COSA RESTA
DEL PADRE?
Intervista
di Marialena Spyropoulou
a Massimo Recalcati
Massimo Recalcati, filosofo, psicoanalista e scrittore italiano, ha visitato la Grecia lo scorso autunno per tenere una conferenza nel centro di Atene in occasione dell'uscita del nuovo libro dal titolo "Cosa resta del padre? {La paternità nell'era ipermoderna}", Casa Editrice Keleuthos , trd. Christos Poniros. In questo intervento ho avuto l'onore di essere invitata dalla casa editrice a presentarlo e ad accompagnarlo in una discussione-conoscenza con il pubblico greco.
Inoltre, fin dal primo momento della loro pubblicazione in Grecia, i suoi libri mi hanno affascinato e mi hanno aperto nuovi orizzonti, nuovi modi di pensare. E non sono l'unica persona. In quel difficile sabato pomeriggio nell'impraticabile centro di Atene sotto una pioggerellina – bloccato da una gara ciclistica – la hall dell'Hotel Caravel era piena di gente che l'aveva letto e voleva ascoltarlo dal vivo. Ha dimostrato che anche come oratore è influente, contagioso dalla passione della vita e dei sentieri psicoanalitici che ha ormai percorso e scavato. Così, subito dopo il nostro caloroso incontro, è nata l'idea di iniziare una breve conversazione via e-mail dopo la sua partenza, al fine di colmare alcune idee che non erano state dette o di trattenerlo ancora un po’ ad Atene. Questa discussione non avrebbe avuto luogo senza il traduttore e suo amico Christos Poniros, che ha funzionato non solo come intermediario fra il greco e l'italiano, ma anche come profondo conoscitore di Recalcati e della sua opera. Ringrazio entrambi pubblicamente.
1-Ηa recentemente visitato Atene e ha fatto un discorso che ha avuto molto successo ad un pubblico molto appassionato. Quale e' stata la sua impressione in merito? Ho avuto l' impressione che non fosse consapevole di quanto siano apprezzati i suoi libri in Grecia?
Sapevo da Christos Poniros, mio amico e traduttore greco, che i miei libri erano letti e amati nel vostro paese. Ma non mi aspettavo comunque di incontrare l’entusiasmo che ho incontrato. In fondo ho avuto la conferma che esiste un filo diretto tra i nostri due paesi, una sensibilità e un modo di pensare prossimi. Quando venne pubblicato il mio primo libretto titolato La forza del desiderio non avevo idea che avrebbe potuto germinare un campo così ampio. Ho trovato, dopo quarant’anni dal mio primo viaggio in Grecia, la stessa luce che vidi da ragazzo…
2-"Parla di una luce che vide da bambino. È riferito a un suo viaggio in Grecia? Oppure ad una luce collegata alle sue letture? Quale luce cercava da bambino nei suoi libri e negli uomini? Il suo primo contatto, se non mi sbaglio, è stato con la politica ma anche con la filosofia. Cosa hanno in comune questi due paesi [L' Italia e la Grecia] nella sua psiche?"
Del mio primo viaggio in Grecia rimasi colpito dalla luce. Suono delle cicale, azzurro del mare e luce. Allora ero immerso nello studio di Heidegger e non si può comprendere Heidegger senza tenere conto del del suo profondo rapporto con la verità, con l’aletheia della filosofia greca che egli non a caso ha anche tradotto con la parola Lichtung che significa aperto, radura, ma che rinvia anche alla luce. La Magna Grecia è una delle grandi matrici dell’Europa. E allora le nostre terre erano una unica terra. Io sono cresciuto in pianura, al Nord, ma la stessa sensazione di aperto, di luce e di mare l’ho provata visitando la Sicilia, la costiera amalfitana e il Sud dell’Italia. Il Mediterraneo è stata una straordinaria figura dell’aperto e della luce per secoli. Ho studiato con passione la filosofia greca ma anche la grande tragedia greca. Difficile comprendere Freud se non si considera questa radice profonda della psicoanalisi: Sofocle, Empedocle, Eraclito, Platone…
3-Si è immerso nella filosofia e fu iniziato alla luce, all' apertura che si era spalancata davanti ai suoi occhi ma forse anche nella sua psiche. Quando si è reso conto di essere interessato all' essere umano? Quando si è reso conto che i suoi studi non erano destinati a rimanere nell’ambito della filosofia ma che si sarebbero orientati verso la clinica, la terapia, la psicoanalisi?
La mia carriera di filosofo è stata bruscamente interrotta dalla angoscia. Nell’estate del 1985 avrei dovuto scegliere tra Pisa e Francoforte per continuare gli studi di filosofia, ma mi sono trovato l’inconscio di traverso. Un’angoscia che non sapevo governare aveva interrotto i miei piani. Dovevo fare i conti con me stesso. Iniziai da lì a breve la mia prima analisi. Feci dapprima esperienza dell’inconscio come un intruso che esigeva di essere ascoltato. La ragione della filosofia lasciò il passo ad un altro sapere. Mi sentivo come quell’allievo immaginato da Kierkegaard che, di fronte ad una lezione magistrale di Hegel, interviene dicendo: “Sì Professore, tutto straordinariamente affascinante, ma io resto angosciato! Chi si occupa della mia angoscia?”
4-Allora è a causa di quel sentimento pressante che si decise di trovare chi si poteva occupare della sua angoscia? La sua vita sentimentale chiedeva uno spazio per poter esprimersi. E di conseguenza fu iniziato alla psicoanalisi. Scoprì che aveva bisogno di un collegamento con qualcuno che fosse più reale di un' idea/concetto. Fu per lei una frustrazione? Un sollievo? La sua angoscia si espresse in diverse forme?
Incontrai l’inconscio come un ostacolo imprevisto, come qualcosa che deviava una strada già determinata. Ma in ogni percorso non è forse sempre così? E’ quello che Epicuro chiamava clinamen. Una piccola deviazione che sposta la caduta a picco degli atomi e genera forme inattese e nuove. L’angoscia mi obbligava a cambiare strada. Iniziai a parlare ad un’analista del buio in cu mi trovavo. Si diventa analisti così. È accaduto anche a Freud. Ne L’interpretazione dei sogni, la più parte dei sogni e degli incubi che interpreta sono i suoi. Si diviene psicoanalisti incontrando il proprio inconscio, diventando il proprio inconscio. Da quel buio nacque un nuovo desiderio, quello, appunto, di diventare psicoanalista. Abbandonai la carriera filosofica e iniziai la mia prima analisi a Milano con un allievo diretto di Lacan.
5-Potrebbe parlarmi un po' di più del suo analista, del periodo in cui si è trovato in analisi?
Ho fatto due analisi con due allievi diretti di Lacan. La prima a Milano con Carlo Viganò, la seconda a Parigi per dieci anni con Jacques-Alain Miller. L’angoscia e una certa inclinazione depressiva erano i miei sintomi. Non volevo morire. Ero, infatti, nato con la morte addosso, ricevendo i sacramenti del battesimo e della estrema unzione nello stesso tempo. Ero stato un bambino cosiddetto prematuro, nato settimino. Dunque, per le conoscenze mediche dell’epoca, destinato alla morte. Ma il lavoro analitico mi ha fatto scoprire che l’angoscia della morte non era solo il mio punto più debole, quanto la mia più grande risorsa. Si trattava di vivere il più a fondo possibile per scongiurare quell’angoscia, di spendermi senza riserve in tutto ciò che facevo. Di qui la produzione di un nuovo sintomo, quello della scrittura. Molti in Italia mi rimproverano di scrivere troppo. Ma non conoscono il mio segreto. Il carattere torrenziale, se vuoi addirittura compulsivo, della mia scrittura è il modo che ho inventato per ritardare la morte. I sintomi, come spiega la psicoanalisi, non vanno estirpati nel nome di una normalità solo illusoria, perché sono i luoghi dove la nostra singolarità più intima può trovare la sua espressione più feconda…
6-Cosa era quello che l'ha spinta ad occuparsi dei disturbi alimentari?
La prima paziente era una giovane bulimica. Questo mi costrinse ad occuparmi di disturbi dell’alimentazione. Poi entrai a fare parte di una delle associazioni maggiori che in Italia si occupavano di questi pazienti e nel giro di pochi anni divenni suo il direttore scientifico nazionale. Avevo meno di quarant’anni. Il libro che testimonia questo mio lavoro iniziale fu L’ultima cena che uscii nel 1997 e che sosteneva una tesi pionieristica, oggi assorbita in gran parte dalla comunità scientifico-clinica che si occupa di questi problemi. Non esiste l’anoressia al singolare, ma anoressie plurali che devono essere diagnosticate in modo differenziale. Di qui la necessità anche di differenziare i trattamenti. Non si può curare con lo stesso setting e con la stessa logica terapeutica una anoressia melanconica e un’anoressia isterica. Ma il mio lavoro nel campo dei disturbi dell’alimentazione è proseguito sino ad oggi, sia all’interno di Jonas, sia come supervisore clinico di una comunità residenziale a Bologna per casi gravi, sia come attività scientifica di ricerca e di trasmissione. Ho insegnato per quindici anni Psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione all’Università di Pavia. Di fatto, la clinica dei disturbi dell’alimentazione è una clinica del femminile e una clinica della depressione. Due poli che hanno da sempre catturato il mio interesse. In fondo era il mistero di mia madre. Aveva uno strano rapporto col cibo; era in perenne dieta. Ne era attratta ma lo evitava. Era il suo modo per preservare la sua bellezza che ricordava molto quella della vostra Irene Papas che conobbi nella sua magistrale interpretazione della Penelope dell’Odissea in uno sceneggiato della televisione italiana della fine degli anni Sessanta…
7-Per quale motivo crede che noi donne abbiamo una relazione più stretta con i disturbi di alimentazione? Sono abituata a parlare della nostra relazione più stretta con nostra madre e Lei ha condiviso con me la relazione che ha avuto con sua madre. Anche lei si era preoccupata di qualcosa [“qualcosa "la mangiava"]. Ho scritto un libro che si chiama "Nutrimi" perché' mi sono resa conto che, quando le donne allattano i loro bambini non c’è un maschio per "nutrirle" sufficientemente in modo simbolico-sentimentale. Questo succedeva per lo più in passato... Ha mai pensato a questo? C’è del vero oppure no?
Il femminile tende a fare dell’amore una questione di vita o di morte. L’anoressica insegna che si può morire quando la propria domanda d’amore viene ignorata. Per questo avevo definito un tempo l’anoressia come una malattia dell’amore. Gli uomini tendono a compensare la frustrazione della domanda d’amore attraverso gli oggetti. Nelle donne spesso il segno d’amore non conosce alcuna possibile compensazione, è assoluto. Certamente anche quello materno. È qualcosa che la clinica conferma spesso: la madre ha offerto il seno senza offrire il segno d’amore, o, meglio, ha offerto il seno al posto del segno. Ecco perché l’anoressica tende a rifiutare il seno. Per avere il dono del segno d’amore. Ma questa descrizione vale per le anoressie isteriche, non per quelle psicotiche. Nella versione psicotica dell’anoressia e più in generale dei disturbi alimentari non è in gioco la domanda d’amore. Piuttosto un rifiuto della vita, un’assenza di sentimento della vita. È ciò che ha portato Lacan a definire certe forme melanconiche di anoressia come un “suicidio differito”…Quello che lei dice a proposito dell’assenza di una figura maschile rilevante si riscontra frequentemente. E’ ciò che rende il legame con la madre un legame fortemente ambivalente, fatto di amore e odio, di una spinta alla divorazione reciproca.
8-Oltre al figlio che dà valore all’ eredità del padre, cosa rappresenta per lei Telemaco e come è nato nella sua mente questo suo pensiero? Dalla relazione che ha avuto con suo padre?
Telemaco è un giusto erede perché interpreta l’eredità non come l’acquisizione di una rendita ma come un viaggio pericoloso. È la telemachia che apre l’Odissea. Il pensiero del Complesso di Telemaco mi è stato suscitato osservando le nuove generazioni. La loro forza e il loro smarrimento. La loro domanda di padri. Il nostro tempo è segnato dall’assenza dei padri. E’ la condizione in cui si è trovato Telemaco e in cui, in realtà, si trova ogni figlio in quanto il padre è sempre la presenza di un’assenza. Ogni figlio è tenuto a fare i conti con la presenza di questa assenza…
9-Ritorno alla sua angoscia che forse alla fine era collegata alla depressione. Un bambino che viene al mondo["viene alla vita"] facendo esperienza in modo inconscio della possibilità della fine della vita. Forse posso capire qualcosa di quello che dice perché' lo collega alla scrittura. Io ho scelto la poesia, la letteratura. Mi chiedo se adesso -che ha vissuto una vita piena di esperienze e che si trova ad una età che Le permette di essere più maturo-, sia in qualche modo più conciliato con l' idea della morte? L' arte -che so che Lei ama- ha per Lei degli effetti terapeutici?
Nessuna conciliazione. Amo troppo la vita. Nel suo splendore e nella sua atrocità. Vorrei che ce ne fosse ancora, che non finisse mai. Mentre il tempo scorre inesorabile. Nessuna conciliazione è possibile con l’ingiustizia della morte. La differenza con gli anni è che tendo a correre ancora più veloce. Per questo la mia scrittura ha assunto questa forma torrenziale. Non penso che esista una soluzione matura del problema della morte. Penso che non ci sia, in realtà, nessuna soluzione, che la sola cosa che si resta da fare è quella di vivere spendendosi senza riserve nella vita…Ho raccontato la mia scena primaria: spiavo mio padre fiorista scrivere con una pittura d’oro i nastri delle corone funebri…In fondo l’arte è la stessa operazione di scrittura. Mettere oro dove c’è la ferita inguaribile della morte…
10-E per chiudere un’ ultima domanda: Pensa che l’uomo occidentale si allontanerà dall' uomo capitalista? Troverà altri valori? E quali saranno questi valori?
Non so. Non so davvero. Nel discorso del capitalista l’uomo appare come consumatore. Mi auguro davvero che non sia questo il destino ultimo dell’uomo. La psicoanalisi difende un’altra idea dell’uomo, sostiene l’idea dell’uomo come soggetto del desiderio. E il desiderio non è qualcosa che si può consumare….
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