VI domenica nell’anno
Luca 6,17.20-26 (Ger 17,5-8)
- di Luciano Manicardi
20Ed
egli, alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio.
21Beati
voi, che ora avete fame, perché sarete saziati.Beati voi, che ora piangete, perché riderete.
22Beati
voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi
insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio
dell'uomo. 23Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché,
ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano
i loro padri con i profeti.
24Ma
guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione.
25Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi,
che ora ridete,
perché sarete nel dolore e piangerete.
26Guai,
quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i
loro padri con i falsi profeti.
La
domanda che ci possiamo porre è quanto queste polarità onorino la complessità
dell’esistenza che normalmente non si presenta in bianco e nero, ma contiene
una quantità di sfumature tendente all’infinito. Incontriamo qui lo scarto tra
la vita e i testi che cercano dire la vita. Quest’ultima è sempre più ricca e
non racchiudibile in formule che, per quanto pedagogicamente utili (le
espressioni antitetiche dicono che occorre scegliere, imboccare una via, dunque
pronunciare un sì che comporta tanti no), sono superate dai casi e dalle
situazioni imprevedibili che la quotidianità presenta. I campi del giusto e
dell’empio non sono comparti stagni, ma si intrecciano, si sovrappongono, si
compenetrano: le pareti della giustizia e della malvagità sono porose, anche
nell’intimo della stessa persona. Del resto, come le beatitudini rivolte a
poveri, affamati e afflitti (“voi che ora piangete”: Lc 6,21) non costituiscono
la sacralizzazione di categorie, così i guai rivolti a ricchi, sazi e gaudenti
(“voi che ora ridete”: Lc 6,25), non rappresentano una condanna, ma sono un
ammonimento che intende suscitare un cambiamento che non solo viene intravisto
come possibile, ma che ne costituisce il vero fine. Lo stesso Geremia, subito
dopo le parole presenti nella pericope liturgica, parla del cuore umano come
contorto, non lineare, fallace, ingannevole (Ger 17,9): come farvi affidamento?
Come dunque trarre indicazioni perentorie e schematiche sui comportamenti umani
quando il profondo dell’essere umano - il suo cuore - è così contraddittorio e
ambiguo? Vale la pena ricordare il passo in cui Agostino, che ben sa che l’uomo
è abisso, mostra la labilità delle appartenenze e dunque invita a non giudicare
frettolosamente e a non trarre indicazioni perentorie che accompagnerebbero una
prassi fondamentalista e intollerante. Scrive Agostino: “La città pellegrina di
Cristo si ricordi che sicuramente fra i suoi avversari si nascondono dei futuri
suoi concittadini e non ritenga vano sopportare presso di loro l’ostilità,
finché non li raggiunga come credenti; allo stesso modo, fra quelli che la
città di Dio porta anche con sé, ad essa legati nella comunione sacramentale,
finché è pellegrina nel mondo, alcuni non li avrà con sé nella condizione
eterna dei santi; questi sono in parte noti, in parte ignoti e non esitano a
mormorare contro Dio, con cui sono uniti per mezzo dei sacramenti, fino a
riempire una volta i teatri assieme agli altri, una volta le chiese assieme a
noi. Ma persino della correzione di alcuni di questi non si deve assolutamente
disperare, perché presso chi ci è apertamente contrario si nascondono dei
futuri compagni, anche se tuttavia essi non ne sono consapevoli” (De
civitate Dei I,35). Ovvero, è difficile stabilire confini netti tra
chi è nella chiesa e chi ne è fuori.
La
prima lettura parla di una fiducia che è salda e non delude e di false fiducie,
ovvero di sicurezza posta in realtà che illudono, ma non salvano, non danno
pienezza di vita. Di fatto, emerge che “in qualcosa” o “in qualcuno” la fiducia
la si mette sempre: non si vive senza fiducia. Gesù “ha confidato in Dio” (Mt
27,43). Ma si può confidare, ovvero fondare la propria sicurezza e la propria
saldezza – il fondamento che ci fa avanzare nella vita, e dunque anche ciò che
regge la nostra speranza – su basi sdrucciolevoli e inconsistenti che, presto o
tardi, condurranno alla rovina. Il confidare “nell’uomo” (Ger 17,5) si declina
come un porre la propria sicurezza nelle ricchezze, o nelle armi, o nei beni
che si possiedono, o in se stessi e nella propria forza, o nel prestigio
sociale, ecc. Porre la fiducia “nel Signore” (Ger 17,7) implica invece un
processo di spogliamento, di disarmo, cioè un cammino di verità nei confronti
di se stessi. Un far cadere le maschere con cui non solo ci illudiamo di essere
forti, ma pensiamo anche di poter esorcizzare la morte. E l’atto di fiducia si
configura come paradossale: la propria saldezza la si trova in un movimento che
ci decentra da noi stessi. L’atto di fiducia ha una struttura pasquale, implica
una morte a se stessi per trovare vita e saldezza in altri da sé: “se non
credete, non sussisterete”, “non avrete stabilità” (Is 7,9).
La pagina evangelica presenta quattro beatitudini che Gesù rivolge in modo speciale ai suoi discepoli (“Alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva”: Lc 6,20), mentre i successivi quattro “guai”, che sono un puntuale contraltare delle beatitudini, li possiamo cogliere come una messa in guardia rivolta agli stessi discepoli affinché non assumano l’atteggiamento che contraddice le beatitudini e offende il loro statuto di seguaci di Cristo. Ovviamente, le beatitudini non proclamano la felicità del povero in quanto povero, ma annunciano che nel Cristo che ha abitato la povertà, queste situazioni non hanno l’ultima parola, non hanno la forza di ostruire il futuro e di uccidere la speranza, ma vengono risignificate e diventano esperienza del Regno e apertura a esso.
La beatitudine non consiste nella povertà o nel patire la fame o nel piangere o nella persecuzione, ma nell’essere raggiunti dall’azione di Dio in Gesù, il Messia che secondo la profezia di Is 61,1ss è venuto a portare ai poveri la buona notizia (cf. Lc 4,18-19). In particolare, la beatitudine espressa nel v. 22 riguarda i cristiani odiati, discriminati ed esclusi, insultati e diffamati. La dimensione di beatitudine consiste nel fatto che proprio quando ci si trova in situazioni così penose a causa del vangelo, situazioni vissute da Gesù stesso, si può credere di essere veramente suoi discepoli e di trovarsi là dove lui stesso si è trovato. Ma la beatitudine consiste anche nel fatto che di quel male si è oggetto e non soggetto: lo si subisce e non lo si compie. Analoghe considerazioni troviamo nella prima lettera di Pietro: “È meglio soffrire operando il bene che facendo il male” (1Pt 3,18); “Beati voi se venite insultati per il nome di Cristo” (1Pt 4,14); “Nessuno di voi abbia a soffrire come … malfattore … ma se uno soffre come cristiano … dia gloria a Dio” (1Pt 4,15-16). Il credente, avverte Gesù, può incontrare odio (“sarete odiati da tutti a causa del mio nome”: Lc 21,17), può patire esclusione e messa al bando, può essere oggetto di ingiurie e insulti, può conoscere la diffamazione: ponendo la sua fiducia nel Signore può reggere nel silenzio e portare tutto questo senza lasciarsene destrutturare. Importante è che non arrivi lui stesso a mettere in atto tali azioni. Infatti, odiare, discriminare, escludere, ingiuriare, diffamare sono pratiche anche interne alla compagine ecclesiale. E all’interno della comunità cristiana risuonano anche le parole di Gesù che mettono in guardia dal compiacersi nel fatto che “tutti parlano bene di voi” (Lc 6,26).
Chi cerca di essere sempre lodato, di incontrare
l’apprezzamento altrui, chi mendica l’applauso e il riconoscimento (e oggi, con
gli strumenti mediatici a disposizione, questa deriva narcisistica è
enormemente facilitata) dimostra di non avere come referente il Cristo, ma di
cercare il consenso umano. E questo è il tipico atteggiamento dei falsi
profeti. Gesù direbbe: “Hanno già ricevuto la loro ricompensa” (Mt 6,2.5.16).
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