La nazionalità
non
fa i cittadini.
I popoli nascono dalla cultura
-
di
Vito Mancuso
«Fatta l’Italia, ora dobbiamo fare
gli italiani», si dice che dichiarò Massimo D’Azeglio all’indomani della
proclamazione dello Stato unitario nel 1861. Da allora il processo del “fare”
gli italiani non è mai terminato e giustamente la politica in questi giorni sta
discutendo sulla sorgente che conferisce a un essere umano lo stato giuridico
di cittadino italiano.
Il tema è urgente, anzi
improcrastinabile, sia perché direttamente riguarda molte persone che vivono in
Italia che non sono cittadini italiani e lo vorrebbero essere, sia perché
indirettamente riguarda tutti gli attuali cittadini italiani in quanto chiarificatore
(in questi tempi così confusi) della loro identità. Cosa significa essere
cittadini italiani? In che modo “si fanno” gli italiani? Per essere un
cittadino italiano è necessario essere di nazionalità italiana? Qual è il
rapporto tra cittadinanza e nazionalità?
San Paolo aveva la cittadinanza
romana ma era di nazionalità ebraica. Einstein ebbe dapprima cittadinanza
tedesca, poi svizzera, infine statunitense, ma la sua nazionalità era e rimase
ebraica. De Gasperi nacque come cittadino dell’Impero austriaco ma era di
nazionalità italiana. Gli esempi aiutano a comprendere la distinzione capitale
tra cittadinanza e nazionalità. La cittadinanza si ha, si acquisisce, è l’esito
di una prassi politica, come quella auspicata dalla frase attribuita a
D’Azeglio; la nazionalità invece è legata all’essere, alla generazione, anzi
alle generazioni, è l’esito di un processo naturale. Si può diventare cittadino
di un altro Stato, non per questo però se ne acquisisce la nazionalità: un
passaporto giapponese non conferisce cromosomi giapponesi. Tutti possono
potenzialmente acquisire una diversa cittadinanza, nessuno (o quasi) una
diversa nazionalità - e dico “quasi” perché per esempio un italiano può vivere
così a lungo in Grecia da sentirsi tanto italiano quanto greco. Si tratta della
fondamentale distinzione tra Stato e nazione. Lo Stato è una costruzione
politica e i suoi membri si chiamano cittadini; la nazione è una costruzione
naturale e i suoi membri si chiamano nativi. “Nativo” non indica solo chi nasce
in un determinato territorio, ma chi nasce in un determinato territorio da
genitori che a loro volta vi erano nati da avi a loro volta nativi e così via
fino alla notte dei tempi. Per questo i nativi americani non sono persone come
Biden o Trump, ma come Geronimo o Toro Seduto.
Lo Stato si costruisce e i suoi
membri “si fanno”, esattamente come dichiarò D’Azeglio; la nazione è l’esito di
un lungo processo naturale legato a condizioni climatiche, abitudini alimentari
e ad altri numerosi e antichissimi fattori. Il tempo dello Stato si misura in
secoli (la Gran Bretagna e la Francia hanno una storia di una dozzina di
secoli, la Germania e l’Italia non arrivano a due, e forse non è un caso che
abbiano prodotto il nazifascismo); il tempo della nazione si misura in
millenni. Quanto allo Stato e alla relativa cittadinanza valgono queste parole
di Seneca: «L’Impero romano ha come fondatore un esule, un profugo che aveva
perso la patria e si traeva dietro un pugno di superstiti alla ricerca di una
terra lontana… farai fatica a trovare una terra abitata ancora dagli indigeni:
tutto è il risultato di mistioni e innesti». Quanto alla nazione e alla
nazionalità valgono invece queste altre parole di Primo Levi: «Uno spirito di
ogni popolo esiste (altrimenti, non sarebbe un popolo); una Deutschtum, una
italianità, una hispanidad: sono somme di tradizioni, abitudini, storia,
lingua, cultura. Chi non sente in sé questo spirito, che è nazionale nel
miglior senso della parola, non solo non appartiene per intero al suo popolo,
ma neppure è inserito nella civiltà umana».
Alla luce di questa capitale
distinzione tra cittadinanza e nazionalità, ovvero tra Stato e nazione, penso
che il dibattito politico attuale si possa chiarificare e semplificare: non si
tratta di fare altro che di proseguire il processo iniziato nel 1861 quando
nacque lo Stato italiano e si iniziò a “fare gli italiani”. Nessuno Stato può
fare esseri umani secondo la propria ideologia (ci provarono i totalitarismi
novecenteschi ma è noto l’esito sanguinoso), sono sempre e solo la natura e la
cultura a generare i popoli; uno Stato, però, può e deve “fare” i suoi
cittadini. E a questo riguardo la distinzione tra cittadinanza e nazionalità
risulta decisiva ed è essa a farci comprendere che noi siamo destinati dalla
forza della storia (alla quale è stolto opporsi ed è saggio ubbidire) ad avere
un unico Stato con un’unica cittadinanza ma con diverse nazionalità. Siamo cioè
destinanti all’internazionalità. La dimensione inter-nazionale che fino a ieri
riguardava il rapporto tra stati, oggi riguarda il rapporto tra i cittadini del
medesimo Stato. Ovunque in Occidente, presto ovunque nel mondo.
I principali nemici nella storia
recente della capitale distinzione tra cittadinanza e nazionalità furono i
nazisti, per i quali era solo la nazionalità a conferire la cittadinanza. Il
nucleo ideologico della Germania nazista era infatti compendiato nella diade
“Blut und Boden”, “sangue e suolo”, con la completa esclusione della cultura. A
proposito della quale, anzi, essi si vantavano di ripetere: «Quando sento la
parola cultura, metto mano alla pistola». Ancora oggi vi è chi vuole sparare
alla cultura, ovvero a quel processo descritto dicendo che occorre “fare” gli
italiani. Per fortuna, sia nella destra sia nella sinistra delle nostre forze
politiche, vi sono persone sensibili alla cultura e ai valori umani che ne
discendono, tra cui, in primis, la pari dignità, e per questo assegnano alla
frequentazione della scuola l’acquisizione di un vero e proprio diritto: quello
di diventare cittadini italiani, pur senza essere nativi né aspirarne alla
nazionalità. Si perde così la specifica identità italiana?
L’identità per un essere umano è un
valore imprescindibile, costituisce la meta psichica e spirituale del
complicato processo che chiamiamo esistenza. Identità deriva dal latino “idem”
che significa “lo stesso, il medesimo”, a sua volta dal greco “ídios” che
significa “particolare, peculiare”. Da qui viene “idioma”, a indicare
l’espressione culturale per eccellenza che è la lingua, la lingua madre, ciò
che conferisce maggiormente identità. Da qui però deriva anche “idiota”, a
indicare chi guardando solo a sé e ai suoi non capisce il mondo. L’identità
quindi è ciò che ci consente di parlare avendo uno specifico linguaggio e uno
specifico sapore (Primo Levi docet), ma anche ciò che ci rende confinati,
limitati, quindi stupidi, appunto idioti. Quanto più si conferisce spazio e
valore alla cultura, tanto più si valorizza l’identità nel senso di idioma
(perché molti parleranno sempre meglio la nostra bellissima lingua condividendo
la sensibilità depositata e trasmessa in essa) e tanto più si combatte
l’identità nel senso di idiozia.
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