ELOGIO
DI VIRTU' ANTICHE
«(…)
La fortezza è una virtù che segnala un animo coerente e magnanimo. Chi esercita
questa dote non è meschino, non recrimina, non si vendica, non è subdolo e
gretto, ma perdona, comprende, è generoso, pietoso e longanime. Questa
grandezza di cuore e di mente è dalla persona superficiale e mediocre scambiata
per debolezza o arrendevolezza, mentre è segno di nobiltà d’animo e di
dignità». G.
Ravasi, «Mattutino».
-di
Giovanni Ventimiglia
Tempi mammoni.
Ovvero:
tempi che esaltano il grembo materno, al di fuori del quale vi è solo il male.
Ma le cose stanno proprio così? Che fine ha fatto la morale «paterna», quella
che spinge a praticare «fortezza» e «magnanimità»?
Nell’«intraprendenza»
si nascondono due antiche virtù, oggi del tutto dimenticate: la fortitudo (vale
a dire «fortezza» o «coraggio») e la magnanimitas (letteralmente «grandezza
d’animo»).
Secondo
Aristotele e san Tommaso d’Aquino la «fortezza» è quella virtù che sta nel
giusto mezzo fra i vizi opposti della temerarietà (o imprudenza) e della
viltà. La «grandezza d’animo», invece, è la virtù che sta nel giusto mezzo tra
la presunzione e la pusillanimità. Avere un «animo grande», dice san Tommaso,
significa essere capaci di sperare in «cose grandi» (magna, oggi diremmo
«grandi imprese», di qualsiasi tipo), future, ardue (cioè difficili da
perseguire), ma alla portata delle nostre capacità. Il presuntuoso, invece,
aspira a cose grandi e difficili ma al di sopra delle sue capacità. Il
pusillanime, all’estremo opposto, avendo un «animo piccino» (pusillus animus),
manca della speranza in cose grandi, sebbene siano alla sua portata. Assomiglia
tanto all’uomo vile che, secondo Aristotele, «è una specie di uomo senza
speranza, giacché ha paura di tutto».
Esistono
pagine molto suggestive di Aristotele sulla «fortezza» del guerriero «che sta
senza paura di fronte a una morte bella», e pagine ancora più toccanti di san
Tommaso sulla «fortezza» del santo, pronto a testimoniare fino all’effusione
del sangue il suo amore per Cristo, Signore della vita.
Ebbene,
a che punto siamo, oggi, con questi gesti? Sono per noi ancora azioni virtuose
da proporre come modello a tutti o gesta eccezionali, mitiche, che in realtà
consideriamo da «imprudenti»? E a che punto siamo con la speranza di «grandi
imprese»? Di solito non la bolliamo piuttosto come «presunzione» e «vanità»?
Credo
di sì. E la causa – mi sembra – ha un solo nome: morale «mammona». Nella
modernità, infatti, la morale si è trasformata da «patriarcale» in «mammona».
Ora, in questo passaggio da un estremo all’altro si è perso anche quello che di
buono conteneva la cultura «maschile», che è stata rigettata in toto come
«maschilista».
In
che cosa consiste, infatti, la morale «mammona» (che è una morale senza
«paternità»)? Nella sicurezza e nell’esaltazione del grembo originario. In che
cosa consiste, invece, la morale «paterna»? Nel coraggio del distacco e nella
speranza del futuro. Si comprende, dunque, che una morale «mammona», come
quella che domina nelle società consumistiche felliniane, accusi di
«imprudenza» e «presunzione» ogni moto di allontanamento dal grembo protetto
verso l’incerto futuro. Messaggio inconscio: tutto quanto è estraneo a «mammà»
è pericoloso e malvagio.
Conclusione:
l’energia ancestrale verso il futuro, il rischio, l’ignoto, l’audace impresa,
bloccata e repressa dalla morale «mammona», si nasconde nell’inconscio. E da lì
è pronta a riapparire in azioni ineducate, imprevedibili, temerarie, pericolose
per sé e per gli altri – incoscienti per l’appunto –. Il che è esattamente
quanto leggiamo nelle cronache di tutti i giorni.
Che
fare dunque? Sperare di correggere la temerarietà dei giovani con inviti – un
po’ «mammoni» – alla prudenza? Oppure riproporre figure virtuose di uomini
«forti» e di animo grande quali modelli di vita dove il coraggio del futuro
possa tornare a essere, come è, degno di lode?
Messaggero
di Sant’Antonio
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