Perché
io non scriverò “Giorgia”
-
- di Giuseppe Savagnone *
«Se volete dirmi che ancora credete in me scrivete sulla scheda
“Giorgia”, perché io sono e sarò sempre una di voi. Il potere non mi cambierà,
il Palazzo non mi isolerà».
Lo
ha detto la premier e leader di FdI Giorgia Meloni, dal palco della conferenza
programmatica del suo partito, a Pescara, annunciando alla platea in delirio
dei suoi militanti la decisione «di scendere in campo per guidare le liste di
Fratelli d’Italia in tutte le circoscrizioni elettorali» nelle prossime
elezioni europee.
Ma
già nel simbolo elettorale di Fratelli d’Italia c’è scritto “Giorgia Meloni”,
così come, del resto, in quello della Lega si legge “Salvini Premier” e in
quello di Azione “con Calenda”.
Ancora
più eloquente il permanere, nel contrassegno di Forza Italia, dell’intestazione
“Berlusconi presidente”, quasi a inverare la barzelletta secondo cui il
cavaliere, in vita, avrebbe rifiutato di investire in un sepolcro,
considerandosi destinato alla resurrezione, come Gesù.
A
mettere il proprio nome nel simbolo elettorale ci aveva provato anche la
segretaria del PD, Elly Schlein, ma la sua proposta ha suscitato nel partito
una rivolta che l’ha costretta a fare marcia indietro. L’obiezione, alla fine
vincente, è stata che nel Partito Democratico una cosa simile non si era mai
fatta e che gli elettori sarebbero rimasti sconcertati. Ma lei ha ceduto a
malincuore.
Il
primato dell’ottica nazionale su quella europea
Questa
personalizzazione delle liste è già evidente, del resto, nella scelta di ben
quattro leader di partito – Meloni per FdI, Schlein per il PD, Tajani per FI,
Calenda per Azione – di presentarsi come capilista in tutte o almeno in alcune
circoscrizioni. Un fatto unico in Europa e che già di per sé merita una
riflessione.
Perché
è chiaro che una simile scelta implica una profonda sfiducia nella lucidità dei
propri elettori, ai quali viene fatto balenare, come uno specchietto per le
allodole, il nome più prestigioso del partito, mettendolo in cima alla lista
dei candidati e spingendo così a votarla.
Magari
aggiungendo, come nel caso della Meloni, uno spot sintetico ed efficace: «Con
Giorgia l’Italia cambia l’Europa». Puntando sul fatto che il votante non si
renda conto che la sua preferenza, in realtà, sarà inevitabilmente dirottata su
qualcun altro, di cui egli non sa nulla
e che non avrebbe mai scelto come suo rappresentante.
Perché,
in realtà, si sa già benissimo che né la Meloni, né la Schlein, né Tajani, né
Calenda, metteranno mai piede nel Parlamento europeo. Per impegnarsi a pieno
tempo in Europa – come promettono negli spot e negli slogan – dovrebbero
rinunciare a farlo in Italia, e ovviamente, per il loro ruolo, non possono né
vogliono farlo.
Il
loro intento, nel candidarsi fittiziamente, è solo di attirare voti sul proprio
partito e rafforzarlo, nella tornata elettorale dell’8-9 giugno, all’interno
dello scenario italiano.
Una
operazione evidentemente scorretta, che non si verifica in nessuno dei grandi
Stati europei, e che Romano Prodi ha definito «una presa in giro dei
cittadini», sottolineando che «si chiede agli elettori di dare il voto a una
persona che di sicuro non ci va a Bruxelles, se vince. Queste sono ferite alla
democrazia».
Al
di là della “presa in giro”, il significato di questo fenomeno, tutto italiano,
è alla fine uno solo: la totale strumentalizzazione del problema dell’Europa a
quello angustamente nazionale. Quello che conta è vincere in Italia.
Da
qui anche la tendenza, nel dibattito elettorale, a lasciare in secondo piano i
problemi specifici dell’Unione europea – quelli che il nuovo Parlamento
dovrà realmente affrontare – ,
particolarmente urgenti e drammatici in questa congiuntura storica, per puntare
su polemiche nostrane che appassionano l’opinione pubblica ed evidenziano il
precipitare del livello di consapevolezza politica nel nostro paese.
«Questa
Italia che cambia oggi può cambiare l’Europa», ha detto Giorgia Meloni
annunziando la propria candidatura. Proprio la sua scelta – come quella degli
altri leader che l’hanno condivisa – induce spontaneamente a pensare: «Speriamo
di no!».
Il
futuro dell’Europa dipende infatti dalla possibilità che finalmente i paesi
membri escano dalla logica autoreferenziale che ancora appare predominante e di cui proprio quello che sta accadendo in Italia è l’espressione
più lampante.
L’avvento
del populismo
Si
inserisce in questa corsa alla personalizzazione l’inserimento dei nomi dei
leader nei simboli elettorali, di cui si parlava all’inizio. Nella Prima
Repubblica, fino al 1992, nessun partito ha mai messo il nome del suo leader
nel simbolo.
La
politica era basata sul confronto tra visioni diverse – si pensi al conflitto
tra quella democristiana e quella comunista -, e chi andava a votare sapeva di
stare facendo una scelta di prospettive ideali e di valori.
Con
la fine di questa fase storica, dovuta anche al tramonto delle grandi
ideologie, e con l’avvento della Seconda Repubblica, al posto delle idee hanno
acquistato sempre più un ruolo centrale i personaggi.
Così,
per la prima volta, nelle elezioni politiche del 1992, si è assistito alla
presentazione di una «lista Pannella». Ma la svolta decisiva è stata in quelle del 2001, quando Berlusconi ha
inserito il proprio nome nel simbolo di un partito – Forza Italia – nato da lui
e in funzione di lui.
Scelta
emblematica, che ha espresso bene l’avvento di una nuova stagione, in cui è
stata la sua persona, più che le sue idee, a condizionare la politica italiana.
E le tornate elettorali si sono ridotte a un plebiscito sul suo “personaggio”,
con la stessa intensità idolatrato dai suoi fans e detestato dai suoi
avversari.
Significativo
il fatto che il suo non fosse un programma politico, valido o meno in sé, ma un
personale “contratto con gli italiani”, un appello ad avere fiducia in lui.
Questo
dialogo diretto tra il leader e il “popolo” è tra le novità che hanno segnato
l’avvento del populismo in Italia. Mentre venivano sempre più svalutate le
mediazioni istituzionali (il parlamento) e culturali (gli intellettuali) – la
“casta” – , la figura di Berlusconi è diventata, nell’immaginario collettivo,
l’icona delle aspirazioni dell’italiano medio (le donne, i soldi, il successo).
E
nell’italiano medio il cavaliere ha voluto identificarsi mediaticamente,
riproducendo la sua carica di umanità e strizzando l’occhio ai suoi vizi (come
quando ha pubblicamente giustificato l’evasione fiscale) . “Uno di noi”, vicino
alla gente, capace di ascoltare tutti e di comunicare con tutti, mai
prigioniero di un ruolo ingessato, anche a costo qualche volta di scandalizzare
i suoi interlocutori stranieri con le sue battute e i suoi comportamenti ben
poco istituzionali.
Da
qui anche uno stile politico personalistico, insofferente delle regole,
considerate inutili fardelli formali, e delle opposizioni, accusate di “remare
contro”, soprattutto in costante polemica con la magistratura, vista come un
impaccio o una minaccia, invece che come espressione della divisione dei poteri
prevista dalla nostra Costituzione.
L’esempio
di Berlusconi non è rimasto isolato. Esso ha contagiato e contaminato il clima
politico e continua a condizionarlo fino ad oggi. Tutti i partiti ne sono stati
profondamente influenzati, perdendo progressivamente la loro identità. E ne è
stata influenzata la gente. Ne vediamo gli effetti. Mai come oggi la politica
si è ridotta a una corsa al consenso e al gradimento espresso nei sondaggi.
Un
solo esempio: pochi giorni fa, nel Parlamento europeo, i rappresentanti dei
partiti italiani, sia di governo che di opposizione, sono stati gli unici – su
27 paesi – a rifiutarsi, per timore dell’impopolarità, di approvare la proposta
del nuovo Patto di stabilità, che potrebbe comportare dei sacrifici e che alla
fine anche il governo italiano non ha potuto che sottoscrivere.
Ma
è tutto lo stile del dibattito politico che è molto cambiato, rispetto a quello
della Prima Repubblica. Invece di proporre idee, si gridano slogan. Invece di
veri programmi, contano i nomi e le facce. Non a caso le prossime elezioni
europee vengono presentate spesso come un duello tra due donne, Meloni e
Schlein (alla faccia del patriarcato…), che chiedono entrambe fiducia nella
loro persona.
«Scrivete
Giorgia»
In
questo quadro rientra e spicca per coerenza l’atteggiamento della nostra
presidente del Consiglio. Non per nulla, quando è morto il fondatore e padre
della Seconda Repubblica, ha voluto il lutto nazionale. Anche per lei, come per
Berlusconi, i magistrati sono un ostacolo e, in particolare, quelli di loro
che, basandosi sulla legge, «contrastano le misure del governo» relative ai
migranti, «remano contro».
Anche
lei, come Berlusconi, non vuole restare prigioniera dell’istituzione: «Io sono
fiera di essere una persona del popolo». E anche lei col popolo vuole avere un
contatto diretto, senza passare dalle mediazioni (già oggi il Parlamento è
praticamente azzerato) che attualmente sono previste dalla Costituzione.
Tutto
previsto: nel programma elettorale della destra si prevedeva la riforma del
premierato, al fine di «assicurare la stabilità governativa e un rapporto
diretto tra cittadini e chi guida il governo». Non a caso questa viene definita
«la madre di tutte le riforme».
E,
se verrà fatta, lo sarà davvero, perché comporterà un radicale stravolgimento
della nostra Carta costituzionale, rendendo istituzionale quel dialogo personale tra il “capo” e il
“popolo” che Berlusconi già aveva realizzato mediaticamente e che trasforma il
discorso politico in un atto di fede personale.
L’approccio
ideale, in passato, per tutti i totalitarismi, e che oggi si potrà ancora più
facilmente realizzare nelle forme nuove consentite dalla realtà virtuale,
grazie a cui il leader carismatico diventa un ologramma in cui tutti si
riconoscono.
Rileggiamo
le parole del discorso di Pescara: «Se volete dirmi che ancora credete in me
scrivete sulla scheda “Giorgia”, perché io sono e sarò sempre una di voi». Ci sono persone che hanno pianto di
commozione, ascoltandole.
A
me sono venute in mente le amare riflessioni che ho espresso in queste righe. E
molti elettori, l’8 e il 9 giugno, scriveranno “Giorgia” sulla scheda
elettorale. So di essere in minoranza, ma io non lo farò.
*Scrittore
ed Editorialista – Pastorale della Cultura della ‘Arcidiocesi di Palermo
www.tuttavia.eu
Nessun commento:
Posta un commento