FACCIA A FACCIA
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di Alessandro D’Avenia
Per
vivere abbiamo bisogno del mondo: ci apriamo a ciò che è fuori di noi per
necessità. Andiamo incontro a cose e persone perché ci sono utili: il nostro
strato animale è fatto di bisogni. Noi umani però non ci apriamo per sola
necessità: gli animali non apparecchiano la tavola, non guardano i tramonti,
non scrivono lettere d’amore...
Ciò
di cui l’animale ha bisogno se lo prende dal più debole, con la forza, l’uomo
invece lo regola attraverso le relazioni commerciali, d’amore e di amicizia. Ma
se le relazioni sono fragili prevale la legge di natura, dove domina chi è più
forte, e la forza diventa violenza quando l’altro è percepito come proprietà o
minaccia. Se il 25 novembre si deve ancora celebrare una giornata contro la
violenza sulle donne è perché questa violenza tocca soprattutto la relazione
primaria. Ma anche qui la natura dà indicazioni chiare: mentre gli animali si
ri-producono (producono l’uguale, la specie), gli umani «fanno» l’amore, cioè
la relazione. I primi si accoppiano solo quando è necessario, i secondi quando
vogliono e, a differenza degli animali, guardandosi in viso: se l’evoluzione ci
ha portato a questo gioco libero e «faccia a faccia» è perché la sopravvivenza
umana non riguarda la specie ma la persona: si diventa se stessi solo facendo
la relazione con l’altro. E il volto è il luogo di questo gioco. Perché?
L’animale
ha il muso, non il volto, non si racconta, l’uomo sì. Noi facciamo l’amore per
dare nascita l’uno all’altro, e questo ci dà gioia. Ma se questo non accade
l’uomo regredisce a predatore, rinuncia alla sua evoluzione e si sente vivo
alla maniera del bruto (animale in latino), possedendo e sottomettendo: dice
«mio», come il bambino che strappa il gioco a un altro, per dire «io».
La
violenza è infatti paradossalmente proporzionale alla debolezza del sé, il
bisogno non matura in relazione, resta egocentrismo infantile. Negli ambienti
malavitosi, culmine di questo infantilismo del potere, si dice «meglio
comandare che fottere»: i due fenomeni sono percepiti come gradazioni di
potere, si esiste nella misura in cui si domina e sfrutta l’altro.
Nella
prima parte della narrazione simbolica della creazione biblica, Adamo non è il
maschio ma l’Umano (l’umanità intera: adam significa semplicemente fatto di
adamah, la terra), e ha la sua essenza nella dimensione relazionale, infatti la
donna è tratta «dal fianco» per indicare simbolicamente che è della stessa
materia (corpo sociale), l’Umano è uni-duale, cioè la sua essenza è la
relazione: l’altro gli è, appunto, «a fianco». L’umano non è in-dividuale
(letteralmente l’in-divisibile), ma duale (il con-divisibile), e se nel
racconto il principio maschile sottolinea il fare (lavorare il giardino di
Eden), quello femminile l’essere (Eva significa semplicemente la Vivente), è
perché le due dimensioni sono proprie, prima, dell’Umano, e poi, della dualità
corporea uomo-donna: tutti siamo chiamati singolarmente e socialmente a dar
vita attraverso la capacità creativa (e il primo lavoro umano è proprio la
relazione, un lavoro che non si improvvisa).
L’individualismo
ci fa invece credere che l’uomo è uno e deve auto-costruirsi tecnicamente, e
quindi la dimensione relazionale da essenziale diventa puramente funzionale.
Nel racconto quando l’umano vede per la prima volta l’altra, pieno di stupore
dice: «è come me», soggetto non oggetto. Scopre di essere relazione, prima in
se stesso: è capace di dialogo interiore. E poi fuori di sé: con l’altro, che è
parte di lui senza essere sua proprietà. Il male comincia quando agiscono soli,
individualisticamente. Se la donna non è «come me», e quindi «altro da me», ma
«mia», e quindi «altro per me», smette di essere soggetto e diventa oggetto,
mezzo.
Una
cultura individualista non riconosce e non educa alla dualità, alla relazione
come essenza dell’Umano: il mondo e gli altri sono il self-service del
self-made man. L’altro in quanto «mezzo» è riserva di «pezzi» di ricambio: lo
si fa a pezzi nella mente e nel cuore prima che nelle mani.
Una
frase di Cristo, uomo scandaloso per come trattava le donne (persino quelle
ritenute «intoccabili») va alla radice: «Fu detto: “Non commettere adulterio”.
Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per dominarla, ha già commesso
adulterio con lei nel cuore» (Mt 5). La traduzione «ha già commesso adulterio
con lei» nell’originale suona «ne ha distrutto l’integrità», cioè «l’ha
cor-rotta»: l’ha rotta, fatta a pezzi.
L’invocata
educazione alle relazioni che vogliamo affidare alla scuola non basterà a
mutare un modo di essere che si struttura nell’infanzia e nell’adolescenza
sulla base dei vissuti relazionali, né sarà sufficiente qualche lezione teorica
a trasformare lo sguardo individualista in relazionale. Serve un modo nuovo di
vivere e intendere il rapporto con gli altri, per accedere a un’energia
dell’essere differenti che ci è divenuta inaccessibile: l’individualismo
combinato al consumismo è infatti la negazione delle relazioni umanizzate e la
resa ai bisogni.
Una
cultura che elimina il corpo con l’uso continuo degli schermi dati ai bambini,
che avalla la pornografia, la pubblicità, le trasmissioni e le piattaforme
social in cui la donna è ora Venere sacra (la sua presenza, divinizzata e
idealizzata, serve a erotizzare oggetti o magnificare situazioni) ora Venere
profana (è lei stessa l’oggetto da vendere e usare), è una cultura ipocrita
perché prima allena lo sguardo che «fa a pezzi» la donna e poi si scandalizza
per la mancanza di rispetto. In una cultura individualistica e consumistica
l’educazione sentimentale diventa così ben presto retorica.
Solo
un’educazione dello sguardo, e quindi del cuore e della mente, «all’integrità»
(il contrario di dis-integrare: «fare a pezzi») dà agli umani un volto. Questo
sguardo si struttura sin da piccoli interiorizzando il modo in cui, a casa, a
scuola, per strada, in tv, gli adulti si rapportano prima con se stessi e poi
tra loro: oggetti o soggetti? La violenza è in tutti, uomini e donne, di tutte
le età e strati sociali: è nella persona. E solo un’educazione relazionale può
arginarla, perché allena a sentire l’altro come me stesso: se lo ferisco
ferisco me, se lo abbraccio, abbraccio me. E tutto comincia dal faccia a faccia
della relazione.
Provate
a tenere oggi la mano sul volto di qualcuno per almeno un minuto, in silenzio.
Quella stessa mano che potrebbe far violenza sentirà piano piano che il confine
del corpo non è l’io ma il noi, un pronome che in una poesia Mariangela
Gualtieri definisce largo quanto tutti i viventi. Noi diamo vita all’Umano solo
insieme, l’eros ci spinge a unirci e accogliere il peso e il bello della
differenza, in una energia e novità d’essere che brilla in quella luce duale
che chiamiamo amore.
Fonte:
Corriere della Sera
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