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sabato 10 agosto 2024

IL PANE DELLA VITA


UNA FOCACCIA E UN ORCIO DI ACQUA

Il simbolo del deserto è polisemico e, nella Bibbia, rimane pregno di evocazioni diverse che, di volta in volta, conducono il credente ad approfondire la propria fede e il proprio posto nella storia. Le letture odierne richiamano il deserto come luogo di provvisorietà e di pericolo mortale, ma anche come spazio in cui Dio manifesta la sua vicinanza e la sua fedeltà. Una terra assetata e senz’acqua, infestata da pericoli e bestie feroci, è in grado di fiorire e dare frutti, grazie alla fecondità che proviene da Dio, capace di trasfigurare l’estrema indigenza in germoglio di vita.

 Commento di Don Massimo Grilli*

 Prima lettura: 1 Re 19,4-8

La fuga di Elia nel deserto avviene subito dopo la sfida del Carmelo, che aveva visto il profeta di Dio vincitore contro i falsi profeti di Baal. Una lotta in cui Elia aveva mostrato mirabilmente la sua audacia e la sua forza, la sua sprezzante ironia e la sua ardita baldanza, espressioni della fiducia nell’unico Signore, oltre il quale non se ne danno altri. Di fronte alla moltitudine dei profeti di Baal, tanto invasati quanto inetti, Elia aveva mostrato la padronanza di sé che hanno i vincitori: la sua preghiera era stata esaudita, il fuoco era disceso dal cielo e aveva bruciato l’olocausto. Il popolo, conquistato dal miracolo, era tornato all’autentica fede nel Dio dei padri.

 È strano che un uomo tanto intrepido si dia alla fuga per paura della reazione della regina Gezabele. Della paura di Elia parla direttamente solo la versione greca della LXX, mentre il Testo masoretico lascia che sia il lettore a intuirla. In ogni caso, subito dopo una vittoria tanto schiacciante, meraviglia non poco che Elia sia in fuga dal Regno del Nord verso Bersabea, che si trova all’estremità meridionale del Regno di Giuda. Il deserto è un luogo dove è possibile nascondersi ed Elia si inoltrò nel deserto, a una giornata di cammino. L’invocazione della morte come liberazione richiama altre celebri grida, messe sulla bocca di uomini di Dio, disfatti dalla fatica della fedeltà alla propria missione. Geremia, in un momento di crisi estrema, si rivolge a Dio, maledicendo persino il giorno della sua nascita: «Perché non mi fece morire nel grembo materno? Mia madre sarebbe stata la mia tomba…Perché mai sono uscito dal seno per vedere tormenti e dolore…?» (Ger 20,14-18). In un altro contesto, Giobbe si augura lo stesso destino con parole analoghe: «Volesse Dio schiacciarmi, stendere la mano e sopprimermi! … Preferirei la morte, piuttosto che questi dolori» (6,9; 7,15). Si tratta sempre della morte vista come liberazione da una situazione insostenibile. Siamo impastati di fragilità: la fedeltà alla missione affidataci significa benessere e pienezza, ma anche tormento e persecuzione. Annunciare la Parola senza orpelli e senza illusioni demagogiche, smentita frequentemente dagli eventi della vita non è facile: la solitudine, la derisione, la persecuzione e, come se non bastasse, il mistero di un Dio vicino e lontano, mettono a dura prova la resistenza dell’uomo che crede. «Non sono migliore dei miei padri» esclama Elia, esprimendo così la delusione non solo per un Dio che immaginava diverso, ma anche di sé e della sua opera.

 Eppure, proprio nel momento dell’estremo smarrimento, il profeta si trova accanto una focaccia e un orcio d’acqua! Come Israele nel deserto, anch’egli sperimenta la Presenza di Dio in un mondo di assenze. La focaccia non è un pasto succulento: è sbrigativo, frugale e senza pretese. Ma l’efficacia dei doni di Dio non è direttamente proporzionata alla loro imponenza. La forza di Dio si dispiega nella debolezza dei mezzi. Basta una focaccia, se è Dio che la dona. I quaranta giorni e quaranta notti di cammino, insieme con il monte Horeb richiamano la figura di Mosè e la rivelazione del nome di Dio: YHWH. In fondo la potenza di Dio, nascosta in una focaccia e in un orcio d’acqua, è proprio qui: nel permettere ad Elia – e ad ogni uomo che crede – di arrivare al monte santo, dove Dio attende la sua creatura, per rivelarle il suo mistero.

 Il Vangelo: Gv 6,41-51

Il tema del pane e della presenza di Dio ritorna nel passo evangelico tratto da Giovanni. Dopo la moltiplicazione dei pani, che aveva entusiasmato le folle della Galilea, Gesù arriva al discorso che gli stava a cuore, urtando, questa volta, la sensibilità degli ascoltatori: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna…» (6,26-27). E ancora: «Io sono il pane della vita…disceso dal cielo» (6,35.38). È a questa situazione che si aggancia il mormorio scandalizzato dei Giudei. La mormorazione è l’atteggiamento tipico di un popolo miscredente. Il libro dell’Esodo ne parla al momento della traversata nel deserto (Es 15,24) e la motivazione è sempre la stessa: la pretesa satanica di voler imporre a Dio la propria logica, imprigionandolo in schemi a portata d’uomo. I Giudei pensano di conoscere Gesù perché conoscono i suoi dati anagrafici: come può il figlio di Giuseppe dire «Io sono il pane della vita, disceso dal cielo»? Non si rendono conto – o volontariamente rifiutano di accettare – che la filosofia dell’uomo è quella del perimetro. Pensano di conoscere le strade di Dio, senza voler riconoscere che Dio non si esaurisce in ciò che pensiamo di lui, e tanto meno in quello che di lui diciamo. A questa presunzione umana (che spesso appartiene anche ai credenti), Gesù contrappone un’altra verità: solo il Padre può far conoscere il Figlio e solo chi si lascia ammaestrare da Dio può entrare in rapporto con Gesù. Per entrare nel mistero di Dio, bisogna anzitutto disporsi ad accettare una relazione che ci supera. Dio non si lascia comprendere sulla base di schemi elaborati da una sapienza tanto arrogante quanto sterile, dettata solo dalla paura di perdere il potere sulle coscienze: Dio è novità e viene sempre in modo nuovo. Questo avevano dimenticato i padri del deserto; questo disconoscono i credenti che discutono con Gesù.

 La novità di Dio è il pane di vita. Per la seconda volta, in pochi versi, Gesù ripete: «In verità in verità vi dico, io sono il pane della vita…». E lo dirà più tardi, per la terza volta: «Io sono il pane vivo disceso dal cielo…». Gli uomini fanno del tutto per circoscrivere le cose di Dio dentro i propri perimetri, e Gesù, invece, indica un’ulteriorità che supera la saggezza umana: il dono del pane di vita è la sua carne per la vita del mondo. È la prima volta che nel discorso ricorre il termine carne, così pregnante nella teologia giovannea.

 Il simbolo del deserto è polisemico e, nella Bibbia, rimane pregno di evocazioni diverse che, di volta in volta, conducono il credente ad approfondire la propria fede e il proprio posto nella storia. Le letture odierne richiamano il deserto come luogo di provvisorietà e di pericolo mortale, ma anche come spazio in cui Dio manifesta la sua vicinanza e la sua fedeltà. Una terra assetata e senz’acqua, infestata da pericoli e bestie feroci, è in grado di fiorire e dare frutti, grazie alla fecondità che proviene da Dio, capace di trasfigurare l’estrema indigenza in germoglio di vita.

 

Commento di Don Massimo Grilli*

 

Prima lettura: 1 Re 19,4-8

La fuga di Elia nel deserto avviene subito dopo la sfida del Carmelo, che aveva visto il profeta di Dio vincitore contro i falsi profeti di Baal. Una lotta in cui Elia aveva mostrato mirabilmente la sua audacia e la sua forza, la sua sprezzante ironia e la sua ardita baldanza, espressioni della fiducia nell’unico Signore, oltre il quale non se ne danno altri. Di fronte alla moltitudine dei profeti di Baal, tanto invasati quanto inetti, Elia aveva mostrato la padronanza di sé che hanno i vincitori: la sua preghiera era stata esaudita, il fuoco era disceso dal cielo e aveva bruciato l’olocausto. Il popolo, conquistato dal miracolo, era tornato all’autentica fede nel Dio dei padri.

 È strano che un uomo tanto intrepido si dia alla fuga per paura della reazione della regina Gezabele. Della paura di Elia parla direttamente solo la versione greca della LXX, mentre il Testo masoretico lascia che sia il lettore a intuirla. In ogni caso, subito dopo una vittoria tanto schiacciante, meraviglia non poco che Elia sia in fuga dal Regno del Nord verso Bersabea, che si trova all’estremità meridionale del Regno di Giuda. Il deserto è un luogo dove è possibile nascondersi ed Elia si inoltrò nel deserto, a una giornata di cammino. L’invocazione della morte come liberazione richiama altre celebri grida, messe sulla bocca di uomini di Dio, disfatti dalla fatica della fedeltà alla propria missione. Geremia, in un momento di crisi estrema, si rivolge a Dio, maledicendo persino il giorno della sua nascita: «Perché non mi fece morire nel grembo materno? Mia madre sarebbe stata la mia tomba…Perché mai sono uscito dal seno per vedere tormenti e dolore…?» (Ger 20,14-18). In un altro contesto, Giobbe si augura lo stesso destino con parole analoghe: «Volesse Dio schiacciarmi, stendere la mano e sopprimermi! … Preferirei la morte, piuttosto che questi dolori» (6,9; 7,15). Si tratta sempre della morte vista come liberazione da una situazione insostenibile. Siamo impastati di fragilità: la fedeltà alla missione affidataci significa benessere e pienezza, ma anche tormento e persecuzione. Annunciare la Parola senza orpelli e senza illusioni demagogiche, smentita frequentemente dagli eventi della vita non è facile: la solitudine, la derisione, la persecuzione e, come se non bastasse, il mistero di un Dio vicino e lontano, mettono a dura prova la resistenza dell’uomo che crede. «Non sono migliore dei miei padri» esclama Elia, esprimendo così la delusione non solo per un Dio che immaginava diverso, ma anche di sé e della sua opera.

 Eppure, proprio nel momento dell’estremo smarrimento, il profeta si trova accanto una focaccia e un orcio d’acqua! Come Israele nel deserto, anch’egli sperimenta la Presenza di Dio in un mondo di assenze. La focaccia non è un pasto succulento: è sbrigativo, frugale e senza pretese. Ma l’efficacia dei doni di Dio non è direttamente proporzionata alla loro imponenza. La forza di Dio si dispiega nella debolezza dei mezzi. Basta una focaccia, se è Dio che la dona. I quaranta giorni e quaranta notti di cammino, insieme con il monte Horeb richiamano la figura di Mosè e la rivelazione del nome di Dio: YHWH. In fondo la potenza di Dio, nascosta in una focaccia e in un orcio d’acqua, è proprio qui: nel permettere ad Elia – e ad ogni uomo che crede – di arrivare al monte santo, dove Dio attende la sua creatura, per rivelarle il suo mistero.

 Il Vangelo: Gv 6,41-51

Il tema del pane e della presenza di Dio ritorna nel passo evangelico tratto da Giovanni. Dopo la moltiplicazione dei pani, che aveva entusiasmato le folle della Galilea, Gesù arriva al discorso che gli stava a cuore, urtando, questa volta, la sensibilità degli ascoltatori: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna…» (6,26-27). E ancora: «Io sono il pane della vita…disceso dal cielo» (6,35.38). È a questa situazione che si aggancia il mormorio scandalizzato dei Giudei. La mormorazione è l’atteggiamento tipico di un popolo miscredente. Il libro dell’Esodo ne parla al momento della traversata nel deserto (Es 15,24) e la motivazione è sempre la stessa: la pretesa satanica di voler imporre a Dio la propria logica, imprigionandolo in schemi a portata d’uomo. I Giudei pensano di conoscere Gesù perché conoscono i suoi dati anagrafici: come può il figlio di Giuseppe dire «Io sono il pane della vita, disceso dal cielo»? Non si rendono conto – o volontariamente rifiutano di accettare – che la filosofia dell’uomo è quella del perimetro. Pensano di conoscere le strade di Dio, senza voler riconoscere che Dio non si esaurisce in ciò che pensiamo di lui, e tanto meno in quello che di lui diciamo. A questa presunzione umana (che spesso appartiene anche ai credenti), Gesù contrappone un’altra verità: solo il Padre può far conoscere il Figlio e solo chi si lascia ammaestrare da Dio può entrare in rapporto con Gesù. Per entrare nel mistero di Dio, bisogna anzitutto disporsi ad accettare una relazione che ci supera. Dio non si lascia comprendere sulla base di schemi elaborati da una sapienza tanto arrogante quanto sterile, dettata solo dalla paura di perdere il potere sulle coscienze: Dio è novità e viene sempre in modo nuovo. Questo avevano dimenticato i padri del deserto; questo disconoscono i credenti che discutono con Gesù.

 La novità di Dio è il pane di vita. Per la seconda volta, in pochi versi, Gesù ripete: «In verità in verità vi dico, io sono il pane della vita…». E lo dirà più tardi, per la terza volta: «Io sono il pane vivo disceso dal cielo…». Gli uomini fanno del tutto per circoscrivere le cose di Dio dentro i propri perimetri, e Gesù, invece, indica un’ulteriorità che supera la saggezza umana: il dono del pane di vita è la sua carne per la vita del mondo. È la prima volta che nel discorso ricorre il termine carne, così pregnante nella teologia giovannea.

 Donare la propria carne per la vita del mondo fa riferimento al dono che Gesù farà della sua umanità sulla croce. E, con questo, si sottolineano due profonde verità. La prima è che avere fede significa andare ben oltre una percezione di Dio inteso come colui che viene a dare risposta agli istinti fondamentali dell’uomo. Più volte la Parola ci ha permesso di sottolineare l’importanza dell’incarnazione della fede nei problemi e nelle ansie quotidiane dell’uomo. Ora però la stessa Parola ci dice che l’uomo non si esaurisce nei suoi istinti primari, nei suoi appetiti sensitivi. Il pane è necessario, ma non basta: i padri hanno mangiato pane nel deserto e sono morti.  La fede è la ricerca di un senso della vita che non si esaurisce nel pane. La seconda verità è che bisogna recuperare in ogni campo l’oblazione, che contesta la voracità dell’«io». Il pane che Gesù dona è … per la vita del mondo. In fondo il mistero eucaristico è anche questo: il volto che incontriamo, le lacrime che asciughiamo, il grido che ascoltiamo… Chi lotta perché ogni essere umano sia accolto e rispettato, chi dimentica se stesso per testimoniare che non c’è un «io» senza un «tu», chi fa della gratuità un programma di vita… costui genera lievito per la vita del mondo.

 *Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano




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