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sabato 1 giugno 2024

CORPUS DOMINI

 «Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?»



Es 24,3-8; Sal 115 (116); Eb 9,11-15; Mc 14,12-16.22-26

 -         Commento di Ester Abbattista*

          L’ultimo momento d’incontro con tutti i suoi discepoli Gesù sceglie di passarlo attorno a una tavola, celebrando insieme a loro la Pasqua ebraica. Tale decisione e tale gesto è in coerenza con tutto il suo ministero messianico, un ministero all’insegna della commensalità.

          Se si fa caso, infatti, in tutti i Vangeli «la tavola» è un luogo privilegiato, che Gesù utilizza non solo per incontrare le persone, ma per intavolare con loro discorsi, offrire insegnamenti, comunicare vita. E le persone attorno a quel «tavolo» sono le più diverse e diversificate: si va dai pubblicani, alle prostitute, ai peccatori, ai farisei ecc. Tutti sempre riuniti intorno a una mensa, invitati a condividere pensieri, parole, speranze e soprattutto cibo.

          Perché una tavola, perché del cibo costituiscono un elemento così ricorrente nella predicazione di Gesù? Che cos’è il cibo nell’esperienza dell’esistenza umana, e che cosa ha a che fare con il divino?

          La creazione, nel primo racconto di Genesi, si conclude con il dono del cibo: Dio dona a ogni essere vivente, animali e esseri umani, del cibo, nella fattispecie solo di tipo vegetariano, proprio perché ogni essere vivente possa rimanere in vita. Il cibo, infatti, e soprattutto l’azione del mangiare, è ciò che ricorda a ogni creatura il proprio limite, la propria creaturalità: senza cibo non si vive.

          Allo stesso tempo, il cibo rappresenta la condivisione di vita: mangiare insieme significa condividere la vita, significa riconoscersi legati da una relazione e, anzi, celebrare quella stessa relazione. Non ci sono feste in cui il cibo non abbia la sua parte, né eventi che non si concludano con un ritrovarsi tutti insieme a tavola. E questo vale anche in relazione a Dio: l’alleanza sul Sinai si conclude con un banchetto finale: «Mosè salì con Aronne, Nadab, Abiu e i settanta anziani d’Israele. Essi videro il Dio d’Israele: sotto i suoi piedi vi era come un pavimento in lastre di zaffìro, limpido come il cielo. Contro i privilegiati degli Israeliti non stese la mano: essi videro Dio e poi mangiarono e bevvero» (Es 24,9-11).

          Ma da sempre, e in tutte le manifestazioni e forme religiose, l’offerta del cibo esprime anche il desiderio di comunione di vita con la divinità, manifestando così l’idea che se anche la divinità «mangia» lo stesso cibo dell’offerente, ciò permette d’instaurare un legame più forte e, soprattutto, vitale.

          Nella Bibbia troviamo proprio tutte queste dimensioni, ma non solo. Come si è detto, Dio dona del cibo; a sua volta anche il credente offre del cibo a Dio, in particolare attraverso i cosiddetti sacrifici di comunione (cf. in particolar modo Lv 7); ma la novità assoluta e unica, rispetto a qualsiasi altra forma religiosa, è che nel Nuovo Testamento è Dio stesso che si offre come cibo.

          Siamo partiti dal fatto che Gesù predilige la commensalità come luogo d’incontro, di predicazione e di comunione e, come ci narra il Vangelo di oggi, il suo ultimo gesto è attorno a una tavola, dove non solo condivide il cibo con i suoi, ma offre se stesso come «cibo» perché tutti i suoi discepoli, ieri, oggi e domani, possano vivere per sempre la comunione con lui, in attesa, come lui stesso dice, di ritrovarsi tutti insieme nel «banchetto finale», con cui si chiude peraltro l’Apocalisse (Ap 19,9), nella pienezza del tempo, nel regno di Dio.

          Certo, se guardiamo oggi alle nostre «eucaristie» è difficile rintracciarvi l’idea della mensa e ancora di più lo stile della commensalità. Le persone, sempre meno numerose, che partecipano all’eucaristia per la maggior parte nemmeno si conoscono e soprattutto, finito il «rito», difficilmente condividono la vita, vivono nella comunione reciproca.

          Siamo ancora ben distanti da ciò che Paolo scriveva ai Corinzi: «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane» (1Cor 10,16-17). Nel testo di Paolo si dice qualcosa circa il rapporto con il Cristo e il rapporto reciproco, l’uno con l’altro: Cristo è l’unico pane e, allo stesso tempo, tutti i credenti riuniti nel suo nome «sono» l’«unico pane»; attraverso la comunione originata da colui che si è fatto «pane» tutti coloro che partecipano alla sua mensa possono divenire quel «pane di vita» gli uni per gli altri.

          Stando al racconto degli Atti il memoriale della «cena del Signore» avveniva nelle case, intorno a una tavola, dove il mangiare insieme costituiva, fondava e alimentava il senso di comunione, non solo con Dio, nel rinnovo dell’alleanza, ma anche gli uni con gli altri, nel divenire quell’«unico corpo» alimentato da quell’«unico pane». E direi che su tutto questo c’è ancora tanto da riflettere.

 * Docente di Sacra Scrittura presso Pontificio Ateneo Sant'Anselmo

 Il Regno

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