- di Gianfranco
Ravasi
Il
Dio della Bibbia è decisamente molto “umano”, a partire dal corpo: ha braccia,
mani, piedi, volto, cuore, occhi, bocca e persino naso (in ebraico l’«ira» è
espressa con il termine ’af che evoca lo sbuffare delle narici). Ha anche
«viscere» materne, segno di amore istintivo, e in questa linea prova tutta la
gamma delle emozioni e passioni umane: dalla collera alla tenerezza, dalla
gelosia all’amicizia, dal pentimento alla fedeltà, dalla paternità alla
maternità, dall’innamoramento al rifiuto.
Come
un vasaio, egli plasma l’uomo o, come un tessitore, stende la pelle sul corpo
umano; è un pastore che guida il suo gregge, un sovrano che passeggia a sera
nel suo parco reale o che sta assiso sul trono, un padre di famiglia che cuce
le vesti per i suoi figli, uno scriba che sulla pietra incide la legge, un
nomade che dispiega i teli della sua tenda celeste, un generale che comanda il
suo esercito, un eroe assonnato ed ebbro, pronto, una volta sveglio, a
riprendere la lotta, e così via, per decine di altre immagini che toccano anche
il Nuovo Testamento.
Siamo
in presenza di quello che tecnicamente viene definito come «antropomorfismo»,
la rappresentazione divina in forma umana, come indica la matrice greca di
questa parola. È un dato presente in tutte le civiltà, spesso con notevoli
varianti: ad esempio, nell’antico Egitto si preferiva lo zoomorfismo per
raffigurare la divinità (si pensi al coccodrillo sacro o al bue Api) e così
avveniva nella religione degli indigeni della Terra Santa, i Cananei, per i
quali il toro era il simbolo di Baal, il dio della fecondità (il cosiddetto
vitello d’oro che gli Ebrei erigono nel deserto era in realtà un torello, su
imitazione cananea).
Si
tratta, comunque, di una via espressiva legittima: per parlare di ciò che ci
supera, dobbiamo ricorrere a ciò che conosciamo tendendolo verso un livello
superiore di pienezza e perfezione. È quella che si chiama in teologia
«analogia», ben formulata dal Libro della Sapienza: «Dalla grandezza e bellezza
delle creature per analogia si contempla l’Autore» (13,5).
Anche
la creatura umana, uomo e donna, è «immagine» e somiglianza di Dio (Genesi
1,26-27). E la piena attuazione si ha nell’Incarnazione quando Dio non è solo
come l’uomo, ma è uomo in Cristo Gesù: «Dio nessuno l’ha mai visto, ma proprio
il Figlio unigenito che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Giovanni
1,18).
A
questo punto interroghiamoci: gli Israeliti, quando ricorrevano
all’antropomorfismo, capivano che si trattava di una via simbolica per indicare
una pienezza trascendente? La risposta è sì e no al tempo stesso. È un po’
quello che accade ai nostri giorni con la civiltà dell’immagine e della
comunicazione informatica: quante volte si oscilla tra verità e illusione, tra
dato e inganno, tra reale e virtuale e il fruitore non riesce spesso a
sceverare immagine e realtà.
Ebbene,
nella Bibbia si attacca spesso l’idolatria: essa è proprio l’incomprensione del
vero valore dell’antropomorfismo. Ci si ferma all’immagine senza capire che
essa è un «segno» (san Giovanni chiama così i miracoli), che ci conduce oltre,
verso l’Alto e l’Altro trascendente.
Esemplare
è il citato episodio del vitello d’oro ove si scambia un simbolo della
benedizione feconda di Dio proprio con Dio stesso. E se volessimo scegliere un
antropomorfismo perfetto, il più alieno da equivoci? La scelta, a nostro
avviso, dovrebbe cadere sul giovanneo «Dio è amore» (1Giovanni 4,8.16; si veda
anche 2Corinzi 13,11 ove si parla del «Dio d’amore»).
Famiglia
Cristiana
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