Fotografiamo la vita
mentre lei se ne va
da un’altra parte
Il
filosofo Umberto Galimberti lo aveva già ben spiegato qualche mese fa ai
lettori della Stampa. L’articolo si intitolava: «L’autoritratto è indecente» e
lì spiegava come la dittatura dell’immagine e, segnatamente, del selfie
rappresenti una tragedia della società attuale.
Secondo
il filosofo, l’autoscatto è il punto più alto del narcisismo umano: si tende a
volersi rappresentare da soli «per paura che l’altro possa dire qualcosa di
sbagliato o di male nei propri confronti». E continua: «Quando si va per musei
– definiti da Galimberti “la tomba dell’arte” – si tende più a fotografare le
opere e condividerle sui social, piuttosto che “godersi” la visita: così si
finisce per appiattire l’intera esperienza riducendola alla visione di uno
schermo».
Aggiunge:
«Io mi faccio un selfie, tutti si fanno un selfie, io sono tutti»: con questo
sillogismo aristotelico giochiamo a riassumere la società di oggi, dominata
dall’avvento dei social e dall’autoritratto digitale, oltre che dall’assenza di
una propria personalità. E precisa: «Chi guarda sé stesso è fuori da ogni
relazione. Solo l’altro dice chi siamo: fin dai tempi dei greci e dei latini,
la relazione con l’altro è qualcosa di fondamentale e ci rappresenta, in un modo
o nell’altro».
Ma
oggi, intervistato dalla fotografa Silvia Camporesi per Artribune, il filosofo
è andato oltre, paragonando il selfie a una tragedia. E la sua analisi è stata
ripresa da molti giornali stranieri. «Siamo passati dall’era dell’homo sapiens
a quella dell’homo videns che, spostandosi dall’essere all’avere, soggiace alla
necessità di fotografare qualsiasi cosa in qualsiasi momento, creando una forma
di compulsione del possesso delle immagini». E così ci illudiamo, fotografando
la vita, di vivere frapponendo fra noi e la realtà, una protesi che si chiama
telefonino, congelando così una vita che non abbiamo mai davvero vissuto.
Fotografiamo
tutto - spiega - noi stessi nello specchio dell’ascensore, un tramonto,
un’alba, una nascita, di fatto non vivendo mai in modo diretto la realtà, ma
pensando all’inquadratura, a frapporre fra noi e la vita che sta accadendo, un
congelatore di immagini e sensazioni, che accumuleremo in una memoria digitale
destinata a non essere consultata mai, perdendoci così il sapore vero della
vita».
Il
selfie, una proiezione evanescente di sé
«Il
selfie poi, – prosegue – come simulacro di perfezione è null’altro che una
proiezione evanescente di sé: ma del resto non è autentica. Aristotele diceva
che “Le persone perfette non combattono, non mentono, non commettono errori e
non esistono»
Il
fotografare se stessi selfie rappresenta dunque un’ iperbole mediatica priva di
fondamento. Sono le ombre proiettate all’interno della caverna nel racconto
platonico. Bisogna uscire dunque uscire dalla doxa (opinione superficiale e
variabile) data dall’immaginario evanescente del selfie, quindi delle ombre
sulle pareti della caverna per trovare la verità nella spontaneità.
Come
aveva già scritto sulla Stampa, Galimberti continua a preferire l’isolamento
piuttosto che la socialità di persona. «C’è anche – precisa – una sostanziale
differenza tra cercare gli altri e farsi vedere da questi ultimi: il selfie ha
proprio quest’ultima funzione, quindi qualcosa di puramente egocentrico».
Il
monito di questa lezione potrebbe essere «instagrammisti di tutto il mondo
lasciate il telefonino ed entrate nella vita. Più like e followers si hanno,
più si pensa di essere qualcuno e importante: in realtà, però, questo è
soltanto presenzialismo senza sostanza, senza un qualcosa di rilevante ai fini
della valorizzazione della nostra identità».
Alzogliocchiversoilcielo
Nessun commento:
Posta un commento