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sabato 3 agosto 2024

FORTEZZA e INTRAPRENDENZA

ELOGIO 

DI VIRTU' ANTICHE

«(…) La fortezza è una virtù che segnala un animo coerente e magnanimo. Chi esercita questa dote non è meschino, non recrimina, non si vendica, non è subdolo e gretto, ma perdona, comprende, è generoso, pietoso e longanime. Questa grandezza di cuore e di mente è dalla persona superficiale e mediocre scambiata per debolezza o arrendevolezza, mentre è segno di nobiltà d’animo e di dignità».  G. Ravasi, «Mattutino».

 -di Giovanni Ventimiglia

  Tempi mammoni.

 Ovvero: tempi che esaltano il grembo materno, al di fuori del quale vi è solo il male. Ma le cose stanno proprio così? Che fine ha fatto la morale «paterna», quella che spinge a praticare «fortezza» e «magnanimità»?

 Nell’«intraprendenza» si nascondono due antiche virtù, oggi del tutto dimenticate: la fortitudo (vale a dire «fortezza» o «coraggio») e la magnanimitas (letteralmente «grandezza d’animo»).

Secondo Aristotele e san Tommaso d’Aquino la «fortezza» è quella virtù che sta nel giusto mezzo fra i vizi opposti della temerarietà (o impru­denza) e della viltà. La «grandezza d’animo», invece, è la virtù che sta nel giusto mezzo tra la presunzione e la pusillanimità. Avere un «animo grande», dice san Tommaso, significa essere capaci di sperare in «cose grandi» (magna, oggi diremmo «grandi imprese», di qualsiasi tipo), future, ardue (cioè diffi­cili da perseguire), ma alla portata delle nostre capacità. Il presuntuoso, invece, aspira a cose grandi e difficili ma al di sopra delle sue capacità. Il pusillanime, all’estremo opposto, avendo un «animo piccino» (pusillus animus), manca della speranza in cose grandi, sebbene siano alla sua portata. Assomiglia tanto all’uomo vile che, secondo Aristotele, «è una specie di uomo senza speranza, giacché ha paura di tutto».

 Esistono pagine molto suggestive di Aristotele sulla «fortezza» del guerriero «che sta senza paura di fronte a una morte bella», e pagine ancora più toccanti di san Tommaso sulla «fortezza» del santo, pronto a testimoniare fino all’effusione del sangue il suo amore per Cristo, Signore della vita.

 Ebbene, a che punto siamo, oggi, con questi gesti? Sono per noi ancora azioni virtuose da proporre come modello a tutti o gesta eccezionali, mitiche, che in realtà consideriamo da «imprudenti»? E a che punto siamo con la speranza di «grandi imprese»? Di solito non la bolliamo piuttosto come «presunzione» e «vanità»?

 Credo di sì. E la causa – mi sembra – ha un solo nome: morale «mammona». Nella modernità, infatti, la morale si è trasformata da «patriarcale» in «mammona». Ora, in questo passaggio da un estremo all’altro si è perso anche quello che di buono conteneva la cultura «maschile», che è stata rigettata in toto come «maschilista».

 In che cosa consiste, infatti, la morale «mammona» (che è una morale senza «paternità»)? Nella sicurezza e nell’esaltazione del grembo originario. In che cosa consiste, invece, la morale «paterna»? Nel coraggio del distacco e nella speranza del futuro. Si comprende, dunque, che una morale «mammona», come quella che domina nelle società consumistiche felliniane, accusi di «imprudenza» e «presunzione» ogni moto di allontanamento dal grembo protetto verso l’incerto futuro. Messaggio inconscio: tutto quanto è estraneo a «mammà» è pericoloso e malvagio.

 Conclusione: l’energia ancestrale verso il futuro, il rischio, l’ignoto, l’audace impresa, bloccata e repressa dalla morale «mammona», si nasconde nell’inconscio. E da lì è pronta a riapparire in azioni ineducate, imprevedibili, temerarie, pericolose per sé e per gli altri – incoscienti per l’appunto –. Il che è esattamente quanto leggiamo nelle cronache di tutti i giorni.

 Che fare dunque? Sperare di correggere la temerarietà dei giovani con inviti – un po’ «mammoni» – alla prudenza? Oppure riproporre figure virtuose di uomini «forti» e di animo grande quali modelli di vita dove il coraggio del futuro possa tornare a essere, come è, degno di lode?

 Messaggero di Sant’Antonio


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