SOVENTE IL FARE MEMORIA, SIGNIFICA CELEBRARE SE STESSI, DIMENTICANDO LE RADICI E NON SAPENDO GUARDARE OLTRE L'ORIZZONTE
Pubblichiamo, di seguito, due articoli sull'Alzheimer come metafora. Ci sono vari spunti per riflettere, come educatori, sulle strategie più opportune per educare alla memoria, una memoria non autocelebrativa, ma seme feconda per un futuro migliore.
La memoria e la gratitudine esaltano la dignità della persona e la proiettano verso l’infinito. gp
Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere. José Saramago@
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di Graziano Graziani
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La
vita è un processo di trasformazione continua, che passa dall’agilità
dell’infanzia alla rigidità della vecchiaia, un processo così mirabolante di
mutazione che è difficile credere che sia davvero lo stesso soggetto ad
attraversare l’uno e l’altro stadio, ad “essere” ed “essere stato” la stessa
persona. E in effetti l’individualità, intesa come identità costante di un
soggetto, è da tempo al vaglio di una serrata critica di carattere filosofico,
psicologico e perfino artistico, se è vero che già nel 1871 Rimbaud affermava
che “io è un altro”. Il collante di questa incessante mutazione, prima ancora
di qualcosa che potremmo chiamare “io”, è il racconto di ciò che questo io è
stato, la concatenazione consequenziale di episodi della vita, in una parola il
ricordo. La memoria. È la memoria di ciascuno e ciascuna a creare l’io, o per
lo meno a renderlo visibile, pensabile, grazie a un processo di racconto che dà
senso al flusso, di per sé assai meno ricco di significato, dell’esistenza. Già
Pasolini, nell’accostare il montaggio alla morte in un celebre saggio sul
cinema, cercava di evidenziare quanto fosse l’intellegibilità, il racconto –
che è anche selezione e sintesi – a creare in un certo senso l’esperienza
umana, riducendola ad un fatto narrabile. Se è pur vero che il culmine di
questo costante processo di trasformazione è l’«abisso orrido, immenso» di cui
parla Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia,
è pur vero, tuttavia, che finché è possibile raccontare la propria storia,
trasmetterla a qualcuno, esiste una speranza di continuazione e di
sopravvivenza che va oltre il corpo e la sua fisicità, oltre quel destino dove
«il tutto oblia».
In
uno dei passaggi più emotivi del romanzo storico I tamburi nella
pioggia, Ismail Kadare racconta di un soldato ottomano intrappolato in un
tunnel crollato assieme a dei commilitoni, inghiottiti dal buio e in attesa
della morte; in una simile terribile condizione tutto quello che desidera fare
quel soldato è cercare, invano, qualcuno che sia disposto ad ascoltare la sua
storia. Quel desiderio, così umano e tuttavia inutile, poiché chiunque avrebbe
ascoltato sarebbe comunque poi morto con lui, ci racconta di quanto
insopprimibile sia il desiderio di operare questa ricapitolazione della propria
esistenza.
Non stupisce allora che in una società come la nostra – che dà un lato ha
edificato un vero e proprio culto della memoria collettiva e personale, e
dall’altro si trova ad affrontare la condizione inedita di invecchiare sempre
di più, di sperimentare la sproporzione tra giovani e vecchi a vantaggio di
questi ultimi – si rifletta sempre di più sull’identità in chiave della sua
disgregazione, non più secondo il topos della follia, caro ai secoli passati,
ma seguendo il tracciato del decadimento fisico. Decadimento che, in questo
tipo di società sempre più anziana, diventa materia tangibile, esperienza
quotidiana, e che interessa il corpo quanto la mente.
L’Alzhaimer,
oltre che essere una malattia, è una metafora. È il simbolo dell’impotenza di
una società che crede di poter dominare ogni aspetto della vita; è il segnale
tangibile dell’illusione a cui la memoria ci espone. Buco narrativo nel
racconto del sé, ma anche lo sguardo impudico sulla disgregazione di un io, è
uno strappo che non riguarda soltanto chi affronta la malattia, ma anche chi è
vicino al malato, perché l’ambiente affettivo di ciascuno di noi, che è parte
di noi stessi, ne viene investito e travolto.
Diversi artisti, negli ultimi anni, hanno scelto di indagare questa frattura,
spesso partendo da questioni biografiche, come è intuibile, ma non solo,
cercando di affrontare la malattia nelle sue implicazioni che travalicano la
dimensione privata, quella sorta di “lutto anticipato” che è il disgregarsi di
una mente che ha fatto parte, spesso in modo intimo, del nostro mondo. Questo
numero di «93%» sceglie allora di indagare la malattia, il decadimento, come
materia di riflessione artistica oltre che filosofica, dando spazio alle
riflessioni di quattro artisti che hanno lavorato su questo tema. Quattro
diversi approcci che però hanno moltissimi punti di connessione tra loro.
Adrian Bravi, da scrittore e romanziere, riflette sulle
parole che scompaiono. Scompaiono le parole, come strumento della comunicazione
con l’altro, ma con esse scompare anche la relazione. Non dissimile è il
ragionamento di Andrea Cosentino, che nel suo spettacolo evoca anche
l’illusione che abbiamo del tempo come moto lineare, tirando in ballo persino
la fisica quantistica. Se scompaiono il senso e persino il tempo, da questa
scossa tellurica sembrerebbe emergere nient’altro che il caos della nuda
esistenza, eppure entrambi gli autori intravedono qualcosa che riconnette gli
esseri umani a un elemento trascurato, quando non perfino negato,
dell’esistenza: la sua leggerezza, la sua consistenza effimera. Sullo stesso
procedimento di racconto, ma di segno opposto, si snoda il lavoro teatrale
di Fabiana Iacozzilli, che evoca un quadro familiare dove la
tensione si concentra sul tentativo, destinato inevitabilmente alla sconfitta,
di trattenere la memoria, di arrestare la scomparsa e l’oblio. È questo, in
parte, un compito affidato all’arte stessa, compito a sua volta effimero, ma
che nell’allungare oltre i limiti fisici l’esperienza di una persona disegna
comunque la possibilità di una dimensione ulteriore, collettiva,
intergenerazionale, che ha a che vedere con il lascito, con l’eredità. Jacopo Giacomoni ricorre invece – come anche Cosentino
– alla musica, una musica “slogata” che si interfaccia con un loop testuale,
dove la decadenza diventa tangibile esperienza della dissipazione del
significato. Un’esperienza che, seguendo la lezione di Mark Fisher, Giacomoni
allarga dal particolare della mente individuale, soggetta a decadimento, al
generale di una società “infestata” dal passato (un passato sovente utilizzato
per celebrare se stessi, non per fare vera memoria) galleggiante in un presente
immutabile dove frammenti di codici retrò riaffiorano periodicamente, sconnessi
dai propri significati originali.
-
L’Alzheimer come metafora dell’oggi
-
- - di Stefano Allievi
Siamo
un paese che invecchia e si spopola. Più morti che nati. Più emigranti che
immigrati. Lo scompenso tra generazioni è in crescita. La piramide demografica
è diventata una specie di cilindro in precario equilibrio, perché più largo in
alto che in basso: e dunque a rischio di crollo. Con conseguenze impreviste. La
malattia di Alzheimer è una di queste, e può essere letta come una metafora
della nostra situazione. Perché è legata direttamente all’anzianità (colpisce
una persona su cento tra i 65 e i 74 anni, ma ben una su cinque sopra gli 85 –
il frutto avvelenato di una buona notizia, l’allungamento della speranza di
vita). E perché produce, tra le altre cose, perdita della memoria e del senso
della realtà: scaricandone le conseguenze sulle generazioni più giovani.
I
malati di Alzheimer (che può avere forme più o meno gravi) sono persone con cui
è difficile relazionarsi. Moltissimi hanno problemi per vestirsi o curare la
propria igiene. Una cospicua minoranza (vicina al quaranta per cento) manifesta
forme di aggressività verbale, quasi il venti per cento anche fisica, un po’ di
più reagiscono ad accadimenti che non comprendono urlando. Quasi un terzo
confonde il giorno e la notte, moltissimi, nella forma più nota e anche
leggera, non riconoscono congiunti o conoscenti, o non hanno memoria di breve
termine, per cui ripetono continuamente le stesse domande, di solito a
proposito delle medesime persone.
Ma
a parte i cambiamenti nella loro personalità, inducono cambiamenti nelle loro
reti di relazione, e nella società. Mediamente hanno bisogno di quattro ore di
assistenza diretta, e dieci-undici ore di sorveglianza. Producono in chi si
occupa di loro frequenti e improvvise assenze dal lavoro, in molti casi la
necessità della richiesta del part-time (che di solito finisce per pesare sulle
donne), nel venti per cento dei casi la perdita stessa del lavoro (idem). Con
un costo medio stimato a paziente di 70mila euro l’anno, di cui 19mila
direttamente a carico delle famiglie, significa che spesso i figli, costretti a
diventare i genitori dei loro genitori, a seguito del sovraccarico lavorativo
ed emotivo vivono situazioni di stanchezza e depressione, che si riverberano
sulla vita familiare. Così come il costo economico dei genitori si riverbera e
ha conseguenze sulle opportunità, anche educative, offerte ai figli, dalla
generazione che sta in mezzo. I risparmi di una vita, in non pochi casi,
finiscono per svanire in poco tempo per occuparsi di persone che non
recupereranno alcuno stato di salute. Gli stessi caregiver (assistenti,
badanti) assoldati allo scopo, spesso stranieri, non sono adeguatamente
professionalizzati, e tamponano come possono le falle del sistema (come fanno,
giocoforza, coniugi e figli dei malati). I servizi, infine, non sono adeguati
alla drammaticità del problema, e gli investimenti previsti insufficienti
rispetto al suo aggravarsi.
Nella
sua drammaticità, specifica di una categoria per fortuna non amplissima, ma in
crescita, descrive bene la situazione del paese. Un sistema che regge grazie al
lavoro e all’inventiva di adulti e forza lavoro, non abbastanza aiutati per
quello che fanno. Ma squilibri di genere ingiustificati. I vantaggi delle
generazioni più anziane che diventano svantaggi per quelle più giovani, le
tutele degli uni che diventano i gravami degli altri. E ancora, le reti di
servizio insufficienti e sottodimensionate, con il conseguente peso che grava
interamente su famiglie peraltro sempre più piccole, con meno risorse e più
problemi. E in tutto questo, un dibattito politico che parla di tutt’altro, di
preferenza di cose inutili o addirittura controproducenti per risolvere la
situazione (un esempio: immaginiamo come sarebbe la situazione senza colf e
badanti stranieri…). E pochi (che per fortuna ci sono) tra i governanti e i
responsabili, che avendo una visione delle tendenze in atto, cercano di
affrontare i problemi, e al contempo di far quadrare i conti, come un buon
padre di famiglia (come si diceva una volta nel linguaggio giuridico: oggi
dovremmo dire un genitore avvertito) dovrebbe fare.
Davvero,
non sembra la descrizione del nostro paese?
Corriere
della Sera
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