SE LA RELIGIONE VIENE MESSA TRA PARENTESI
Due
filosofi a confronto su ateismo, agnosticismo e fine delle ideologie Postorino:
«Vera laicità è riconoscimento della complessità della vita». Borghesi: «Solo
persone animate da forti passioni ideali possono, in un momento in cui tutto
sembra vacillare, opporsi al manicheismo che sta dividendo i Paesi della terra»
-
di MASSIMO BORGHESI e FRANCESCO POSTORINO
F.P.
Alexandre Kojève, nella sua lettura di Hegel, definisce l’uomo religioso un
essere dalla «coscienza infelice», incapace di realizzare sé stesso perché
imprigionato in una duplice dimensione: quella dell’io empirico (schiavo del
mondo) e quella dell’io trascendentale (schiavo di Dio). Seguendo questo
itinerario, sembra che l’“ateo” sia l’unico felice in quanto gode di libertà e
autonomia da falsi miti. Al di là di questa interpretazione autorevole quanto
discutibile, è un fatto che nel corso della modernità il vento della
secolarizzazione ha spazzato via le «certezze interiori» maturate nel Medioevo
spalancando le porte all’ateismo: una sensibilità con cui occorre fare i conti
oggi più che mai. L’ateo, nel linguaggio comune, è colui che non crede nell’esistenza
di Dio. Ma è sufficiente dir così per definire una posizione in realtà piena di
sfumature o comunque più complessa? Si pensi a quei mistici che, dopo aver
vissuto radicalmente Dio, si rifugiano in una «notte oscura» privi del
Fondamento; senza esagerare, forse persino Cristo ha sentito una scintilla
problematica di “ateismo” nell’istante lungo e misterioso dell’abbandono.
M.B.
Dubito che l’“ateo” possa rivendicare oggi la posizione della felicità. Già
nella fase dell’ateismo radicale, quella che trova espressione nel pensiero del
’800, la rinuncia alla felicità era il prezzo da pagare per poter eliminare
l’idea di Dio. Il compromesso kantiano tra autonomia ed eteronomia, tra la
moralità e il postulato della felicità, appare inaccettabile. L’ateo appare
come una sorta di titano che, al pari di Prometeo, lotta contro Zeus. È il
Dioniso sofferente di Nietzsche. Di felicità nell’ateismo del XIX secolo ce n’è
veramente poca. Al contrario l’era contemporanea desidera fortemente la
felicità. La desiderano i giovani, illudendosi spesso, manipolati dalle false
promesse del mondo estetico, virtuale, mediatico. L’ateismo non è più
all’ordine del giorno dopo il suo fallimento tragico nei regimi totalitari che
lo hanno visto protagonista. Parlerei, piuttosto, di agnosticismo, di
sospensione del problema religioso che viene posto tra parentesi. E questo
spesso non per indolenza o scarsa volontà nell’impegno per il senso della vita
ma perché viene a mancare l’occasione di incontri con testimonianze cristiane
significative. Penso soprattutto al mondo giovanile. I giovani sono interrogati
dalla dimensione religiosa quando la vedono espressa in atto, la colgono nel
volto e nell’umanità dei loro coetanei, ragazzi e ragazze che trovano nella
fede un di più di umanità e di vita. Qui vale la legge per cui il simile è
attratto dal simile. Oggi si può divenire cristiani perché, come 2000 anni fa,
si incontrano dei cristiani vivi. La secolarizzazione, tante volte citata come
motivo di allontanamento dalla fede, non è dirimente. Come non era determinante
il paganesimo rispetto alla diffusione della fede nel mondo antico. La grazia
cristiana, quando è reale, ha una sua bellezza che attrae. É più persuasiva dei
pregiudizi che, provenienti dal pensiero post-illuminista, continuano a
permeare la nostra cultura.
F.P.
A proposito di agnosticismo, è interessante analizzare la definizione
introdotta dal filosofo britannico T.H. Huxley, il quale, proprio nel secolo
dell’ateismo e del furore positivista (l’ottocento), definiva il pensiero umano
incapace di conoscere e risolvere problemi di natura metafisica e religiosa. In
effetti, se escludiamo i rumori del fondamentalismo, ognuno di noi, credente o
meno, sa che l’uomo non gode di strumenti adeguati per conoscere e assaporare
l’ultima parola, l’ultima certezza dell’essere e dell’esistere. È vero che oggi
l’agnosticismo è spesso il frutto di una mancanza di incontri con vere
testimonianze e, aggiungerei, di un «si dice» epocale che rifiuta
approfondimenti legati al sovrasensibile. Ma la fede e l’agnosticismo
razionale, quello cioè che in maniera semplice e umile riconosce il limite
invalicabile dell’uomo, forse possono convivere insieme: si tratta, infatti, di
quella ineliminabile dose di incertezza che peraltro spinge il credo nella
tensione problematica con Dio.
M.B.
Potremmo distinguere tra un agnosticismo autentico e uno inautentico. Quello
inautentico è di un certo filone culturale che, dopo il fallimento
dell’ideologia marxista che fino agli anni ’80 ha costituito una vera e propria
fede per milioni di uomini, si è trincerato in un agnosticismo “dogmatico”,
venato da un naturalismo scettico, radicale. Qui il problema religioso non è
affrontato perché ogni fede, indipendentemente dai suoi contenuti, appare come
foriera di illusione e di intolleranza. Si tratta di un dogmatismo rovesciato,
negativo, che dipende dalla delusione verso un credo che si è rivelato falso.
L’agnosticismo autentico è, al contrario, caratterizzato da una autentica
ricerca del senso della vita. Non si arrende al nichilismo imperante ma cerca,
più o meno confusamente, un significato vero. Questa forma di agnosticismo
costituisce una via verso la fede, è un’attesa di Dio, del Dio ignoto di cui
parlava san Paolo nell’areopago di Atene.
F.P.
In un’epoca inquinata da molteplici estremismi (incluso il modo di produzione
capitalistico nella sua accezione contemporanea), logiche di chiusura e manovre
hobbesiane dirette verso il dolore, la finitudine e la morte, fanno certamente
fatica ad attecchire i motivi della laicità: ovvero quel prezioso
riconoscimento della complessità della vita, come direbbe Edgar Morin, e di
tutte quelle sfumature e dettagli che abitano il nostro orizzonte imperfetto.
Forse il non sapere d’ispirazione socratica può rappresentare l’unica base
realistica per provare a tracciare una diversa narrazione che si muova, però,
dal “concreto” dell’uomo e ripudi l’“astratto” delle ideologie. In questo
senso, l’agnosticismo autentico, di cui parla, può costituire non solo una via
durevole e problematica verso la fede, ma può anche rivelarsi la condizione
necessaria per un urgente e difficile impegno etico e laico.
M.B.
Non credo che l’agnosticismo sia in grado, oggi, di realizzare un contesto di
reale convivenza e laicità. Potrebbe farlo se avesse un’idea del bene comune e
delle verità essenziali che lo sostengono, ma allora sarebbe un agnosticismo
dimezzato, radicato su convinzioni forti. Credo che solo persone animate da
forti passioni ideali possano, in un momento in cui tutto sembra vacillare,
opporsi al manicheismo profondo, patologico, che in questo momento sta
dividendo i Paesi della terra. Persone i cui ideali si fondino sulla libertà,
sul rispetto, sulla persuasione, sulla non violenza, sull’inclusione. Le
democrazie, di cui andiamo così orgogliosi e che appaiono in Occidente così
esauste, hanno bisogno di grandi e certi ideali e non già del vuoto scetticismo
diffuso, ogni giorno, dall’industria mediatica del paradiso capitalistico
mondiale.
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