FELICITA'
IMPOSSIBILE ?
Questo fa di noi un paradosso: siamo esseri finiti che
vogliono l'infinito. Ma la felicità è allora solo un'illusione? L'infinito ce
lo siamo inventati perché abbiamo paura di morire?
Il desiderio di felicità
Certo è che il desiderio di felicità definisce l’esistenza
umana: dire «io» è dire che cosa desidero, da cosa sono mosso. Per conoscere
qualcuno, chiedo: ma tu che cosa desideri veramente? Jay Gatsby costruisce il
suo «pursuit of happiness» (ricerca della felicità nel DNA del suo Paese sin
dal primo articolo della Dichiarazione di Indipendenza) attorno a Daisy,
oggetto supremo e idealizzato del desiderio. La felicità però non è mai un
oggetto, perché è ricerca di infinito, ma il materializzarla in cose e persone
dà a noi umani il sentimento di esistere: sentire di aver presa o addirittura
controllo sulla vita allenta l'ansia dell'ignoto, tempera la paura della morte.
Però, alla prova dei fatti, questa felicità risolta per lo più nella nota
triade Possesso, Potere, Piacere non basta mai: le cose (o le persone
trasformate in cose) da cui crediamo di ricevere controllo sulla vita si
rivelano insufficienti e insoddisfacenti, ci danno ben-essere ma non
l'infinito, l'esser-bene.
Se bevo la sete si estingue, il desiderio di felicità invece
non passa mai: sopravvive a ogni traguardo, anzi aumenta.
Un indefinito
Lo sa bene Gatsby che di notte torna a fissare in lontananza
dalla sua immensa villa una luce verde, tanto presente quanto irraggiungibile,
un «indefinito» che, come aveva intuito Leopardi e forse capita ancora anche a
noi con l'orizzonte e le stelle, è solo un promemoria fisico dell'infinito che
cerchiamo: «Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgasmico che anno per
anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani
andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia… e una bella
mattina…».
Quella di Gatsby è una fede, crede nella luce verde che
segnala l'intraducibile «orgastic future», la felicità assoluta, uno stato di
unione totale, vita che non muore più, il paradiso (orgasmo inesauribile) in
terra: i doppi punti di sospensione del testo ci fanno «sentire» la tensione
delle braccia e la speranza di quella mattina definitiva. Da qui viene la
fretta, esito dell'inquietudine, che ci fa accelerare sempre di più verso quel
futuro. Infatti a queste parole che descrivono magistralmente il desiderio
umano di felicità, il narratore aggiunge la tragica ultima riga del libro:
«Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel
passato».
Il nostro sforzo per perseguire la felicità totale e senza
cadute è vano, perché un essere finito non può procurarsi l'infinito: la
corrente del tempo vince ogni sforzo e, trasformando ogni «sarà» e ogni «è» in
un «è stato», ci relega nel passato. Per questo molte filosofie puntano
all'estinzione del desiderio come via per la felicità: ci procuriamo da noi
stessi il dolore della mancanza bramando ciò che tanto non ci soddisferà. Ma
allora il desiderio è solo un senso di vuoto creato dalla coscienza per gestire
più o meno maldestramente la paura della morte?
Mario Luzi risponde così in una poesia del 1999: «Di che è
mancanza questa mancanza,/ cuore,/ che a un tratto ne sei pieno?/ Di che? Rotta
la diga/ t’inonda e ti sommerge/ la piena della tua indigenza.../ Viene,/ forse
viene,/ da oltre te/ un richiamo/ che ora perché agonizzi non ascolti» (da
Sotto specie umana).
L’inquietudine
Un richiamo che, troppo impegnati a non morire invece che a
vivere, non sentiamo. Agostino d'Ippona, alla fine del IV sec. d.C., aveva già
affrontato di petto (la sua inquietudine) la questione, ponendola all'inizio
della sua autobiografia spirituale, le Confessioni: «Ci hai fatti per Te, e il
nostro cuore è inquieto fino a quando non riposa in Te». Per lui è proprio
l'inquietudine a portare alla felicità, perché l'insoddisfazione mai placata
dalle cose del mondo, non è un'infinita assenza ma un'infinita mancanza. Per
lui il sentimento di mancanza è la traccia della presenza di un amore che mi
vuole esistente così come sono. E perché allora mi sembra assente? Quel tu c'è
o no? Ho trovato la risposta nella parabola dei talenti (Mt 25,12-30): l'uomo
che li affida ai servi «parte per un viaggio» e «torna dopo molto tempo» (il
tempo della vita). È proprio la sua «temporanea assenza» (mancanza) a
trasformarli da servi a protagonisti della storia: il dono della libertà.
La presenza del donatore è proprio dove non ce l'aspettiamo,
nella sua «partenza», che spinge ciascuno a scoprire i doni che ha e perché li
ha: vita unica e irripetibile. Che ne fai? La mancanza non è un vuoto, ma un
invito a crescere. Quando sento l'assenza di Dio penso: è partito e tornerà, ma
ora è presente in me con i suoi doni, tocca a me.
Lo aveva capito bene Etty Hillesum in tempi oscuri come
l'Olocausto durante il quale morì: «Una cosa diventa sempre più evidente per
me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, e
in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare, e anche
l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio»
(Diario). Quel tu fa come il genitore che ama il figlio, non si sostituisce ma
non è assente, come quando abbiamo imparato a camminare. Il nostro inesauribile
desiderio di felicità è quindi uno spazio (la fatica della libertà, della
conoscenza di sé e dell'azione) per crescere e per creare.
Saper accettare
La felicità comincia dall'accettare e abitare la mancanza ma,
se per paura la riempio di cose, non scoprirò ciò che già contiene: la mia
unicità. Gatsby cerca di conquistare Daisy, proiettando su di lei l'amore
infinito che brama, ma l'infinito non è mai in una cosa o in una persona,
questi sono segnali: se scambiamo il segnale per la meta saremo delusi e,
follia, ce la prenderemo con il segnale, rinfacciandogli di non essere la meta!
La grandezza umana è una «grandezza mancante» (inquieta e libera), una chiamata
all'amore infinito e non a quattro cose che tanto non entreranno nella tomba.
Una luce verde ce lo ricorderà sempre.
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