. E anche il riconoscimento dello Stato palestinese – unico
argine al dichiarato progetto israeliano di cancellare la popolazione di
Gaza e della Cisgiordania – è stato definito dal ministro degli Esteri
Tajani «prematuro».
Al
nostro paese Netanyahu non poteva chiedere di più. Anche rispetto agli altri
governi europei, quello dell’Italia è stato insieme a quello degli Stati
Uniti, il suo più fedele amico.
Era
dunque al governo italiano che le centinaia di migliaia di manifestanti hanno
chiesto un drastico cambio di passo, per cui, senza abbandonare la richiesta
del rilascio degli ostaggi da parte di Hamas, si arrivi finalmente alla
condanna di ciò che Israele sta facendo ai civili e a una pressione concreta
per il cessate il fuoco, attraverso l’interruzione dei rapporti militari e commerciali
con lo Stato ebraico.
A
questo appello che saliva dalle piazze Giorgia Meloni ha risposto semplicemente
ignorandolo e concentrandosi sulla condanna dei tafferugli che poche centinaia
di estremisti hanno scatenato devastando l’ingresso della stazione ferroviaria
di Milano: «Indegne – ha detto la premier – le immagini che arrivano da Milano
(…). Violenze e distruzioni che nulla hanno a che vedere con la solidarietà e
che non cambieranno di una virgola la vita delle persone a Gaza, ma avranno
conseguenze concrete per i cittadini italiani, che finiranno per
subire e pagare i danni provocati da questi teppisti».
È
stato notato che la presidente del Consiglio non ha mai usato parole di sdegno
così dure per i 70.000 palestinesi – in gran parte donne e bambini – uccisi in
questi mesi, per non parlare dei due milioni e mezzo che sono stati affamati,
assetati, umiliati, deportati con inaudita arroganza e violenza dall’esercito
israeliano.
Quanto
al vicepremier Salvini – che qualche giorno fa in un’intervista a una
televisione israeliana ha dato la sua piena solidarietà a Israele, sostenendo
che «ha il diritto di difendersi» e che l’indignazione ormai dilagante a
livello internazionale è frutto solo di «antisemitismo» – , ha parlato
dei manifestanti come di «criminali, teppisti e delinquenti», e ha
sfruttato subito le violenze per lanciare un’ulteriore proposta restrittiva
sugli scioperi, dopo quelli già introdotti col Decreto sicurezza. «Chiederemo —
ha detto in un punto stampa — una cauzione a chi organizza cortei e
manifestazioni, in caso di danni pagheranno di tasca loro».
Colpisce
che la reazione della grande maggioranza della stampa e delle televisioni,
anche non di destra, sia stata in sintonia con quella del governo e abbia
quasi ignorato l’imponente mobilitazione popolare di 80 città italiane
riducendola all’incidente – peraltro molto circoscritto – di Milano. Così, il
titolo di prima pagina del maggiore quotidiano italiano, il «Corriere della
Sera», era l’indomani: «Guerriglia a Milano su Gaza». Su questa linea molti
altri.
Lo
scollamento della politica dai valori
Eppure,
malgrado questi sforzi convergenti per vanificarlo, l’evento del 22 settembre
costituisce un segnale importante di novità. Significativo che ad esso abbiano
partecipato, numerosissimi, gli studenti, sia universitari che degli istituti
secondari. Per chi ha esperienza della scuola, non è strano che le lezioni
siano disertate invocando il primo motivo plausibile per “fare vacanza”. Strano
è, però, che, invece di andarsene a casa o di bighellonare, come purtroppo
speso accade in occasione degli “scioperi” studenteschi, questa volta gli
alunni nella grande maggioranza abbiano partecipato alle manifestazioni, a
volte insieme ai loro professori.
Da
molto tempo non si riusciva a offrire ai più giovani un obiettivo credibile per
cui investire il loro impegno civile.
Sappiamo
tutti a cosa si è ridotta la politica, e non soltanto nel nostro paese. Anche
gli adulti più maturi e temprati, in questo momento storico stentano a
vincere lo scoraggiamento di fronte allo scenario internazionale e ai
personaggi che recitano in esso la parte di protagonisti. E quanto alla
vita politica italiana, è difficile dire se siano meno entusiasmanti i
rappresentanti del governo (di cui abbiamo appena misurato la sensibilità
democratica) o quelli dell’opposizione (cronicamente autoreferenziali e
divisi, al punto di presentarsi alla votazione sul riarmo con cinque
mozioni diverse).
Quel
che è certo è che, alle ultime elezioni europee, hanno votato solo il 49,69%
degli aventi diritto. Meno della metà. Se si fosse trattato di un
referendum, la consultazione non sarebbe stata valida. Era la prima volta che
questo accadeva, nella storia della Repubblica. E, anche nelle ultime elezioni
politiche del 2022, è andato alle urne solo il 63,08 %. Anche in questo caso si
tratta della percentuale più bassa nella storia repubblicana.
La
triste verità è che sia la destra che la sinistra, oggi, non rappresentano
il paese reale. E che la politica somiglia sempre di più a un monologo
autoreferenziale recitato dalla cosiddetta “classe dirigente” sulla scena di un
teatro mezzo vuoto. Una spiegazione di fondo è che in Italia – come in tutto
l’Occidente – si è registrato ormai uno svuotamento di quell’ideale democratico
che aveva galvanizzato, nel dopoguerra, la grande maggioranza dei cittadini,
spingendoli ad una partecipazione che a livello elettorale raggiungeva il 90%.
Ma
allora c’erano ancora delle idee in cui credere e in nome di cui lottare,
discutere, scontrarsi (vi ricordate don Camillo e Peppone?). La dimensione
valoriale permeava la politica ed era all’origine della dialettica
democratica, che metteva a confronto concezioni diverse, a volte opposte, ma
tutte ispirate – fondatamente o meno – a un progetto di bene comune non solo
economico, ma integralmente umano. Oggi invece, come ha coraggiosamente
denunziato papa Francesco nella «Laudato si’», la politica è subordinata
all’economia e l’economia, a sua volta, alla finanza.
Col
risultato che il successo del nostro governo è assicurato dalla promozione
da parte delle agenzie finanziarie internazionali, anche se, come segnala il
recente rapporto Oxfam del gennaio scorso, l’Italia risulta essere sempre più
divisa in termini di disuguaglianze economiche.
Nel
2024 la ricchezza dei miliardari italiani è aumentata di 61,1 miliardi di euro,
al ritmo di 166 milioni di euro al giorno, e oggi 71 individui detengono 272,5
miliardi di euro, mentre oltre 2,2 milioni di famiglie, per un totale di 5,7
milioni di persone, vivono in condizioni di povertà assoluta.
Una
prospettiva nuova
Le
persone, soprattutto i giovani, difficilmente possono essere entusiasmate da
una politica che funziona così, anche quando appartengono alla fascia
privilegiata. E ci sono esperienze traumatiche in grado di risvegliare nelle
coscienze il senso del bene e del male, scardinando l’abitale indifferenza a
ciò che non riguarda il proprio interesse.
La
vicenda di Gaza si sta imponendo – e non solo in Italia – come una di queste
esperienze. Le immagini trasmesse ogni giorno dalle reti televisive, i video
circolanti su internet, le innumerevoli testimonianze provenienti dalla
Striscia, hanno definitivamente fatto crollare la versione del governo di Tel
Aviv, secondo cui, al di là di inevitabili danni collaterali, l’azione
dell’Idf avrebbe sempre avuto di mira i terroristi di Hamas, nel pieno rispetto
dei diritti umani. Tutti hanno potuto vedere con i loro occhi che la realtà era
un’altra.
Nell’inerzia
del nostro governo, la gente si è mossa autonomamente, a di fuori di schemi
partitici, per far sentire la propria voce.
Può
essere un inizio. Il recupero di una partecipazione dal basso che, senza
necessariamente incanalarsi in forme istituzionali, condizioni però le istituzioni
e le costringa a cambiare il loro stile. Non è necessario per questo attendere
le prossime elezioni politiche.
Ci
sono i sondaggi, a cui le forze politiche sono molto attente. Ci sono le
prossime elezioni regionali. Occasioni per condizionare i rispettivi partiti di
appartenenza – di destra o di sinistra che siano – e riportarli a quel senso
della persona umana che dovrebbe caratterizzare una politica degna di questo
nome.
L’alternativa,
purtroppo, è il progressivo radicalizzarsi dello scontro fra un governo sempre
più orientato a limitare le libertà civili in nome dell’ordine, della stabilità
e della sicurezza – valori propri, da sempre, di tutti i regimi autoritari
– ed espressioni sfrenate e controproducenti di rifiuto di queste
restrizioni.
Col
risultato, in realtà, di legittimare agli occhi dell’opinione pubblica
ulteriori strette. Già oggi, a sproposito, sono state evocate le Brigate rosse
per criminalizzare l’opposizione, accusandola di fomentare l’odio e
la violenza per il solo fatto di contestare la linea del governo.
Solo
un ritorno alla partecipazione può fermare questa potenziale spirale, per ora
appena abbozzata, in cui autoritarismo e protesta violenta
potrebbero finire per alimentarsi a vicenda.
La
risposta dei comuni cittadini alla tragedia di Gaza fa sperare che gli
italiani si stiano ridestando alla prospettiva etica della politica e possano
dare una svolta in questo senso alla nostra democrazia.
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