-di Giovanni Cucci
Un testo rivolto a tutti
La parabola del buon
samaritano (cfr Lc 10,25-37) può essere definita una vicenda dell’uomo comune
che parla all’uomo comune. L’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti non a
caso la riporta all’interno del tema della fraternità universale, considerandola
alla portata di tutti. Essa, quindi, costituisce il centro della riflessione
del Papa su questo tema (che occupa ben 20 numeri dell’enciclica), e anche il
suo punto di riferimento ideale: «Infatti, benché questa Lettera sia rivolta a
tutte le persone di buona volontà, al di là delle loro convinzioni religiose,
la parabola si esprime in modo tale che chiunque di noi può lasciarsene interpellare»
[1].
Colpisce anzitutto la
concretezza con la quale nel testo di Luca viene posta la questione della
fratellanza. Lo si capisce dalla risposta di Gesù alla domanda del dottore
della legge («Chi è il mio prossimo?»): una risposta niente affatto teorica.
Gesù non fa proclamazioni idilliache, ma presenta una scena di cruda violenza
nella quale chiunque può riconoscersi; nello stesso tempo, proprio quella
situazione di sofferenza e bisogno si rivela inaspettatamente un luogo in cui
incontrare il prossimo, letteralmente «colui che è vicino a me», al di là di
ogni differenza di lingua, ceto e fede religiosa [2].
Di fronte alla situazione
concreta, la domanda viene rovesciata, interpellando personalmente
l’ascoltatore nella sua situazione di possibile precarietà: «Quando tu sei nei
guai, chi è stato vicino a te?». Si tratta di una risposta esistenziale, che
nasce dal bisogno disperato di trovare aiuto. E quando si ripensa a quelle
situazioni, si scopre talvolta con stupore che spesso il soccorritore non è il
più vicino fisicamente, il parente, il conoscente, ma il perfetto sconosciuto,
il lontano, il passante casuale. Che è appunto lo scenario delineato dalla
parabola: una parabola, si potrebbe dire, realista [3].
Gli aspetti rilevanti
della parabola
Il brano presenta
anzitutto un dottore della legge, cioè un personaggio ritenuto giusto
nell’immaginario del tempo, che pone a Gesù l’unica domanda veramente
importante: «Che fare per vivere?». Luca utilizza un termine preciso,
«ereditare» (klēronomeō): si tratta di un bene che non si merita, ma,
come l’eredità appunto, si può soltanto ricevere.
Gesù, come spesso accade
in occasione di grandi questioni teologiche, non risponde, ma invita
l’interlocutore stesso a trovare la risposta. E difatti il dottore della legge
è perfettamente in grado di farlo, unendo due testi della Torah: la vita si
riceve amando Dio e il prossimo (cfr Dt 6,5; Lv 19,18). Il commento di Gesù
sposta il centro di interesse: egli approva la risposta del dottore della
legge, ma il punto è attuarla («Fa’ questo e vivrai»). Il banco di prova è la
vita, più che la correttezza delle definizioni. Ma è proprio questo che sembra
interessare al dottore della legge, e difatti egli pone un’ulteriore domanda:
«E chi è il mio prossimo?». Stabilire il possibile confine tra chi sia da amare
e chi invece da odiare era infatti una questione molto sentita e dibattuta nel
mondo giudaico.
Secondo alcuni, si
dovevano amare solamente gli appartenenti alla propria stirpe. Un passo del
Talmud (Abodah Zara, 26) presenta il caso contrario a quello mostrato
dalla parabola: se un ebreo dovesse trovare un samaritano e un pagano feriti,
non è obbligato a soccorrerli, anzi rischierebbe di contrarre impurità.
La risposta di Gesù
presenta una scena di vita ben nota. La strada tra Gerusalemme e Gerico era un
luogo molto pericoloso per chi si avventurava da solo, e non di rado cadeva in
agguati e imboscate, a rischio della propria vita. Il primo personaggio della
vicenda non ha caratteristiche particolari; è «un uomo», un termine che esclude
nuovamente l’approccio speculativo: nessuna precisazione circa la stirpe,
l’appartenenza religiosa o la moralità. L’unico tratto su cui Gesù indugia è
che quest’uomo è stato oggetto di violenza e che morirà se non troverà
soccorso. Una situazione che può riguardare chiunque: essere assalito dai
malfattori. Gesù non si sofferma neppure su di loro, ma fa seguire due
personaggi che per caso si imbattono nel malcapitato. E qui, a differenza di
quanto presentato prima, il testo precisa la loro appartenenza; sono persone
rispettabili, religiose, un sacerdote e un levita, che il brano non
caratterizza positivamente: entrambi hanno la medesima reazione, passano
dall’altra parte. C’è una nota polemica, che può suonare offensiva per il
dottore della legge: appartenenza religiosa e capacità di vivere la fratellanza
non coincidono.
L’eroe della parabola
Infine, entra in scena un
personaggio connotato positivamente, l’eroe della parabola. Se si fosse
trattato di un pio giudeo, Gesù avrebbe riscosso la piena approvazione degli
ascoltatori. E invece, di nuovo, egli delude le attese: il personaggio non ha nulla
di attraente, è un samaritano – non un buon samaritano! –, appartenente a un
popolo disprezzato dagli ebrei, perché si era corrotto unendosi ad altri popoli
e alle loro tradizioni, rinnegando la fede dei padri (cfr 2 Re 17). Il Siracide
lo chiama «il popolo stolto che abita in Sichem e che non merita nemmeno di
essere considerato un popolo» (Sir 50,25-26).
Si tratta di una rivalità
menzionata dallo stesso evangelista. Egli poco prima (cfr Lc 9,51-56) aveva
riportato il rifiuto da parte dei samaritani di accogliere Gesù, perché era
diretto a Gerusalemme. Ciononostante, Gesù sceglie proprio un samaritano: pur
trovandosi a passare per una strada pericolosa, quando vede il malcapitato, si
ferma, non mostra alcuna fretta. Il testo sembra ora rallentare, indugia a
descrivere con lentezza ciascuno dei suoi gesti: sono particolarmente degni di
nota i numerosi termini impiegati, sette dei quali – nella Bibbia il numero 7
indica la totalità – presenti soltanto qui, come a dire dell’importanza di
questa scena, che costituisce il punto focale del racconto.
Un samaritano
Il samaritano si fa
vicino, non ha timore di possibili contagi o di essere a sua volta assalito,
presta opera di pronto soccorso, mettendoci del suo: fascia le ferite, versa
olio e vino, lo porta alla locanda, ne paga il ricovero e promette di
ritornare, disposto a pagare le ulteriori spese. Anche il dettaglio della
locanda ha una finalità polemica. Al tempo di Gesù c’erano infatti due tipi di
locande: la prima ospitava gratuitamente, in linea con la sacralità riservata
all’ospite; nella seconda invece (chiamata pandocheion, il termine impiegato da
Luca) si doveva pagare, violando il sacro precetto del mondo orientale. Il
significato di questa scelta è evidente: «Non solo il samaritano gode di
cattiva fama presso l’interlocutore di Gesù, ma anche colui al quale ha chiesto
di proseguire le cure: l’esempio viene da due persone malfamate!»[4].
Un insegnamento
sconcertante
Il messaggio della
parabola è inequivocabile: il bene viene dalle persone e situazioni più
impensate; la fratellanza non conosce limiti, etichette, cerchie, appartenenze.
E si capisce davvero chi è il prossimo quando ci si trova nei guai e si cerca
disperatamente aiuto. È una lettura sconcertante delle situazioni tragiche,
nelle quali, come la storia ha più volte mostrato, insieme a orrori e
prevaricazioni, emergono atti di bontà e di coraggio ammirevoli, compiuti
proprio dalle persone più inaspettate.
[1]. Francesco, Enciclica Fratelli tutti. Sulla
fraternità e l’amicizia sociale (FT), 3 ottobre 2020, n. 56.
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