della Giustizia
tra testo e contesto
Uno scontro violento in Senato
Può
sorprendere la violenza dello scontro che il 22 luglio scorso ha fatto
seguito all’approvazione, in Senato, della riforma costituzionale sulla
separazione delle carriere dei magistrati.
A
prima vista, infatti, la nuova normativa, prevedendo due diversi concorsi,
senza più possibilità di passare da una funzione all’altra, viene solo a
consacrare una situazione di fatto già esistente.
I
numeri dei passaggi dalla funzione inquirente a quella giudicante e viceversa
erano già esigui in passato (un campione: tra il 2011 e il 2016 il fenomeno ha
riguardato rispettivamente lo 0,21% degli inquirenti e lo 0,83 dei giudicanti),
e, con la riforma Cartabbia, si sono ulteriormente ridotti, scendendo, nel
2023, a soli 34 su un organico di quasi 10.000 magistrati.
Né
sembra creare problemi lo sdoppiamento del Consiglio superiore della
magistratura, visto che entrambi gli organismi manterranno le
stesse funzioni di quello attuale e saranno composti anch’essi da due
terzi di membri “togati”, scelti cioè, dai giudici, e un terzo di
membri “laici”, scelti dal Parlamento, e sempre comunque sotto la
presidenza del presidente della Repubblica.
Due
assolute novità per la verità ci sono. Una è il sistema di designazione
dei membri, che attualmente si basa sull’elezione, mentre nella riforma
costituzionale si prevede che avvenga per sorteggio, per i “togati” tra
tutti i magistrati, per i “laici” da un elenco di giuristi compilato dal
Parlamento. L’altra è la nascita di un’Alta Corte, che sarà investita della
funzione disciplinare, finora svolta dal Csm.
In
ogni caso, però, è chiaro che il disegno di legge, preso in sé, non giustifica
l’importanza estrema che alla sua approvazione attribuiscono la maggioranza e
il governo, al punto da considerarlo un passo decisivo nel dare all’Italia,
come ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, «un sistema
giudiziario sempre più efficiente, equo e trasparente» e una svolta decisiva
per gli stessi magistrati, «restituendo dignità a un’intera categoria», secondo
le parole del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro.
Così
come non si capisce, a prima vista, la durezza estrema del dissenso delle
opposizioni, espressa in modo esemplare dal giudizio dell’ex magistrato e
senatore 5stelle Roberto Scarpinato: «La separazione delle carriere è un
regolamento di conti della casta dei potenti contro la magistratura, uno
stravolgimento dell’ordinamento giudiziario previsto dalla Costituzione,
un’impostura politica diretta a spacciare come interesse generale del paese,
gli interessi di questa maggioranza».
Una
riforma dedicata a Berlusconi
Il
punto è che, come ormai ci ha insegnato l’ermeneutica, un testo va letto nel
suo contesto e solo in esso rivela il suo vero significato. Così è della
riforma in questione, che si colloca all’interno di una storia iniziata con la
crisi della Prima Repubblica – per quella “Tangentopoli” in cui sembrò, a un
certo momento, che i giudici, a colpi di avvisi di garanzia,
fossero diventati gli arbitri della politica italiana – e con l’avvento
della Seconda, ovviamente segnata dalla reazione a questa esperienza .
Non è un caso che l’approvazione del disegno di legge da parte del Senato sia stata dedicata dal governo, in particolare da Forza Italia, all’uomo-simbolo della nuova stagione inauguratasi con le elezioni del 1994, Silvio Berlusconi, «che», come ha detto commosso il vicepremier Antonio Tajani (a lungo suo stretto collaboratore) «ha dedicato una parte importante della sua attività politica alla riforma della Giustizia.
“Oggi ci è riuscito, e ci guarda da
lassù».
Non
c’è dubbio che con la Giustizia Berlusconi abbia avuto molto a che fare. Dalla
seconda metà degli anni 1980, quando era ancora solo un imprenditore
rampante, fino al 2023, anno della sua morte, il “cavaliere” è stato
imputato in ben 36 processi, anche se – per assoluzioni o per prescrizioni, e
con l’aiuto di leggi “ad personam” da lui stesso fatte varare come presidente
del Consiglio uno solo di essi ha portato a una sentenza definitiva passata in
giudicato, nel 2013, con la condanna a quattro anni di reclusione per
«frode fiscale, falso in bilancio e appropriazione indebita».
Berlusconi
e i suoi sostenitori hanno sempre attribuito questa singolare esposizione
giudiziaria a una persecuzione da parte di magistrati «comunisti». In
alternativa a questa accusa c’era quella di disturbi mentali, estesa a tutta la
categoria: «Questi giudici», affermava nel 2003, mentre era presidente del
Consiglio, «sono doppiamente matti. Per prima cosa, perché lo sono
politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere
mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro
è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana».
Da
qui anche il tentativo di neutralizzarli con un controllo politico. è
significativo che, fin dalla formazione del suo primo governo, Berlusconi abbia
proposto alla carica di ministro della Giustizia Cesare Previti, avvocato della
Fininvest, impresa di sua proprietà. Fu il presidente della Repubblica Oscar
Luigi Scalfaro a bloccare questa nomina, vistosamente dettata da interessi
personali, cosicché Previti fu dirottato sul meno sensibile ministero
della Difesa.
Qualche
anno dopo Previti – coimputato con Berlusconi, che, pur definito dai
giudici «il privato corruttore» e «il mandante», si salverà però per una
precedente sentenza che gli aveva riconosciuto le attenuanti generiche e
per intervenuta prescrizione – sarà condannato con sentenza definitiva a sei
anni di reclusione nel processo Imi-Sir per una vicenda di corruzione di
magistrati (Cassazione, 4 maggio 2006).
L’attuale
governo e il suo scontro aperto con la magistratura
Sulla stessa
linea di aperta conflittualità si è mosso l’attuale governo, che di
Berlusconi ha fatto fin dall’inizio il suo punto di riferimento morale e
politico, indicendo una settimana di lutto nazionale per la sua morte.
A
costituire un nuovo motivo di attrito è stata la politica nei confronti dei
migranti, che la premier e Salvini hanno fin dall’inizio considerata un punto
di primaria importanza, tanto da farlo diventare, anche a livello
internazionale, un modello per tutta l’Europa.
Il
problema però sono state le leggi che, secondo i magistrati, tutelavano i
diritti degli interessati. Il caso più clamoroso, in questo scontro tra la
magistratura e la politica, è stato quello del Centro creato dal governo,
con una spesa ingentissima, in Albania, e che finora non è stato mai
utilizzato a causa delle ripetute sentenze giudiziarie che non hanno
convalidato i decreti del governo.
Ma
una grande risonanza ha avuto pure il processo al vicepremier Salvini che, in
quanto ministro degli Interni nel primo governo Conte, aveva bloccato lo sbarco
di 135 migranti dalla Open Arms.
La
Procura di Palermo aveva chiesto una condanna di sei anni, ma poi il Tribunale
aveva assolto l’imputato «perché il fatto non sussiste». Una sentenza
contro cui in questi giorni la stessa Procura ha fatto appello alla Corte di
Cassazione, suscitando l’indignazione della destra e della stessa Meloni.
In
tutte queste vicende l’elemento costante sono state le accuse del governo alla
magistratura di non limitarsi ad applicare le leggi, ma di darne una interpretazione
politica. Un’accusa che, in realtà, ha il limite di non tener contro della
natura stessa del lavoro del magistrato che, per applicare norme generali a un
caso concreto, deve necessariamente darne una interpretazione.
Che
poi questa sia quella corretta, secondo la nostra Costituzione non tocca alla
politica stabilirlo, ma ad altri giudici, in un grado successivo di giudizio. È
la logica della divisione dei poteri.
In
base a essa non è corretto che un organo costituzionale ne attacchi un altro, a
parole – come avviene continuamente da parte di rappresentanti del
governo – o con comportamenti concreti, come quando alcuni ministri hanno
partecipato, a Palermo, in occasione del processo Salvini, a una manifestazione
di protesta conto i giudici.
Questo
non significa affatto che la magistratura non abbia al suo interno seri
problemi, come ha dimostrato la scandalosa vicenda del giudice Palamara, che
certo non è bastata a risolverli.
Il
gioco delle correnti, la lottizzazione delle nomine dei vertici degli uffici
giudiziari, non sono certo ombre da poco per un organo a cui dalla Costituzione
sono affidati poteri che nessun altro ha, come quello di decidere della libertà
dei cittadini.
Ben
vengano, dunque, i tentativi di trovare rimedi a questa situazione. È stato il
clima che si è creato a rendere quello che doveva essere un dialogo costruttivo
uno scontro frontale fra due poteri di pari dignità costituzionale.
L’Associazione Nazionale Magistrati, che più volte in questi ultimi anni è
dovuta intervenire per difendere da accuse ed insulti i suoi membri, è stata
fin dall’inizio contrarissima alla riforma in corso.
La
risposta del governo e della sua maggioranza è sintetizzata nel post di
Fratelli d’Italia dopo l’approvazione del Senato: «Nel solco della sua peggiore
tradizione, certa magistratura continua a usare il proprio potere per tentare
di influenzare l’azione di un Governo democraticamente eletto: si diano pace,
abbiamo promesso agli italiani di riformare la giustizia e andremo fino in
fondo».
Sospetti
generati da un clima
E
sulla riforma, ora, pesano sospetti che il testo, in sé, non autorizza, ma che
il contesto suggerisce a chi vede nel fronte delle forze che la promuovono non
un interlocutore critico, ma un acerrimo nemico.
Primo
fra tutti il sospetto che lo scopo del governo sia – nella logica della futura
riforma del premierato a cui Meloni aspira – rafforzare sempre di più
l’esecutivo, sganciandolo dal controllo dei magistrati, come ha già
fatto in Ungheria Orbán e sta facendo negli Stati Uniti Trump, entrambi
ammirati modelli della nostra premier.
E
che, staccando il ramo inquirente da quello giudicante, lo si voglia
progressivamente trasformare in una specie di super-polizia, controllata dal
governo.
Né
giova a dissipare questo dubbio la difesa fatta mesi fa dal ministro della
Giustizia dell’introduzione di test attitudinali per i nuovi assunti nella
magistratura: «L’esame psico-attitudinale» – ha ricordato Nordio –
«è previsto per tutte le funzioni più importanti del Paese, ma soprattutto è
previsto per le forze dell’ordine.
Il
pubblico ministero è il capo della polizia giudiziaria che è sottoposta al
test. Se sottoponiamo ai test chi obbedisce al comandante, è possibile non
sottoporre a test chi ha la direzione della polizia giudiziaria?».
Dichiarazione
sorprendente, da parte di un ex magistrato, ma anche semplicemente da
parte di un cittadino, perché misconosce la differenza radicale
tra un poliziotto, che è un impiegato della pubblica amministrazione, e un
magistrato, che, fa parte di un potere costituzionale e non ha superiori a cui
rispondere se non la legge (art. 101 della Costituzione).
E
se poi si dicesse che i test attitudinali sono opportuni per chi svolge
incarichi particolarmente delicati, i primi ad esservi sottoposti dovrebbero
essere, insieme ai giudici, i membri del governo e i parlamentari. E forse,
alla luce di quanto sta accadendo, non sarebbe male.
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