Le domande di Gino, le mille ore per rispondere
TORNARE
AD EDUCARE,
ANCHE QUANDO
SI FA MATEMATICA
O INGLESE
-
di ELENA UGOLINI
Sedici
anni fa un mio ex alunno, Martino, moriva a 15 anni, devastato da una lunga
malattia. Lo faceva con un sorriso, davanti alla mamma piegata dal dolore. In
quel dramma l’unica immagine che non riuscivo a togliermi dagli occhi era
quella di Gesù davanti alla vedova di Naim. Ma com’è possibile dire «donna non
piangere!» a una mamma davanti al figlio esangue? Solo l’esperienza che
l’ultima parola sulla vita non è la morte può dare questo coraggio. È lo stesso
coraggio che abbiamo visto in questi giorni nel papà di Giulia. Con quello che
ha detto al mondo ci ha aiutato ad aprire la porta che collega il cielo e la
terra. Senza quella porta, di fronte alla violenza che ha dovuto subire Giulia,
ogni parola sarebbe inutile, anzi falsa, anzi dannosa. La vita è un mistero di
bene e di male ed il confine passa dentro ognuno di noi. Nessuno escluso, ma è
possibile cambiare. Non è scontato l’inno alla vita, all’amore, alla
possibilità di cambiamento e di costruzione di un modo diverso di trattarsi,
che ci ha consegnato Gino nel giorno più buio e più cupo della sua vita. Ed è
ancora più incredibile pensare che lo abbia fatto, dopo aver attraversato da
pochi mesi, insieme ai suoi figli, un altro dolore immenso, quello della
“perdita” della moglie. Quello che ci ha fatto vedere il papà di Giulia è un
Altro mondo, in questo mondo. Per questo il suo invito a rompere il cerchio di
violenza e di ingiustizia, la sua richiesta di cambiare il modo di trattarci
(in famiglia, a scuola, nei media, dappertutto) è credibile e deve diventare
l’ipotesi di lavoro della nostra vita, qualunque lavoro facciamo, da qualunque
storia e cultura veniamo, qualunque percezione della vita e dell’altra persona
possiamo avere. Saremmo ipocriti se pensassimo che la sua proposta sia bella ma
impossibile. Se è vero per lui, con quello che lui ha vissuto può essere vero
anche per noi. Basta chiederlo.
È
così facile minimizzare le violenze, non accettare le sconfitte, avere come
chiave del rapporto la pretesa, appropriarci di chi amiamo fino a soffocarlo e
distruggerlo. Ogni giorno possiamo “uccidere” chi abbiamo davanti oppure dargli
lo spazio per esistere davanti a noi, con noi. Dopo averlo ascoltato ho solo
delle domande che vorrei diventassero i capitoli di un nuovo libro da scrivere
insieme. Iniziamo in famiglia. Che cosa significa «educare i nostri figli al
rispetto di ogni persona, ad una sessualità libera da ogni possesso e all’amore
vero che cerca solo il bene dell’altro»? Che cosa vedono i nostri bambini in
noi genitori? Qual è il contenuto dei nostri dialoghi, sempre che ci sia un
dialogo? Che peso hanno le nostre aspettative, il giudizio senza appello che
spesso leggono nei nostri occhi? Proseguiamo a scuola. È giusto continuare a
dividere l’istruzione dall’educazione, l’apprendimento dalla relazione? Che cosa
accade nelle nostre classi, nelle mille ore all’anno che viviamo insieme ai
nostri studenti e ai nostri colleghi? È verissimo: «Abbiamo bisogno di
ritrovare la capacità di ascoltare e di essere ascoltati, di comunicare
realmente con empatia e rispetto». Com’è possibile farlo insegnando matematica
e inglese, leggendo un libro o facendo un esperimento in laboratorio? Come
farlo sempre, senza delegare la cura di questa dimensione fondamentale solo ad
ore specifiche o a specialisti?
Ed
ora arriviamo ai media e alla sicurezza delle nostre città: «La diffusione di
notizie distorte che alimentano un’atmosfera morbosa e comportamenti violenti»
non aiuta sicuramente a cambiare il modo di trattarci. Non basta la polizia
postale perché una ragazza possa smettere di essere insultata sul web o non
bastano le forze dell’ordine perché possa camminare senza paura nelle strade
nostre città. Occorre l’attenzione e la cura di tutti. Il tema posto dal papà
di Giulia è drammaticamente vero. Ogni rapporto, in qualunque contesto, ad ogni
età, o è costruttivo o è distruttivo, o è “educativo” o è “diseducativo”.
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