-Domenica
14 Luglio 2024-
Commento
di don Andrea Vena
al brano del Vangelo
di: Mc 6, 7-13
Continua
il nostro cammino alla scuola della Liturgia domenicale. Abbiamo recepito che
il Regno di Dio, e quindi ciascuno di
noi, è come un seme gettato nella terra che porterà frutto, al di là dell’apparenza (11^ domenica, 16 giugno ‘24);
che Gesù sa dominare la tempesta del mare e quindi le nostre tempeste (12^ domenica, 23 giugno);
che Gesù guarisce chi si accosta a Lui animato dal desiderio di salvezza (13^
domenica, 30 giugno); che Gesù chiede a ciascuno di farsi bambino per
lasciarci meravigliare dalle sue
sorprese (14^ domenica, 7 luglio).
Piccoli
tasselli che chiedono di essere tenuti presenti per cogliere il filo rosso che
li lega e che ci permette così di comporre il mosaico del Volto di Gesù e
quindi, in Lui, del volto di ciascuno di noi. Infatti, come Gesù è una cosa
sola col Padre, tanto che chi ha visto Lui ha visto il Padre (Gv 14,9), così
anche noi dovremmo essere talmente uniti a Lui che chi vede noi, vede Gesù.
Questo sarà possibile nella misura in cui ricorderemo che all’inizio della chiamata,
della missione c’è sempre e solo Gesù: Lui è la ragione ultima, ma è anche la
forza e il coraggio della perseveranza, come ci ricorda Amos nella I lettura
presentata oggi dalla liturgia: “In quei giorni, Amasia disse ad Amos:
“Vattene…Amos rispose ad Amasia: Non ero profeta né figlio di profeta: ero un
mandriano…il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore
mi disse: Va’, profetizza al mio popolo”. Solo avendo chiara l’identità della
missione aiuta a non divenire “Fanciulli in balìa delle onde, trasportati qua e
là da qualsiasi vento di dottrina” (Ef 4,14).
Oggi,
XV domenica, Gesù affida ai Dodici il compito della missione. Si tratta di un
invio rafforzato da quanto ci è stato indicato in queste domeniche. Mandati
come piccolo seme gettato nel terreno della storia che, al di là
dell’apparenza, porterà i frutti per i quali è stato “gettato” (cfr 11^
domenica). Un invio rafforzato dalla
certezza che Gesù è e resterà sulla barca della nostra vita: a noi non
confinarlo a poppa, perché ci reputiamo autosufficienti, ma coinvolgerlo,
sempre (12^ domenica). A noi coltivare sempre desideri di salvezza, evitando di
lasciarci appiattire dalla massa (13^ domenica), lasciandoci piuttosto
sorprendere dalle Sue scelte; evitando di imbalsamare la vita, perché è più
grande della nostra piccola esperienza; evitando di imbalsamare il vangelo,
perché è molto più grande di quello che abbiamo compreso (14^ domenica). A noi
tutti, dunque, il compito di tenere fisso lo sguardo su Gesù affinché ci mostri
il suo volto (cfr 28,8: “Di te ha detto il mio cuore: Cercate il suo volto: il tuo volto, Signore io cerco”), che
non è altro che fare nostre le parole/la preghiera del salmo scelto dalla liturgia: “Mostraci Signore la tua
misericordia”.
v.
7: “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due… e dava loro
potere”. Dodici, numero che richiama quello delle tribù di Israele presenti al
Sinai al momento dell’alleanza con Dio (cf. Es 24,4). In Marco questa è la
terza chiamata: la prima era alla fede in Lui (Mc 1,16-20, chiamata di Andrea e
Simone; Mc 2,13ss: chiamata di Matteo); la seconda allo stare con Lui: “Salì
sul monte, chiamò a sé quelli che volle… ne costituì Dodici, perché stessero
con lui e anche per mandarli” (Mc
3,13ss). Chiamate, appelli che nascono da Lui: “Non voi avete scelto me,
ma io ho scelto voi” (Gv 15,16). E oggi, sulla stessa linea, la chiamata a
prolungare la Sua missione, andare a nome Suo. Li invia a due a due: ciò diventerà la prassi
missionaria cristiana, fondata su Deuteronomio 19,15: “Un solo testimone non avrà valore contro alcuno… il
fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o tre testimoni”. Ma il
dettaglio allude anche al mutuo aiuto nell’attività e alla reale possibilità di
testimoniare, loro per primi, l’amore vicendevole che predicano. Uniti in Lui e
tra noi nell’amore “perché il mondo
creda” (cfr Gv 17,21; “Da questo riconosceranno che siete miei discepoli, se
avrete amore gli uni per gli altri”(Gv
13,34-35).
vv.
8-9: “E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone:
né pane, né sacca, né denaro nella
cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche”. Colpisce il verbo “ordinare”: Gesù non offre
un consiglio, “ordina”. E a un ordine, si obbedisce. Il bastone del viandante serve come appoggio ma
anche come difesa contro gli animali feroci. Vengono proibiti, invece, pane
(ossia il vitto), la borsa (che richiama sia il possedere/sicurezza, sia
il fare elemosina). Una dev’essere la
tunica, e non due. Questo perché il modo di presentarsi davanti agli altri deve diventare il proprio modo
d’essere.
vv.
10-11: “E diceva loro: “Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non
sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi
ascoltassero, andatevene e scuotete la
polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro”.
A
differenza dell’evangelista Luca che è molto più preciso e dettagliato, Marco
si limita a raccomandare che il missionario che è stato accolto non cambi
abitazione, salvo che non venga rifiutato. Lo scuotere la polvere sotto i piedi
esprimeva la fine di un rapporto: ad esempio, quando un giudeo lasciava la terra pagana per tornare
nella sua patria scuoteva la polvere dai piedi. In questo caso si suggerisce che chi non accoglie la
testimonianza degli inviati/missionari debba essere considerato come “terra
pagana”.
vv.
12-13: “Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano
molti demoni, ungevano con olio molti
infermi e li guarivano”.
L’attività
dei Dodici ricalca l’attività di Gesù (1,15).
Il
Signore delinea così il profilo dei Dodici ma in loro, il profilo di ciascun
credente mandato a testimoniare la sua Parola. Una missione che sgorga non da
conoscenze superficiali, come quelle dei
Nazareni che abbiamo ascoltato domenica scorsa, ma da una conoscenza
“esistenziale” (“Li chiamò perché
stessero con Lui, e anche per mandarli”). Uno stare con Gesù che implica un
lasciarsi guarire per guarire, un
lasciarsi liberare per poter liberare, un lasciarsi misericordiare per poter
essere misericordiosi. Perché il discepolo non porta se stesso, ma porta
Gesù. Nelle indicazioni che Gesù rivolge
ai discepoli, ossia a quanti si sono lasciati sedurre dal suo amore (Ger
20,7-9), – principio e fondamento dell’essere discepoli – troviamo le
caratteristiche che dovrebbero qualificare ogni testimone del vangelo: gioia,
sobrietà, libertà, amicizia.
La
Gioia di saperci amati, scelti, mandati senza nostro merito ma unicamente per
Amore di Gesù. Sobrietà in ciò che si
porta con sé, perché già il modo di presentarsi è messaggio, suggerisce Gesù. Senza beni, senza favori o privilegi. Ricchi
unicamente dell’amore di Dio, confidando in sorella provvidenza a tal punto da divenire capaci di
lasciar perdere tutte queste cose e considerarle come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo (Fil
4,7ss). È interessante a tale riguardo il fatto che Gesù su questo punto dia un “ordine”, quasi a
suggerire che un certo stile di vita non lo metti in atto se non ti è chiesto per obbedienza dall’Unico che
può chiedere una cosa simile.
Caratteristica
che emerge anche in un altro passo del
vangelo: “Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri” (Gv 15,17). È in quest’ottica che va dunque compreso lo stile
del cristiano: non perché lo dice il mondo, la TV, la moda… ma perché lo ha detto Gesù: la mia, la
nostra scelta si fonda su un atto di obbedienza. E Gesù prima di “dirlo” lo ha vissuto, e questo
chiede a quanti accettano di seguirlo. Un dettaglio: anche il fallimento della missione, il non
raccogliere applausi è una forma di “povertà” che ci viene chiesta di vivere, fino a divenire capaci di
dire: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17,7),
ricordando che si è inutili non nel senso che non serviamo a nulla, ma che quanto facciamo lo facciamo senza-utile. Per
obbedienza e amore di Gesù e degli uomini e donne a cui Lui ci invia.
Libertà:
è nell’obbedienza e nella sobrietà si ritrova la libertà. Può sembrare
paradossale, tenuto conto che viviamo in
un contesto in cui la libertà equivale al far quello che si vuole. Ma in realtà
la libertà sta proprio nell’affidarsi al
Signore e lasciare che sia Lui a guidare ogni cosa, perché è Lui che ci ha resi liberi dal peccato (Rm 6,22),
che è la più grande e subdola delle schiavitù. Una libertà che non affonda le sue motivazioni nel mio
star bene, ma nel saper di compiere la volontà di Colui che mi e ci ha scelto e quindi inviato.
Allora
non confideremo tanto sui mezzi, quanto sullo scopo per il quale siamo stati scelti, chiamati e
mandati: annunciare il Regno, crescere e far crescere a una misura alta della vita. Per il resto…
sarà Lui a provvedere a quanto serve: “Non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il
vostro corpo…osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche
Salomone vestiva come uno di loro” (cfr Mt 6,25-26); “Chiunque avrà lasciato
case, o fratelli, o sorelle, o padre, o
madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in
eredità la vita eterna” (Mt 19,29). I
discepoli sanno che Gesù stesso provvederà (Gn 22,8); . Come un tempo Dio
ha nutrito il popolo con la manna nel
deserto (Es 16), così oggi continua a moltiplicare il pane quando serve (cfr Mc 8) fino a farsi Lui stesso pane
di vita per noi (Gv 6,48).
Amicizia:
non si può “predicare” l’amore vicendevole se non lo si mostra con la vita. Non
si può predicare la fraternità, la
collaborazione vicendevole se prima non si vive questa esperienza. In quell’essere inviati “a due a due” c’è
l’impegno di mostrare con la vita, prima che con la parola, la gioia della comunione, il vivere insieme,
l’aiutarsi vicendevolmente.
La
gioia di “provare” che il vangelo non è
un fatto intimistico e individualistico, ma fraterno e comunitario (cfr “Dove
due o tre sono riuniti nel mio nome, io
sono in mezzo a loro” (Mt 18,20). Gesù stesso per primo si è fatto nostro
Amico per insegnarci a diventare amici
(Gv 15,9-17). Questa gioiosa memoria, questo fuoco, questa consapevolezza di
essere amati e quindi scelti e mandati dal Signore Gesù è la ragione ultima di
ogni mia e nostra scelta, è la ragione
ultima della mia e nostra obbedienza: “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 4,29).
Cercoiltuovolto
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